08. Giovan Battista Armenini
Giovan Battista Armenini, De’ veri precetti della pittura, 1587
F’ra le prime e più importanti parti che quivi sia di bisogno, io ho sempre tenuto e tuttavia io tengo ch’egli sia l’avere et il possedere con modi fermissimi e sicuri una buona maniera, per la quale io stimo non si possa acquistare da niuno giamai, se non n’ha prima da natura un bonissimo giudizio mediante un assiduo studio, con li debiti avertimenti di conoscere et imitare il buono per le fatiche de’ più eccellenti; percioché se ben molti ci sono che dicono esser difficultà grandissima il poter farsi inventor buono e copioso col ponervi intorno ogni fatica e studio, si conosce perciò che si può conseguire quasi da ogni mediocre ingegno, ma il saper poi spiegar quell’invenzione con bella e dotta maniera, si vede esser concesso a pochi, dove ch’infiniti si sono ingannati, perché non credevano di sé medesimi così restare molto adietro, del che si sono avveduti allora quando essi hanno voluto le sue cose ridurre a perfezzione. Nella qual parte ci sono molti che v’inciampano dentro, percioché le più volte è poco conosciuta da’ giovani troppo bramosi, se essi non sono da principio bene avertiti, percioché si vede essere poi quelli accecati ancora di quello che communemente aviene, che è di quella affezzione che si hanno alle sue cose proprie, percioché ci è a tutti chiaro che non si vien mai ne’ primi principii bene a conoscere il vero lume, ma si adombra e si figura solamente la virtù dell’ingegno, sì come l’ombra il corpo, onde a pena si comprende la spoglia, credendone vedere assai. Né io so veramente che naturale amore sia di tutti noi su questi principii, poiché a ciascun pare
di esser dotto in maniera nelle sue cose, che stima non si potere passar più oltre, et i lor dissegni e le lor pitture li paiono essere sopramodo mirabili. E ciò tanto più gli aviene, quanto di giudizio più manchevoli sono, percioché gli studiosi e più sottili d’ingegno più oltre andando acquistano più d’intelletto, di modo che col tempo trovandosi, nell’avanzar ch’essi fanno, sé esser fuori della dritta via, con l’aprir tuttavia gli occhi, e fatti sicuri del dritto sentiero, et avendo vinto con l’ardente studio tanta fatica, del suo non conosciuto errore e del tempo perso vedendosi poi con facilità sallire, ne prendono maraviglioso diletto, ricordandosi, sì come colui che de’ passati errori si ravvede, che salvo e libero ne sia uscito; e questi sono coloro che si trovano aver presa una maniera che gli riesca in ogni sua cosa con grazia, proporzione e fondamento. Per la quale volendone noi dar quelle regole e quelli avertimenti che a noi par migliori, ci affaticaremo ancora di esser il più che si può facili e chiari.
Due sono dunque le vie per le quali la predetta maniera apprender si può con molta fermezza: l’una è il frequente ritrarre l’opere di diversi artefici buoni; l’altra è il dare solamente opera a quelle di un solo eccellente. Ma della prima generalissima et universal regola sarà di sempre ritrar le cose che sono più belle, più dotte e più alle buone opere de gli antichi scultori prossimane, e sopra di esse con lo studio continuo fattovi l’abito, ne sia possessor talmente, ch’egli possa rapportar una e più composizioni ad ogni sua occasione in atto, e questo li sia famigliare in modo, che quel buono dell’antico, ch’egli avrà studiato, gli apparisca mirabilmente, io dico così ne’ primi schizzi come ne’ dissegni da lui finiti, et in consequenza nelle pitture ancora grandi, il che io non lo trovo molto difficile in fino a un certo segno. Conciosiacosa che il continuo fare et il continuo ritrarre le cose ben fatte, è cagione che si facciano le sue per certa regola benissimo; et è certo così, poiché l’imitazione non è altro che una diligente e giudiziosa considerazione, che si usa per poter divenire col mezo delle osservazioni simile agli altri eccellenti. Ma accioché da voi si conosca a pieno il fondamento da potervi specchiar in esso, e per dove possiate capire con sicurezza il buono, e massimamente delle figure per essempi principali, vi si porranno innanzi alquante scolture antiche delle più note, e che sono più intiere ai tempi nostri, e che più ancora si accostano alla perfezzion vera dell’arte. Conciosiacosa che quelli che scolpirono queste opere, si conosce che essi scielsero il più bello dal natural buono, e che con l’aiuto dell’ottimo giudizio loro lo congiunsero con molta perfezzione insieme; dalla bellezza e bontà delle quali i più eccellenti artefici, che avanti di noi furono, ne trassero con grande stupor d’ogniuno il vero lume delle loro maniere, il che si vede essere uscito dallo studio di Roma: le quali statue son queste: il Laocoonte, l’Ercole, l’Apollo, il Torso grosso, la Cleopatra, la Venere et il Nilo, con alcun’altre pur di marmo, che tutte sono poste in Belvedere, nel palazzo papale sul Vaticano. E di quelle che poi sono per Roma sparse, fra le prime vi è il Marco Aurelio di bronzo, ora posto su lo spazio del Campidoglio, così i giganti di Monte Cavallo et il Pasquino, con altre che ci stanno, ma men buone di queste. Ci è notissimo ancora quelle che ci sono di mezo e di basso rilievo, perché si vedono l’istorie che sono nelli archi con bellissimi andari, sì come è nelle due colonne, io dico la Traiana e l’Antonina, che pur ci sono in piedi, se bene il volger del cielo tuttavia è nimico delle opere umane. Io non dirò più oltre ancora di un numero infinito di sepolture, di animali e di pilli, con altri diversi fragmenti di cose rarissime, che per esser note a quelli che vi fanno studio ci par lecito a tacerle. E delle statue poi più remote, ne sono al presente raccolte in Campidoglio, in casa de’ Massimi, alla Valle, e per le case di molti altri nobili cittadini, che si lasciano per brevità i lor nomi, sì come è ancora dentro i palagi di molti cardinali et alle loro vigne e giardini, delle quali i nomi de’ possessori in particolar tacemo, percioché spesso patiscono mutazione per la morte de’ lor signori, né perciò sogliono essere occulte ai professori, che quelle imitano tuttavia. Vi aggiungemo di poi tutte l’opere del divin Michelangelo Buonaroti, quelle di Baccio Bandinelli e quelle di frate Guglielmo milanese; e se ben questo studio, che detto abbiamo, non è in poter di tutti li studiosi, percioché si sa bene che non possono tutti star lungo tempo in Roma sotto tante fatiche e con tante spese, ci sta perciò in gran parte il modo di averne molto, io dica sin nelle proprie case loro, sì come sono quelle che di gesso sono formate su le proprie benissimo, overo che siano di altra materia ritratte da’ buoni maestri. Io ho veduto il Laocoonte ritratto di cera da quello di Roma, il quale non passava due palmi di grandezza, che si può dire che era il proprio in quella forma. Ma se quelle parti che di gesso sono su quelle formate si possono avere, senza dubbio sono migliori, poiché vi è ogni minuzia a punto nel modo che nel marmo si comprende, sì che si godono bene e servono ottimamente a gli studiosi, oltre che poi tuttavia sono commodissime, sì per essere leggieri et atte a maneggiarsi et a portarsi in ogni paese, sì ancora per il precio, il qual si può dire essere vilissimo, io dico a rispetto il valore delle proprie; dove che per così eccellenti mezi non vi è scusa per niuno che ben s’invoglia di apprendere il buono et antico sentiero. Io ne ho veduto studii e camere piene di tal materia e formate benissimo, sì come in Milano, in Genova, in Venezia, in Parma, in Mantoa, in Firenze, in Bologna, in Pesaro, in Urbino, in Ravenna et in altre minori città […]