Giovan Pietro Bellori, L’idea del pittore, dello scultore e dell’architetto, 1664

Quel sommo ed eterno intelletto, autore della Natura nel fabbricare le opere sue maravigliose, altamente in se stesso riguardando, costituì le prime forme chiamate Idee; in modo che ciascuna specie espressa fu da quella Prima Idea, for­mandosene il mirabile contesto delle cose create. Ma li cele­sti corpi sopra la Luna, non sottoposti a cangiamento, resta­rono per sempre belli ed ordinati, qualmente dalle misurate sfere, e dello splendore degli aspetti loro, vediamo conoscer­li perpetuamente giustissimi e vaghissimi.

Al contrario avviene de’ corpi sublunari soggetti alle alterazioni ed alla bruttezza; e sebbene la Natura intende sempre di produrre gli effetti suoi eccellenti, nulladimeno per l’inequalità della materia, si alterano le forme, e particolarmente l’omana bellezza si confonde, come vediamo nell’infinite deformità e sproporzioni, che sono in noi. Il perché li nobili pittori, quel primo Fabbro imitando, si formano anch’essi nella mente un esempio di bellezza superiore, ed in esso ri­sguardando, emendano la Natura senza colpa di colore e di li­neamento. Questa Idea, ovvero Dea della Pittura e della Scultura, aperte le sacre cortine degli alti ingegni, dei Dedali e degli Apelli, si svela a noi, discende sopra i marmi e sopra le tele; originata dalla Natura, supera l’origine, e fassi l’origine dell’Arte; misurata dal compasso dell’intelletto, diviene misu­ra della mano, ed animata dall’immaginativa, dà vita all’im­magine. Sono certamente, per sentenza de’ maggiori Filosofi le cause esemplari negli animi degli artefici, le quali risiedono senza incertezza perpetuamente bellissime e perfettissime.

Idea del pittore e dello scultore è quel perfetto ed eccellente esempio della mente, alla cui immaginata forma imitan­do, si rassomigliano le cose, che cadono sotto la vista: tale è la definizione di Cicerone nel libro dell’Oratore a Bruto: “Ut igitur in formis et figuris est aliquid perfectum et excellens, cuius ad excogitatam speciem imitando referentur ea, quae sub oculis ipsa cadunt; sic perfectae eloquentiae specimen animo videmus, effigiem auribus quaerimus».

Così l’Idea costituisce il perfetto della bellezza naturale, ed unisce il vero al verisimile delle cose sottoposte all’occhio sempre aspirando all’ottimo, ed al meraviglioso; onde non solo emula, ma superiore fassi alla Natura, palesandoci l’opere sue eleganti e compite, quali essa non è solita dimostrarci perfette in ogni parte. Questo pregio conferma Proclo nel Timeo, dicendo: “Se tu prenderai un uomo fatto dalla Natura, ed un altro formato dall’arte statuaria, il naturale sarà meno prestante, perché l’arte opera più accuratamen­te ». Ma Zeusi, che con la scelta di cinque vergini formò l’immagine di Elena tanto famosa, da Cicerone posta in esempio all’oratore, insegna insieme al pittore, ed allo scul­tore a contemplare l’Idea delle migliori forme naturali, con farne scelta da vari corpi, eleggendo le più eleganti. Imperoc­ché non pensò egli di poter trovare in un corpo solo tutte quelle perfezioni, che cercava per la venustà di Elena, men­tre la Natura non fa perfetta cosa alcuna particolare in tutte le parti: “Neque enim putavit omnia, quae quaereret ad ve­nustatem uno in corpore se reperire posse, ideo quod nihil simplici in genere omnibus ex partibus Natura expolivit “.

Vuole però Massimo Tirio che l’immagine dei pittori così presa dai corpi diversi partorisca una bellezza, quale non si trova in corpo naturale alcuno, che alle belle statue si avvici­ni. Lo stesso concedeva Parrasio a Socrate, che il pittore, propostosi in ciascuna forma laa bellezza naturale, debba prendere da diversi corpi unitamente tutto ciò che ciascuno, a parte a parte, ottiene di più perfetto, essendo malagevole il trovarsene un solo in perfezione. Anzi la natura per questa cagione è tanto inferiore all’arte, che gli artefici similitudina­ri, e del tutto imitatori de’ corpi, senza elezione e scelta dell’Idea, furono ripresi. Demetrio ricevé nota di esser troppo naturale; Dionisio fu biasimato per aver dipinto gli uomini simili a noi, comunemente chiamato antropographos cioè pittore di uomini; Pausone e Pirreico furono condannati maggiormente per aver imitato li peggiori e li più vili, come, in questi nostri tempi, Michel Angelo da Caravaggio fu troppo naturale, dipinse i simili; e il Bamboccio i peggiori.

Rimproverava però Lisippo al vulgo degli scultori, che da essi venivano fatti gli uomini, quali si trovano in natura; ed egli gloriavasi di formarli quali dovevano essere, unico precetto dato da Aristotele così ai poeti come ai pittori. Di que­sto fallo non venne altrimenti imputato Fidia, che indusse meraviglia ne’ riguardanti con le forme degli Eroi e degli Dèi, per aver imitato piuttosto l’Idea che la Natura; e Cice­rone di lui parlando afferma che Fidia, figurando il Giove e la Minerva, non contemplava oggetto alcuno, ond’egli prendesse la simiglianza, ma considerava nella mente sua una forma grande di bellezza, in cui fisso riguardando, a quella simi­litudine indrizzava la mente e la mano: “Nec vero ille artifex cum faceret Iovis formam aut Minervae contemplabatur ali­quem, a quo similitudinem duceret, sed ipsius in mente insi­debat species pulchritudinis eximia quaedam, quam intuens, in eaque defixus, ad illius similitudinem artem et manum di­rigebat”. Onde a Seneca benché Stoico, e rigoroso giudice delle nostre arti, parve gran cosa; ed egli si meravigliò che questo scultore, non avendo veduto né Giove, né Minerva, nulladimeno concepisse nell’animo le forme loro divine: “Non vidit Phidias Jovem, fecit tamen velut tonantem, nec stetit ante oculos eius Minerva, dignos tamen illa arte ani­mus, et concepit Deos, et exhibuit”. Apollonio Tianeo c’in­segna il medesimo, che la fantasia rende più saggio il pittore che l’imitazione; perché questa fa solamente le cose che ve­de; quella fa ancora le cose che non vede, con la relazione a quelle che vede.

Ora, se con li precetti delli antichi sapienti riscontrare vogliamo ancora gli ottimi instituti de’ nostri moderni, insegna Leon Battista Alberti che si ami in tutte le cose non solo la si­miglianza, ma principalmente la bellezza, e che si debba an­dar scegliendo da’ corpi bellissimi le più lodate parti. Così Leonardo da Vinci istruisce il pittore a formarsi questa Idea, ed a considerare ciò che esso vede, e parlar seco, eleggendo le parti più eccellenti di qualunque cosa. Raffaello da Urbi­no, il gran maestro di color che sanno, così scrive al Casti­glione della sua Galatea: “Per dipingere una bella mi biso­gnerebbe vedere più belle, ma per essere carestia di belle donne, io mi servo di una certa Idea che mi viene in mente”. Guido Reni, che nella venustà ad altro artefice del nostro se­colo prevalse, inviando a Roma il quadro di S. Michele Ar­cangelo per la Chiesa de’ Cappuccini, scrisse ancora a monsi­gnor Massani, Maestro di casa di Urbano VIII: “Vorrei aver avuto pennello angelico, o forme di Paradiso per formare l’Arcangelo, o vederlo in Cielo; ma io non ho potuto salir tant’alto, ed in vano l’ho cercato in terra. Sicché ho riguarda­to in quella forma, che nell’idea mi sono stabilito. Si trova anche l’Idea della bruttezza, ma questa lascio di spiegare nel Demonio, perché lo fuggo, né mi curo di tenerlo a mente”.

Vantavasi però Guido dipingere la bellezza non quale gli si offeriva agli occhi, ma simile a quella che vedeva nell’Idea: onde la sua bella Elena rapita, al pari dell’antica di Zeusi fu celebrata. Ma non fu così bella costei, qual da loro si finse, poiché si trovarono in essa difetti e riprensioni; anzi si tiene ch’ella mai navigasse a Troia, ma che in suo luogo vi fosse portata la sua statua, per la cui bellezza si guerreggiò dieci anni. Stimasi però che Omero ne’ suoi Poemi adornasse una donna, che non era divina, per gratificare i Greci, e per rendere più celebre il soggetto suo della guerra Troiana, nel mo­do ch’egli innalzò Achille ed Ulisse nella fortezza e nel consiglio. Laonde Elena con la sua bellezza naturale non pareggiò le forme di Zeusi, e d’Omero, né donna alcuna fu, che rite­nesse tanta venustà quanta la Venere Cnidia, o la Minerva Ateniese, chiamata la bella forma; né uomo in fortezza oggi si trova, che pareggi l’Ercole Farnesiano di Glicone, o donna, che egguagli in venustà la Venere Medicea di Cleomene.

Per questa cagione gli ottimi poeti ed oratori, volendo celebrare qualche sopraumana bellezza, ricorrono al paragone del­le statue, e delle pitture. Ovidio descrivendo Cillaro, bellissi­mo Centauro, lo celebra come prossimo alle statue più lodate: “Gratus in ore vigor; cervix umerique, manusque / Pectoraque artificum laudatis proxíma signis”.

Ed in altro luogo altamente di Venere cantò, che se Apelle non l’avesse dipinta, sin ora sommersa rimarrebbe nel mare, ove nacque: “Si Venerem Cous nunquam posuisset Apelles, / Mersa sub aequoreis illa lateret aquis”.

Filostrato innalza la bellezza di Euforbo simile alle statue di Apolline, e vuole che Achille di tanto superi la beltà di Neot­tolemo suo figliolo, quanto li belli sono dalle statue superati. L’Ariosto, nel fingere la bellezza di Angelica, quasi da mano di artefice industre scolpita l’assomiglia legata allo scoglio: “Creduto avria che fosse stata finta, / O d’alabastro, o d’altri marmi illustri / Ruggiero, ed allo scoglio così avvinta / Per artificio di scultori industri”.

Nei quali versi l’Ariosto imitò Ovidio, descrivendo la me­desima Andromeda: “Quam simul ad duras religatam brachia cautes / Vidit Abantiades, nisi quod levis aura capillos / Moverat, et tepido manebant lumina fletu, / Marmoreum ratus esset opus”.

Il Marino, celebrando la Maddalena dipinta da Tiziano, applaude con le medesime lodi alla Pittura, e porta l’Idea dell’artefice sopra le cose naturali: “Ma ceda la Natura, e ceda il vero / A qual che dotto Artefice ne finse, /  Che qual l’avea nell’alma, e nel pensiero, / Tal bella, e viva ancor qui la dipinse”.

Dal che apparisce non essere giustamente ripreso Aristo­tele nella Tragedia del Castelvetro, volendo questi che la virtù della Pittura non consista altrimenti in far l’immagine bella e perfetta, ma simile al naturale o bello o deforme; qua­si. l’eccesso della bellezza tolga la similitudine. La qual ragione del Castelvetro si ristringe ai pittori icastici, e facitori de’ ritratti, li quali non serbano Idea alcuna, e sono soggetti alla bruttezza del volto e del corpo, non potendo essi aggiungere bellezza, né correggere le deformità naturali, senza torre la similitudine; altrimenti il ritratto sarebbe più bello, e meno simile. Di questa imitazione icastica non intende il filosofo, ma insegna al tragico li costumi de’ migliori, con l’esempio de’ buoni pittori, e facitori d’immagini perfette, li quali usa­n l’Idea; e sono queste le parole: essendo la tragedia imita­zione de’ migliori, bisogna che noi imitiamo li buoni pittori; pcrché quelli esprimendo la propria forma con farli simili, più elli li fingono, “apodidontes ten idian morphen, omoious, poiountes, kallious graphousin”. Il far però gli uomini più belli di quello che sono comunemente, ed eleggere il perfetto conviene all’Idea. Ma non una di questa bellezza è l’Idea ; varie sono le sue forme, e forti e magnanime, e gioconde e delicate, di ogni età e di ogni sesso. Non però, con Paride, nel monte Ida delizioso lodiamo solo Venere molle, o ne’ giardini di Nisa celebriamo il tenero Bacco; ma su ne’ gioghi faticosi di Menalo e di Delo ammiriamo Apollo faretrato, e l’arciera Diana. Altra certamente fu la bellezza di Giove in Olimpia, e di Giunone in Samo; altra di Ercole in Lindo, e di Cupidine in Tespia; così a diversi convengonsi diverse forme, per non essere altro la bellezza, se non quella che fa le cose come sono nella propria e perfetta natura; la quale gli ottimi pittori si eleggono, contemplando la forma di ciascuno.

Dobbiamo di più considerare che essendo la pittura rappresentazione d’umana azione, deve insieme il pittore ritene­re nella mente gli esempi degli effetti, che cadono sotto esse azioni, nel modo che ‘l poeta conserva l’Idea dell’iracondo, del timido, del mesto, del lieto, e così del riso e del pianto, del timore e dell’ardire. Li quali moti deono molto più resta­re impressi nell’animo dell’artefice con la continua contem­plazione della Natura, essendo impossibile ch’egli la ritragga con la mano del naturale, se prima non li averà formati nella fantasia: ed a questo è necessaria grandissima attenzione; poiché mai si veggono li moti dell’anima, se non per transito e per alcuni subiti momenti. Sicché intraprendendo il pittore e lo scultore ad imitare le operazioni dell’animo, che deriva­no dalle passioni, non può vederle dal modello, che si pone avanti, non ritenendo esso alcun affetto; che anzi languisce con lo spirito, e con le membra nell’atto, in cui si volge, e si ferma ad arbitrio altrui.

E’ però necessario formarsene un’immagine su la Natura, osservando le commozioni umane, e accompagnando li moti del corpo con li moti dell’animo, in modo che gli uni dagli al­tri dipendino vicendevolmente. Intanto, per non lasciare l’Architettura, servesi anch’ella della sua perfettissima Idea: dice Filone che Dio, come buono Architetto riguardando all’Idea ed all’esempio propostosi, fabbricò il mondo sensibile dal mondo ideale e intelligibile. Sicché dipendendo l’Archi­tettura dalla cagione esemplare, fassi anch’ella superiore alla Natura: così Ovidio, descrivendo l’antro di Diana, vuole che la Natura nel fabbricarlo prendesse ad imitar l’arte: “Arte laboratum nulla, simulaverat artem / Ingenio Natura suo”.

Al che riguardò forse Torquato Tasso descrivendo il giardino di Armida: “Di Natura arte par, che per diletto / L’Imitatrice sua scherzando imiti”.

Egli è inoltre l’edifizio tanto eccellente, che Aristotele argomenta: se la fabbrica fosse cosa naturale, non altrimenti di quello si faccia l’Architettura, sarebbe eseguita dalla Natura, costretta ad usare le medesime regole per darle perfezione, come le stesse abitazioni degli Dèi furono finte dai poeti con l’industria degli architetti, ordinate con archi, e colonne, qualmente descrissero la Reggia del Sole e d’Amore, portan­do l’Architettura al cielo. Così questa Idea e Deità della bel­lezza fu dagli antichi cultori della Sapienza formata nelle menti loro, riguardando sempre alle più belle parti delle cose naturali; ché bruttissima e vilissima è quell’altra Idea, che la più parte si forma sulla pratica, volendo Platone che l’Idea sia una perfetta cognizione della cosa, cominciata su la Natura.

Quintiliano c’istruisce, come tutte le cose perfezionate dall’arte e dall’ingegno umano, hanno principio dalla Natura istessa, da cui deriva la vera Idea. Laonde quelli, che senza conoscere la verità, il tutto muovono con la pratica, fingono larve in vece di figure; né dissimili gli altri sono, che pigliano in prestanza l’ingegno, e copiano l’idee altrui; fanno l’opere non figliole, ma bastarde della Natura, e pare abbiano giura­to nelle pennellate de’ loro maestri. Al qual male si aggiunge che l’inopia dell’ingegno, non sapendo essi eleggere le parti migliori, scelgono i difetti dei loro precettori, e si formano l’Idea del peggiore.

Al contrario quelli, che si gloriano del nome di Naturali­sti, non si propongono nella mente Idea alcuna; copiano i difetti de’ corpi, e si assuefanno alla bruttezza e agli errori, giurando anch’essi nel modello, come loro precettore; il quale tolto dagli occhi loro, si parte insieme da essi tutta l’arte. Rassomiglia Platone quelli primi pittori ai Sofisti, che non si fondano nella verità, ma nei fantasmi delliopinione; li secon­di sono simili a Leucippo e a Democrito, che con vanissimi atomi a caso compongono li corpi. Così l’arte della Pittura da costoro viene condannata alla opinione e all’uso, come Critolao voleva che l’Eloquenza fosse un’usanza di dire, e una perizia di piacere: tribé et kalotechnia, o più tosto atechnia abito, senz’arte, e senza ragione, togliendo l’ufficio alla mente, e donando ogni cosa al senso. Onde quello, che è somma intelligenza, e idea degli ottimi pittori, vogliono essi più tosto che sia un uso di fare di ciascuno, per accomunare con la sapienza, l’ignoranza; ma gli spiriti elevati sublimando il pensiero all’Idea del bello, da questo solo vengono rapiti, e la contemplano come cosa divina. Laddove il popolo riferisce il tutto al senso dell’occhio; loda le cose dipinte dal natu­rale, perché è solito vederne di sì fatte; apprezza li belli colo­ri, e non le belle forme, che non intende; s’infastidisce dell’eleganza, approva la novità, sprezza la ragione, segue 1’opinio­ne e si allontana dalla verità dell’arte, sopra la quale come in propria base è dedicato dell’Idea il nobilissimo simulacro.

Ci resterebbe di dire che gli antichi scultori, avendo usato l’Idea maravigliosa, come abbiamo accennato, sia però necessario lo studio dell’antiche sculture le più perfette, perché ci guidino alle bellezze emendate della Natura, ed al medesi­mo fine dirizzar l’occhio alla contemplazione degli altri ec­cellentissimi maestri; ma questa materia tralasciamo al suo proprio trattato dell’imitazione, sodisfacendo a coloro, che biasimano lo studio delle statue antiche.

Quant’all’Architettura, diciamo che l’architetto deve concepire una nobile Idea, e stabilirsi una mente, che gli serva di legge, e di ragione, consistendo le sue invenzioni nell’ordine nella disposizione, e nella misura ed euritmia del tutto, e del­le parti. Ma rispetto alla decorazione ed ornamenti degli or­dini sia certo trovarsi l’Idea stabilita, e confermata sugli esempi degli Antichi, che con successo di lungo studio, die­dero modo a quest’arte; quando li Greci le costituirono ter­mini e proporzioni, le migliori, le quali confermate dai più dotti secoli, e dal consenso, e successione de’ sapienti, diven­nero leggi di una maravigliosa Idea, e bellezza ultima, che es­sendo una sola in ciascuna specie, non si può alterare, senza distruggerla. Onde pur troppo la deformano quelli, che con la novità la trasmutano, mentre alla bellezza sta vicina la bruttezza, come li vizi toccano le virtù.

Tanto male riconosciamo pur troppo nella caduta del Romano Imperio, col quale caddero tutte le buone arti, e con esse più d’ogn’altra l’Architettura; perché quei barbari edifi­catori dispregiando i modelli, e l’Idee Greche e Romane, e li più belli monumenti dell’antichità, per molti secoli frenetica­rono tante, e sì varie fantasie fantastiche d’ordini, che con bruttissimo disordine mostruosa la resero. Affaticaronsi Bra­mante, Raffaello, Giulio Romano e, ultimamente, Michel Angelo dall’eroiche ruine restituirla alla sua prima Idea e aspetto, scegliendo le forme più eleganti degli edifici antichi. Ma oggi in vece di rendersi grazie a tali uomini sapientissimi, vengono essi con gli Antichi ingratamente vilipesi, quasi sen­za laude d’ingegno, e senza invenzione l’uno dall’altro abbia copiato. Ciascuno però si finge da se stesso in capo una nuo­va Idea, e larva di Architettura a suo modo, esponendola in piazza, e sulle facciate: uomini certamente vuoti di ogni scienza, che si appartiene all’architetto, di cui vanamente tengono il nome. Tanto che deformando gli edifici e le città stesse e le memorie, freneticano angoli, spezzature e distorci­menti di linee; scompongono basi, capitelli e colonne, con frottole di stucchi, tritumi e sproporzioni; e pure Vitruvio condanna simili novità, e gli ottimi esempi ci propone. Ma li buoni architetti serbano le più eccellenti forme degli ordini; li pittori e gli scultori scegliendo le più eleganti bellezze naturali, perfezionano l’Idea, e l’opere loro vengono ad avan­zarsi, e restar superiori alla Natura, che è l’ultimo pregio di queste arti, come abbiamo provato. Quindi nasce l’ossequio e lo stupore degli uomini verso le statue e le immagini, quin­di il premio e gli onori degli artefici; questa fu la gloria di Ti­mante, di Apelle, di Fidia, di Lisippo e di tanti altri celebrati dalla fama, li quali tutti sollevati sopra le umane forme, por­tarono l’idee e l’opere loro all’ammirazione.

Ben può dunque chiamarsi questa Idea perfezione della Natura, miracolo dell’Arte, providenza dell’intelletto, esem­pio della mente, luce della fantasia, Sole, che dall’Oriente in­spira la statua di Mennone, fuoco, che scalda in vita il simu­lucro di Prometeo. Questa fa che Venere, le Grazie e gli Amori, lasciando l’Idalio giardino e le piagge di Citera, ven­gano ad albergare nella durezza de’ marmi, e nel vano del­l’ombre. In sua virtù le Muse nell’Eliconie rive temprano li colori all’immortalità; e per sua gloria dispregia Pallade Babiloniche tele e vanta pomposa Dedalei lini. Ma perché l’Idea dell’eloquenza cede tanto all’Idea della Pittura, quanto la vista è più efficace delle parole, io però qui manco nel di­re, e taccio.