09. Giovan Battista Armenini
Giovan Battista Armenini, De’ veri precetti della pittura, 1587
Egli è antico e molto laudabile costume de gli ecellenti pittori, che quando si sentono avere carrico di dover far alcune opere onorate e di momento, trovate ch’essi hanno l’invenzioni, al fermo si mettono da sé a fabricar di molte figure di tondo rilievo e tal volta ancora delle istorie intiere, e ciò cercano fare con belle proporzioni e giuste misure al più che possono,onde il più di loro le fanno di grandezza e forma che ritrar ne vogliono i lor dissegni in carta finiti, e ciò veramente non senza molta lor fatica et industria di longhissimo tempo, per trovarsi come constretti a dover mettersi in quella prattica, la qual non è tutta via di loro se non per simili imprese. Il che fanno sì per cagion delli scurci e sbattimenti che delle figure nascono, de i quali spesso ne son dubbiosi, sì come ancora per certificarne la mente di più diverse cose che nelle istorie si richiedono; il lume delle quali per lo artificio che in esse trovano gli è di tanto giovamento e di tal forza, che per ciò le loro opre, come quelle che siano uscite dal vero, le riescono poi benissimo sopra modo: percioché più quelle si accostano alla intima perfezzione, che non fanno tutte quelle di altri valenti uomini dipinte per altre vie, e perciò vengono ad essere tenute in molta riputazione da gli intendenti, et in molto precio gli artefici che le fanno. Sì che mi par bene di ragionar sopra i predetti modelli, circa al farli bene
e con modi espediti, di maniera che restino di perfezzione assoluti. Alcuni adunque si fabricano di cera, alcuni di terra, altri grandi, altri piccoli, altri vestiti, altri ignudi, e quando in piedi e quando a sedere e quando distesi, secondo i bisogni, gli atti et i soggetti delle cose che essi dipinger vogliono. Ma è da sapere che in tutti ci vuole le sue debite misure, delle quali noi esporremo solamente le maggiori con lasciar le minute particelle e sottigliezze di linee e quadrati a quelli che fanno le figure di tarsia e le prospettive, come ne tratta Alberto Durero et altri pochi, poiché ci sono pittori, alli quali queste paiono superflue a sapersi, forse fondandosi su quello che sopra di ciò soleva rispondere l’eccellente Michelangelo Buonaroti, il quale diceva che bisognava aver li sesti ne gli occhi e non in mano, perché la mano opera e l’occhio giudica, il che è verissimo. Ma se però si considera in tante sue opere, si vedrà ch’egli non passò mai i termini delle debite misure, sì come di molti si vede, che hanno fatto con molto biasimo e vergogna loro e delle sue cose per non ne far conto alcuno.
Ma lasciando i licenziosi da parte, le misure saranno queste: che di ogni proporzionata testa, cominciando dal principio della fronte sino alla fine del mento, la sua giusta misura sia lunga per tre nasi giusti. Altri la fanno per tre diti grossi della mano, detto police da’ Latini. Ma mi par bene ancora, per utile e beneficio di quelli, che alle volte gli occorrono a fare delle statue di stucco grandi, di dirli più a minuto delle misure della testa. Io ho detto che la lunghezza di essa si fa di tre pollici giusti, così la sfenditura della bocca, overo longhezza, si fa di uno, similmente le incassature de gli occhi si fa d’un police l’una misurandole perfin dove confina il naso con la fronte, le quali due parti si divide in tre, delle quali se ne dà una per occhio, e quella di mezzo si dà allo spazio che è tra l’un occhio e l’altro; di un pollice ancora si fa lo spazio che è tra l’occhio al principio del giro dell’orrecchio, sicome del medesimo si fa la lunghezza dell’orrecchia. E questo basti intorno a ciò.
Ma ora ritornando alla prima misura del viso, la quale noi dicemmo essere una testa, con questa adunque si vien misurando tutta la figura dell’uomo per ogni verso, così di maschio come di femina: dove che alcuni di nove et alcuni di diece teste le formano. Quelli che le misurano col minor numero, tengono questo modo, che, misurata la prima testa nel modo predetto, fanno il torso del corpo per tre di quelle, dico dalla fontanella della gola sino all’ultima parte del corpo; e da questa alle ginocchia ne fanno due, et altre due ne danno alli stinchi fino al collo del piede, e dell’ultima pigliano il collo, il dosso del piede e quello ch0avanza dalla fronte alla somità del capo, e di queste tre particelle messe insieme ne fanno una dalla fontanella della gola all’appiccatura delle brazza, e di tre ne fanno le brazza fino all’appiccatura della mano, facendo dalla spalla al gomito una testa e due terzi, e dal gomito alla snodatura che divide il braccio dalla mano una et un terzo, e le mani insieme ne fanno una, senza il superfluo delle dita, che fanno il medesimo numero di nove. Ma quelli i quali usano il maggior numero, pigliano la prima misura dalla sommità del capo sino alla punta del naso, e questa è una testa, e di qui alla fontanella della gola ve ne fanno un’altra, e con la terza arrivano a quella del petto, e la quarta fino all’umbilico, e la quinta ai membri genitali, e così di due fanno la coscia fino all’osso superiore del ginocchio, e da questo fino alla pianta del piede ve ne fanno tre, che sono dieci, e per il traverso poi si tengono alla misura detta di sopra, giungendovi le dita distese, che pure arrivano al numero predetto.
Di tutte queste misure noi ce ne siamo certificati più volte sì col naturale e sì con le più perfette statue che siano in Roma, delle quali ancorché nella pittura, per ogni poco di scurzo che si faccia, si smariscono gli ordini e perdonsi, nientedimeno io ho però visto dipinte et in dissegno di molte istorie fatte da i più eccellenti essere senza scurzi di cosa che punto rilievi in esse per tal cagione; e perciò se bene pare a molti che i pittori valenti non le usino per ordine di compasso, il che è vero, perché il modo che hanno del servirsene sempre, e prima col lume del loro discorso, il quale è però mediante la ferma scienza di esse; e ciò è che intendeva Michelangelo di quel sesto, che si è detto di sopra di dover aversi ne gli occhi.
Ma perché è nostra intenzione principale il discoprirvi tuttavia tali sentieri di queste parti, che il tempo si abrevii insieme con le fatiche per chi vi studia, così si è trovato un modo, il quale ci par molto acconcio e facile a ciò fare: e questo è col mezo di una figura di rilievo ben fatta, della quale, o sia di maschio o sia di femina, secondo a che servir si vuole, io giudico che se ne faccia le forme di gesso, le quali, come si sa, sono di molti pezzi, e con queste forme io voglio poi che di terra morbida se ne formi quante glie ne piace, dico se ben ne volesse e li fosse di bisogno per averne una copiosa e grande istoria. Ma qui parrà forse ciò una baia, prima che gli effetti di esse si sappiano bene. Io dico che con questa moltitudine e facilità di figure, messe che sono insieme, sì come tutte di una grandezza, sopra di un istesso piano, io ne cavo prima l’ordine del comporre l’istoria certissimo e senza diffetto, et appresso io le posso ridurre in quale attitudine più mi piace e mi bisogna, nel modo che vedrete. Dalle quali chiarissimo io rimango, in qual dubbio io mi sia, io dico circa i lumi, gli scurci, gli sbattimenti e le positure; né di qui però si pensi niuno che io sia così privo di mente verso quella ragione aperta del dire, che per ogni poca mutazione che si faccia di una figura, rimovendosene le membra di essa, diverso effetto è forza che faccia dal primo, perché ciò è verissimo e si concede. Ma per ciò non mi si può negare che, avendosi di più pezzi una buona figura, la non si possa in diversi modi ancora condursi bene e con poca fatica, atteso che de’ mutamenti diversi lo scostarla dal suo primo si vede quasi sempre essere la difficultà per dove le ossa si snodano insieme e si torcono in più modi; ne’ quali luoghi se allora si tagliarà alquanto di quella terra nella parte di dentro, in modo che si possa avinchiare, è certo che si ridurrà poi nel modo che si vuole; io dico, o sia brazza o gambe o corpo, che quelle si condurranno a tal segno, che per una veduta poi di natural buono si tirerà alla corrispondenza delle sue vicine proporzioni e del restante. E si vede che pur vi rimane tutte le membra intiere con la sua debita materia, le sue giuste misure e la proporzionata sua bellezza di prima. E per ciò gran sciocchezza è stata veramente di quelli che nel fare i loro modelli si sono incominciati a fabricarli da capo ad uno ad uno, potendosi averne quasi infiniti ne’ modi predetti. Sapiatevi dunque delle facilità servire, e lasciate l’estreme difficultà a chi le vuole.
Ma chi è che ancora non sapia che di una o di due figure di tondo rilievo, solamente col voltarle nel modo che sono per diverse vie, non se ne cavino molte in pittura e tutte tra sé diverse? poi che ciò pur si vede, da chi punto considera, nel Giudizio dipinto da Michelangelo, lui essersi servito nel termine ch’io dico. Né ci sono mancati ch’anno detto quivi ch’egli n’aveva alcune fatte di cera di man sua, e che li torceva le membra a modo suo, immollandole prima le giunture nell’acqua calda, acciò quelle a rimorbidir si venisse; della qual via, come forse riuscibile, io ne lascio la prova all’arbitrio d’ognuno. Io so bene che Lionardo Vinci, vedendo quello, e forse di ciò accorto, secondo ch’io intesi da un suo allievo in Milano, ebbe ardire di dire che questo solo li dispiaceva di quell’opera, che in troppi modi si era servito di poche figure, e che perciò tanto li pareva veder muscoli nella figura d’un giovane, quanto d’un vecchio, et il simile esser de’ contorni. Ma perché de’ modelli molti cuoprono e vestono in varii modi e con più sorte panni, se quelli dunque si vuol vestire di panni grossi, si piglia tela di lino alquanto ferma e s’immolla nella creta liquida a guisa di loto, e questo si fa acciò le pieghe rimangan ferme e vengano più morbide, la quale vi si pone sopra abondante, e si vien acconzando le pieghe che lo ignudo si scuopra con destro modo secondo il giudizio suo; e se quelli vanno sutili, si toglino i panni sutilissimi; se si vorrà contrafare i cangianti, si tole esso cangiante, il quale va bagnato nella colla dolce e senza loto. Ma la difficultà di tutti i panni consiste che girino bene sopra l’ignudo e non lo impedire quasi niente, nel modo che fa la pelle sopra l’ossa, o l’acqua la forma nella rena. Tali saranno adunque con brevità le vie del formare e del servirsi di quelli abondevolmente.