Anton Peter Zgraggen. Macchine caste, catalogo, L’Affiche, Milano, 28 settembre – 21 ottobre 2006

Le sue macchine sono qui, algide e orgogliose del loro meccanismo perfetto, di elementare micidiale funzionalità. Sono macchine crudeli, alle quali Anton Peter Zgraggen applica la meticolosità minuziosa, la sapienza dei congegni, la logica della tecnica spinta sino alle soglie dell’autocannibalismo, e soprattutto l’accelerazione creativa dell’artigianalità che si fa, infine, hacking.

Zgraggen, Newton, macchina per polverizzare un oggetto, 2005

Zgraggen, Newton, macchina per polverizzare un oggetto, 2005

Hacking, cioè non negazione o adozione paradossale di una tecnica, ma ricerca puntuale del punto di ridondanza e di frattura del meccanismo, in cui l’ossessione della funzione viene assassinata dalla sua stessa enfasi, dalla sua applicazione freddamente estrema.

La molla tende i cavetti sulle pulegge, le cui staffe a propria volta premono sulle estremità di una sfera metallica sino a tenerla sospesa al centro del telaio quadrato. La sfera è lì, lucente e straniata, come incorniciata a palesare la contraddizione tra la sua shape geometrica, la sua tutta mentale bellezza pitagorica, e l’oscura oggettività materiale, il peso tremendo che la tensione tagliente dei cavi traduce in energia inespressa, ma tutta presente. Dal telaio scendono verticali due lunghi montanti, i quali a loro volta reggono un piattello posato su un traverso.

Zgraggen blocca la situazione a questo punto. Una serie di tensioni eccezionali e di simmetrie perfette, una potenza temibile raggelata in una struttura essenziale, e l’occhio dello spettatore che non può non continuare a saggiare, nei mille modi che le strategie di aspettativa conoscono, l’icastica violenza che la macchina promette: misura compulsivamente la distanza tra sfera e piattello, ascolta lo schiocco istantaneo e brutale del cavo che si libera, prevede il sibilo breve della caduta e il clangore dell’impatto, avverte nel proprio corpo, come immedesimandosi, il riverbero tremendo del colpo nelle barre montanti, il torcersi spasmodico delle giunture, il distruggersi del congegno perfetto all’atto stesso della sua esplicitazione funzionale. Il tutto, in una frazione di tempo brevissima, pensabile più che esperibile: tremendamente fisica, concreta, tanto quanto in realtà solo pensabile nel tempo astratto del mentale.

Zgraggen non si compiace della politezza e dell’economia tecnica del suo congegno: essa è una necessità. La macchina, ogni macchina, deve essere così, funzione bauhausianamente snudata al di là di ogni ridondante richiesta estetica. E’ una necessità, e insieme il principio primo su cui funzione il feroce processo inventivo al quale l’artista attende, come un coboldo dal genio paradossale, nascosto nel suo antro/officina.

L’artigianalità è perfetta, la progettazione attenta e inflessibile, il tempo di realizzazione lungo e paziente. Alla fine la macchina è lì, concettualmente perfetta e tecnicamente eseguita a regola d’arte: è lì, ingegno lucido e riflessivo posto al servizio di un evento che non può, per paradosso geniale, darsi: o meglio, che all’atto stesso di darsi si vanifica.

Non si può non pensare all’ingegneria complessa e devinante delle macchine di Tinguely ma anche, allo stesso tempo, alla scacco intellettuale della scatoletta di merda o dell’uovo di Manzoni, opera che si avvera nella perdita dell’opera stessa, tensione tutta intima all’aspettativa, allo iato insanabile tra possibile ed effettivo.

Ma forse Zgraggen, che pure di quella genia ha ereditato i croomosomi, è figlio in pari grado del clima di guerra fredda in cui le nostre generazioni sono cresciute, di quella specie di delirio tecnologico che abbiamo traversato – posto che mai ne siamo usciti – consistente nel costruire sofisticatissimi e fascinosi congegni bellici, cui si applicava il fior fiore dell’ingegno umano, proprio per non usarli: ove il grado di compiacimento erotico, l’orgasmo sottile del pensiero risiedeva proprio nel saperne l’effettiva natura letale, a patto che rimanesse lì, bloccata nell’attesa compiaciuta e ansiosa, ritratto perfetto di una civiltà delle macchine che ha trovato il modo di declinare nel modo più orgogliosamente avanzato la faccenda ancestrale di eros e thanatos.

Zgraggen la violenza ancestrale la trasforma in una machinerie di proporzioni domestiche e paradossali, il cui culmine, che non esiterei a definire poetico e che certo i nostri – di Zgraggen, di Adriano Mei Gentilucci e miei – amici apprezzerebbero sicuramente, da Cravan a Picabia ad Alexej Shulgin, il quale ultimo come Zgraggen è anche musicista, è la macchina taglientissima e crudele la cui funzione è recidere un fiore.

L’erotismo, d’altronde, egli lo circumnaviga e titilla con sapiente feticismo. E’ il feticismo della macchina predisposta per un acuminato colpo di tacco di una scarpa femminile rossa, è quello della macchina concepita per strappare un indumento: ma in realtà è il feticismo della macchina tout court, quello più suadente e pericoloso.

Finalmente, è il caso di dire, dai bordi dell’arte ci arriva un artista spietato. Spietato per davvero.

Un artista, insomma, non un vagheggino da sistema dell’arte.