Johann Joachim Winckelmann, Pensieri sull’imitazione dell’arte greca nella pittura e nella scultura, 1755

Il buon gusto che si va sempre più diffondendo nel mondo, ebbe origine in terra greca. Le invenzioni dei po­poli stranieri non pervennero nella Grecia se non come un primo seme, e presero nuova natura e nuova forma in que­sto paese “che si dice Minerva assegnasse come dimora ai Greci, a preferenza d’ogni altro, per le miti stagioni che vi trovò, visto che esso avrebbe potuto produrre menti intelligenti”.

Il gusto che questo popolo ha manifestato nelle sue ope­re, è rimasto un suo privilegio; raramente si è allontanato dalla Grecia senza perdere qualche cosa, e solo tardi è sta­to conosciuto in regioni lontane.

Per noi, l’unica via per divenire grandi e, se possibile, inimitabili, è l’imitazione degli antichi, e ciò che si disse di Omero, che impara ad ammirarlo chi imparò ad inten­derlo, vale anche per le opere degli antichi, particolarmen­te dei Greci. Bisogna conoscerle come si conosce un ami­co, per poter trovare il Laocoonte inimitabile al pari di Omero. Una simile intima conoscenza condurrà al giudi­zio di Nicomaco sull’Elena di Zeusi: “Prendi i miei oc­chi, disse questi ad un ignorante che voleva biasimare il quadro, ed essa ti sembrerà una dea”.

Con quest’occhio Michelangelo, Raffaello e il Poussin guardarono le opere degli antichi. Essi attinsero il buon gusto alla sua sorgente, e Raffaello lo attinse nel paese stesso in cui esso si formò: è noto che inviò discepoli in Grecia a disegnare per lui gli avanzi dell’antichità.

Una statua antica di mano romana sarà sempre, al con­fronto d’un originale greco, ciò che la Didone virgiliana con il suo seguito, paragonata a Diana tra le Oreadi, è al confronto della Nausicaa d’Omero, che Virgilio ha cerca­to d’imitare.

Il Laocoonte è stato per gli artisti della Roma antica quello che ancora è per noi: la regola di Policleto; una re­gola perfetta dell’arte.

Inutile dire che anche nelle più celebri opere di artisti greci si trovano alcune deficienze: ne sono esempi il del­fino e gli amorini scherzanti accanto alla Venere medicea e, nell’opera di Dioscoride, che rappresenta in pietra in­cisa Diomede col Palladio, tutto ciò che non è la figura principale. E’ noto che l’effigie sul rovescio delle più bel­le medaglie dei re d’Egitto e di Siria raramente ritrae la testa degli stessi re. I grandi artisti sono saggi anche nel­le loro negligenze, non sbagliano senza istruire. Si osser­vino le loro opere come Luciano dice d’aver osservato il Giove di Fidia, cioè Giove stesso e non già lo sgabello ai suoi piedi.

I conoscitori e gl’imitatori delle opere greche trovano in questi capolavori non solo il più bell’aspetto della na­tura, ma anche più della natura, cioè certe bellezze ideali di essa, che, come insegna un antico commentatore di Pla­tone, sono composte di figure create soltanto nell’intel­letto.

Forse il più bel corpo dei nostri tempi non avrebbe col più bel corpo greco maggiore somiglianza di quella che Ificle aveva col fratello Ercole. L’influenza d’un cielo mi­te e puro agì sulla primitiva costituzione dei Greci; la nobile forma fu data però ad essa da esercizi ginnasti­ci tempestivamente incominciati. Prendiamo un giovane Spartano nato dall’unione d’un eroe e di una eroina, che mai nella sua infanzia sia stato imprigionato nelle fasce, che fin dal suo settimo anno abbia dormito sulla nuda ter­ra e sia stato esercitato alla lotta e al nuoto, e confron­tiamolo con un giovane Sibarita dei nostri tempi, e poi giudichiamo quale dei due l’artista sceglierebbe come mo­dello di un giovane Tèseo, di un Achille ed anche di un Bacco. Il Sibarita ispirerebbe un Tèseo allevato con le ro­se, lo Spartano un Tèseo allevato con la carne, per dirla come un pittore greco che così giudicava di due diverse immagini di questo eroe.

Per i giovani greci i grandi ludi erano un efficacissimo sprone alle esercitazioni ginnastiche, e, per i giuochi Olimpici, le leggi esigevano una preparazione di dieci mesi da compiersi nell’Elide e nel luogo stesso dove essi venivano celebrati. I premi maggiori non erano sempre riportati da adulti, ma per lo più da giovani, come lo dimostra Pin­daro nelle sue Odi. Emulare il divino Diàgora era il più grande desiderio della gioventù.

Osservate il pellerossa che veloce, in corsa, insegue un cervo: il suo sangue è fluido, pieghevoli ed agili si sviluppano i suoi nervi e i suoi muscoli, e tutta la struttura del suo corpo è di grande leggerezza. Così Omero crea i suoi eroi e caratterizza Achille con la velocità dei suoi piedi.

I corpi acquistavano con questi esercizi quel grande e maschio contorno che i maestri greci avevano dato alle loro statue, contorno senza mollezze e pinguedine. Ogni dieci giorni i giovani Spartani dovevano mostrarsi nudi agli Efori, e questi infliggevano una più rigorosa dieta a quelli di essi che incominciavano ad ingrassare. Persino una delle leggi di Pitagora ingiungeva di guardarsi da ogni grasso superfluo del corpo. Forse era questo il motivo per cui, nei tempi più antichi, i giovani prescelti per la lotta dovevano nutrirsi durante il periodo di allenamento sol­tanto con cibi di latte.

Con cura si evitava ogni scorrettezza del corpo, e poi­ché Alcibiade nella sua giovinezza non volle imparare a suonare il flauto, perché gli avrebbe sfigurato il volto, i giovani Ateniesi seguirono il suo esempio.

Anche le vesti dei Greci erano disposte in maniera da non fare la minima violenza alla forma naturale. Lo svi­luppo della bella forma non soffriva sotto la costrizione del nostro stretto e oppressivo vestire, e specialmente al collo, ai fianchi ed alle cosce. Nemmeno il bel sesso co­nosceva, tra i Greci, le tormentose esigenze della moda; le giovani Spartane portavano vesti così corte e così leg­gere da essere chiamate mostratrici di fianchi.

E’ anche noto con quanta cura i Greci cercassero di procreare figli belli. Quillet, nella sua Callipedia, non accenna a tanti mezzi, quanti essi usarono per riuscirvi; tentavano perfino di far diventare neri gli occhi azzurri. Per

incoraggiare tali tendenze furono istituite gare di bellez­za che si facevano nell’Elide; i premi consistevano in ar­mi che venivano deposte nel tempio di Minerva. Giudici esperti e saggi non potevano mancare a questi giuochi, poiché i Greci, come c’informa Aristotele, insegnavano il disegno ai loro figli, principalmente perché credevano che così essi sarebbero divenuti più abili nell’osservare e nel giudicare la bellezza dei corpi.

Il bel sangue degli abitanti della maggior parte delle isole greche, sebbene misto a tanto altro sangue, e le squi­site attrattive del bel sesso in quelle regioni, particolar­mente nell’isola di Scio, permette di affermare con fonda­mento che erano belli i loro antenati d’ambo i sessi, i qua­li si gloriavano non solo d’essere la stirpe originaria, ma anche di essere più antichi della luna.

Ancora oggi vi sono popoli presso i quali la bellezza non è un pregio, poiché in essi tutto è bello. Scrittori di viaggi sono unanimi nell’affermare questo dei Georgiani e dei Kabardinski, popolo che abita la Crimea tartara.

Le malattie che distruggono tanta beltà e rovinano le forme più nobili, erano ancora sconosciute ai Greci. Negli scritti dei loro medici non si trova alcun indizio del vaio­lo, ed in nessun ritratto greco a noi noto, e Omero spesso ne presenta minutissimi nei particolari, si riscontrano se­gni o buchi come quelli che lo caratterizzano.

Le malattie veneree e la figlia di queste, la malattia gal­lica, non infuriavano ancora contro la bella natura dei Greci.

mento della natura e dell’arte alla formazione dei corpi, come alla conservazione, al perfezionamento ed all’ornamento di tale formazione, fu posto in opera dagli antichi Greci a vantaggio della loro bella natura, e pertanto è di grandissima verosimiglianza l’opinione che, al confronto dei nostri, i loro corpi avessero il privilegio della bellezza.

Ma le più belle creature della natura si sarebbero ri­velate solo in parte e imperfettamente all’artista in un pae­se in cui, come nell’Egitto, la pretesa culla delle arti e del­le scienze, la natura fosse stata impedita in molte delle sue manifestazioni da leggi rigorose. In Grecia dove si ricercava la gioia ed il piacere fin dalla giovinezza, dove un certo benessere borghese simile al nostro mai opponeva ostacolo alla libertà dei costumi, la bella natura, a grande insegnamento degli artisti, si mostrava senza velo.

La scuola degli artisti era nei ginnasi dove la gioventù, senza offendere la pubblica verecondia, faceva completamente nuda la ginnastica. Vi andavano il saggio e l’arti­sta. Un Socrate per istruire Càrmide, Antólico, Liside; un Fidia per portare alla sua arte ricchezza da quelle belle creature. Vi si potevano studiare i movimenti dei muscoli, i contorcimenti del corpo, ed osservare le linee della figura umana o i contorni di essa nell’impronta che i gio­vani lottatori lasciavano sulla rena.

Il corpo nudo si mostrava qui in tante posizioni varie, naturali e nobili, quante non ne potrebbe mai assumere un modello delle nostre accademie.

Il carattere della verità è dato dal sentimento; e il disegnatore che lo vorrà imprimere ai suoi studi sul modello, non otterrà neppure l’ombra del vero, se non supplisce col proprio animo a ciò che l’insensibilità e l’indifferenza del modello non può sentire e nemmeno esprimere con un’azione che dovrebbe corrispondere ad un determinato sentimento o ad una determinata passione.

Nell’introduzione a molti dei suoi dialoghi che fa cominciare nei ginnasi di Atene, Platone ci mostra la nobiltà d’animo della gioventù e ci fa supporre che, in questi luoghi, movimenti, posizioni ed esercizi fossero di una nobiltà analoga.

I più bei giovani ballavano nudi sul teatro, e Sofocle, il grande Sofocle, fu il primo ad offrire nella sua giovinez­za un tale spettacolo ai suoi concittadini. Frine si bagnò nei ludi eleusini al cospetto di tutti i Greci, ed uscendo dall’acqua fu considerata dagli artisti il prototipo di una Venere Anadiomene; ed è noto che, in una delle loro fe­ste, le fanciulle di Sparta ballavano nude dinanzi agli oc­chi dei giovani. Ciò che qui potrà sembrare strano, diven­ta comprensibile quando si pensa ai cristiani della chiesa primitiva, i quali, tanto uomini che donne, contemporaneamente e senza alcun velo erano immersi e battezzati nella stessa fonte battesimale.

Qualsiasi festa presso i Greci offriva dunque un’occa­sione agli artisti per approfondire la conoscenza della bel­la natura.

Nel periodo aureo della libertà dei Greci, il loro senso d’umanità si era opposto all’introduzione di spettacoli cruenti, e se questi furono in uso nell’Asia Ionica, come credono alcuni, già da lungo tempo erano stati aboliti. Antioco Epifane, re in Siria, fece venire gladiatori da Roma e mostrò ai Greci lo spettacolo di questi infelici: i Greci sul principio ne ebbero orrore, ma col tempo il sentimen­to umano venne meno ed anche questi spettacoli furono scuola agli artisti. Un Ctesilao studiò così il suo gladiato­re morente, “nel quale si poteva scorgere quanto ancora gli rimanesse della sua anima”.

Questa frequente osservazione della natura spinse gli artisti greci ad ulteriori ricerche: essi cominciarono a for­mare certe idee generali della bellezza, tanto delle singole parti quanto delle intere proporzioni dei corpi, idee che trascendevano la natura stessa; la loro immagine si rife­riva ad una natura spirituale, concepita solo intellettual­mente.

Così dipinse Raffaello la sua Galatea. Si legga la sua lettera al conte Baldassarre Castiglione, dove scrive: “Sic­come le bellezze fra le donne sono tanto rare, così mi ser­vo di una certa idea che mi sono formata nella mente”.

Secondo tali concetti trascendenti la forma ordinaria della materia, i Greci rappresentavano gli dei e gli uomi­ni. Negli dei e nelle dee la fronte e il naso formavano qua­si una linea retta. Le teste di donne celebri su medaglie greche hanno profili simili, sebbene l’arte del ritratto vie­tasse di lavorare secondo concetti ideali. Oppure si po­trebbe supporre che queste forme fossero proprie agli an­tichi Greci, come i nasi schiacciati lo sono ai Calmucchi e gli occhi piccoli ai Cinesi. I grandi occhi delle teste gre­che ritratte su pietre e medaglie potrebbero convalidare questa congettura.

I Greci riproducevano le imperatrici romane sulle me­daglie conformandosi a questi concetti: le teste di Livia e di Agrippina hanno il medesimo profilo della testa di un’Artemisía e di una Cleopatra.

Pertanto risulta che la legge prescritta dai Tebani ai loro artisti, che infliggeva una pena a chi non imitasse la natura nel miglior modo possibile, era considerata legge anche dagli altri artisti della Grecia. Dove non potevano usare del dolce profilo greco senza nuocere alla somiglian­za, essi si attenevano alla verità della natura, come si ve­de nell’opera di Evodo che ritrae la bella testa di Giulia, figlia dell’imperatore Tito.

Ma la legge secondo la quale si dovevano fare le per­sone somiglianti e in pari tempo più belle, è stata rico­nosciuta sempre legge suprema dagli artisti greci, e fa necessariamente presupporre che essi perseguissero una natura superiore. Polignoto osservò costantemente questa legge.

Perciò, se di alcuni artisti si dice che fecero come Pras­sitele il quale modellò la Venere di Cnido sulla sua aman­te Cratina, oppure come altri pittori che presero Laide a modello per le Grazie, credo che questo avvenisse senza deviare l’arte dalle sue grandi leggi. La bellezza sensuale offriva all’artista la bella natura, la bellezza ideale i lineamenti sublimi; dalla prima questi prendeva l’umano, dal­la seconda il divino.

Chi è dotato di tanta perspicacia da penetrare nel più intimo dell’arte, troverà spesso bellezze sconosciute con­frontando, oltre la testa, le altre parti delle figure greche con quelle delle figure moderne; specialmente se in que­ste l’artista seguiva più la natura che il gusto antico.

In molte statue di artisti moderni si osservano pieghe della pelle, piccole e troppo marcate, in quelle parti del corpo che sono compresse; mentre nelle figure greche, dove nelle medesime parti compresse si formano le stesse pieghe, una lieve curva le fa nascere a guisa d’onda l’una dall’altra, di modo che esse sembrano formare un solo insieme ed una sola nobile pressione. Questi capolavori ci mostrano una pelle non tesa ma lievemente distesa so­pra una carne sana che la riempie senza turgidezza, una pelle che, unita alle parti carnose, ne segue i movimenti flessuosi. Essa non forma mai, come sui nostri corpi, pic­cole pieghe isolate dalla carne.

Nello stesso modo le opere moderne si distinguono dalle opere greche per una quantità di piccoli incavi e per fossette troppo numerose e troppo sensualmente conce­pite, che, quando se ne trovano nelle opere degli antichi, appaiono accennate con leggerezza e saggia parsimonia, proporzionate alla misura perfetta e piena della natura greca e spesso riconoscibili soltanto da un occhio colto.

Pertanto sembra molto verosimile che nella forma dei bei corpi greci, come nelle opere dei maestri greci, vigesse una maggiore unità nella struttura, una maggiore nobil­tà nella rispondenza delle parti, una maggiore pienezza delle misure, e mancassero invece la magrezza tesa e le tante cavità infossate del nostro corpo.

Non è possibile stabilire una somiglianza maggiore; ma essa merita l’attenzione dei nostri artisti ed intendi­tori d’arte; e questo principalmente, perché è indispen­sabile liberare la venerazione per i monumenti greci dal pregiudizio tanto diffuso che attribuisce un valore all’imitazione dell’antico, soltanto perché l’antico risale a tem­pi lontani.

Questo punto, sul quale diverge il parere degli artisti, richiede una discussione più particolareggiata di quella che qui abbiamo potuto fare.

E’ noto che il grande Bernini fu di quelli che contesta­rono sia la maggiore bellezza della natura dei Greci, sia la bellezza ideale delle loro figure. Fu anche dell’opinio­ne che la natura sapesse dare ad ogni sua parte la bellezza che le conviene: l’arte consisterebbe nel saperla trovare. Egli si vantò d’essersi liberato da un pregiudizio a cui in principio, affascinato dalla grazia della Venere medicea, era stato soggetto, pregiudizio di cui però, dopo faticoso e replicato studio sulla natura, aveva potuto scoprire l’in­consistenza.

La Venere, dunque, gli insegnò a trovare le bellezze nella natura, che prima egli credeva di trovare soltanto in lei e che senza di lei nella natura non avrebbe ricercate. Non segue da ciò che la bellezza delle statue greche può essere scoperta prima che la bellezza della natura, e che pertanto quella commuove maggiormente e non è disper­sa come questa, ma più concentrata? Quindi, a chi vorrà raggiungere la conoscenza del bello perfetto, lo studio della natura sarà per lo meno più lungo e piú faticoso che non lo sia quello dell’antico; e il Bernini non avrebbe in­segnato la via più breve ai giovani artisti additando quale bello supremo il bello che si trova nella natura.

L’imitazione del bello della natura o si attiene ad un solo modello o è data dalle osservazioni fatte su vari mo­delli riunite in un soggetto solo. Nel primo caso si fa una copia somigliante, un ritratto: è il modo che conduce al­le forme ed alle figure olandesi. Nel secondo caso invece si prende la via del bello universale e delle immagini idea­li di questo bello; ed è questa la via che presero i Greci.

Ma la differenza fra i Greci e noi sta in questo: che i Gre­ci riuscirono a creare queste immagini, anche se non ispi­rate da corpi belli, per mezzo della continua occasione che avevano d’osservare il bello della natura la quale, in­vece, a noi non si mostra tutti i giorni e raramente si mo­stra come l’artista la vorrebbe.

La natura non produrrà facilmente un corpo così per­fetto come quello dell’Antinoo Admirando, e non sarà possibile formarsi un’idea che superi le proporzioni più che umane di una bella divinità come l’Apollo del Vati­cano: in questa statua si presenta ai nostri occhi quanto natura, spirito ed arte hanno saputo creare.

Io credo che l’imitazione di questi due modelli potreb­be insegnare il modo più celere per diventar maestro, poiché nell’uno essa ci mostra riunito tutto ciò che è spar­so nell’intera natura, nell’altro, fin dove la più bella natu­ra, con ardire ma anche con saggezza, può superare se stes­sa. Tale imitazione insegnerà a pensare e ad immaginare con sicurezza, giacché si troverà fissato in questi modelli l’ultimo limite del bello umano e del bello divino.

Se l’artista si basa su tali fondamenti e fa guidare la sua mano e il suo sentimento dalle regole greche della bellezza, si trova sulla via che lo condurrà senza fallo all’’imitazione della natura. I concetti dell’unità e della per­fezione nella natura degli antichi purificheranno le sue idee sull’essenza slegata della natura nostra e le rende­ranno più sensibili. Scoprendo le bellezze della nostra natura egli saprà collegarle col bello perfetto, e, con l’aiu­to delle forme sublimi a lui sempre presenti, l’artista di­verrà regola a se stesso.

Soltanto allora e non prima, l’artista, e specialmente il pittore, nei casi in cui l’arte gli permetta di scostarsi dal marmo, come nei panneggi, potrà abbandonarsi all’imitazione della natura e prendersi maggiore libertà, come fece il Poussin; perché, come diceva Michelangelo: “que­gli che va continuamente dietro agli altri non anderà mai loro innanzi, e quegli che non sa far nulla di buono da se medesimo, non saprà neppure servirsi bene delle cose fatte dagli altri”.

Così coloro ai quali la natura fu benigna, hanno aperta innanzi a sé la strada per divenire originali.

In questo senso è da intendersi ciò che racconta il De Piles: che Raffaello, cioè, nel periodo prima della sua mor­te, cercasse di abbandonare il marmo per seguire unica­mente la natura. Il vero gusto dell’antichità non lo avreb­be abbandonato nemmeno in mezzo alla natura comune, e, per una specie di trasformazione chimica, tutte le os­servazioni fatte su di essa sarebbero divenute in lui ciò che costituiva il suo essere e la sua anima.

I suoi quadri avrebbero forse avuto una maggiore va­rietà, panneggi più grandiosi, un colorito più intenso, un chiaroscuro più forte, eppure non per questo le figure sarebbero state più pregevoli di quanto lo sono per il contorno nobile e l’anima elevata che gli vennero dai Greci.

In nessun modo si potrebbe dimostrare con maggior evidenza la superiorità dell’imitazione degli antichi sull’imitazione della natura, che prendendo due giovani d’in­gegno egualmente bello e facendo studiare all’uno l’antico e all’altro la sola natura. Il secondo rappresenterebbe la natura come la vede: se fosse italiano, dipingerebbe forse le figure come il Caravaggio; se fosse fiammingo e d’in­gegno felice, come un Jacob Jordaens; se fosse francese, come uno Stella; il primo invece rappresenterebbe la na­tura come vuol essere rappresentata, e dipingerebbe le figure come Raffaello.

Anche se l’imitazione della natura potesse dare tutto all’artista, non gli darebbe certo il giusto contorno che può essere appreso soltanto dai Greci.

Nelle figure dei Greci il più nobile contorno unisce o circoscrive tutte le parti della più bella natura e delle bellezze ideali; o per meglio dire, è il concetto più elevato dell’una e delle altre. Si crede che Eufranore, che fu illu­stre nei tempi posteriori a Zeusi, fosse il primo a dare al contorno un carattere più nobile.

Tra gli artisti moderni molti hanno tentato d’imitare il contorno greco, ma quasi nessuno ci è riuscito. Il gran­de Rubens è ben lontano dal contorno greco, ed ancora di più lo è in quelle opere dipinte prima del suo viaggio in Italia e prima di avere studiato l’antico.

La linea che separa nella natura il giusto dal superfluo, è sottilissima, ed i più grandi maestri moderni si sono allontanati troppo, ed in un senso come nell’altro, da que­sto limite non sempre facile a tenersi. Chi voleva evitare un contorno piatto cascava nel turgido, e chi evitava il turgido faceva il contorno piatto.

Michelangelo è forse il solo di cui si potrebbe dire che raggiunse l’antico; ma soltanto nelle figure forti e muscolose, nei corpi d’un’età eroica; non nelle figure delicata­mente giovanili, non in quelle femminili, che sotto la sua mano diventavano Amazzoni.

L’artista greco, invece, ha disegnato il suo contorno in ogni figura con una precisione di capello, anche nei più fi­ni e faticosi lavori quali sono le pietre incise. Si osservi il Diomede e il Pèrseo di Dioscoride, l’Ercole e Iole di Teucro, e si ammiri in queste opere la perfezione inimitabile dei Greci.

Parrasio è riconosciuto generalmente più abile nel con­torno.

Anche nei panneggi delle figure greche predomina la perfezione del contorno che è lo scopo principale dell’artista, il quale attraverso il marmo mostra la bella confor­mazione del corpo come attraverso una stoffa di Coo.

La statua di Agrippina, di stile sublime, e le tre Ve­stali della Reale Galleria di Dresda meritano d’essere qui menzionate come modelli insigni. L’Agrippina probabil­mente non rappresenta la madre di Nerone, ma l’Agrip­pina più vecchia, moglie di Germanico. Essa rassomiglia molto ad una statua in piedi nell’atrio della biblioteca di San Marco a Venezia, che si pretende rappresenti questa stessa Agrippina. La nostra figura è seduta, più grande del naturale, con la testa appoggiata alla mano destra. Il suo bel volto rivela un’anima che, immersa in profon­de riflessioni, sembra resa insensibile dall’affanno e dalle pene a tutte le impressioni esteriori. Si potrebbe suppor­re che l’artista abbia voluto rappresentare l’eroina nel triste istante in cui le venne annunziato l’esilio nell’isola Pandataria.

Le tre Vestali sono ammirevoli per due ragioni. Sono le prime grandi scoperte di Ercolano; ma ciò che le rende ancora più pregevoli, è lo stile grandioso dei loro panneg­gi. Sotto questo riguardo tutte e tre, ma specialmente quella che è più grande del naturale, sono da porsi a fianco della Flora Farnese e di altre opere greche di prim’or­dine. Le altre due che sono di grandezza naturale, si so­migliano talmente che sembrano essere lavori dello stesso scalpello; si distinguono soltanto dalle teste che non so­no di eguale valore. Sulla testa migliore i capelli ricciuti sono divisi, a foggia di solchi, dalla fronte fino alla nuca dove sono legati insieme. Sull’altra testa i capelli corrono lisci, e quelli sulla fronte, ricciuti, sono riuniti e legati da un nastro. E’ probabile che questa testa sia stata rifatta e aggiunta da mano moderna, ma buona.

Le teste di queste due figure non sono coperte da al­cun velo, ciò che però non toglie che in esse si debbano riconoscere delle vestali, poiché anche altrove si trovano sacerdotesse di Vesta senza velo. Piuttosto, dalle grosse pieghe del panneggio sul collo, si potrebbe supporre che il velo fosse ripiegato indietro, poiché esso fa parte a sé nell’abbigliamento, come si può vedere nella Vestale più grande.

E’ bene far conoscere al mondo intero che queste tre opere meravigliose segnarono le prime tracce per la sus­seguente scoperta dei tesori sepolti della città di Erco­lano.

Esse vennero alla luce quando anche il ricordo di que­sti tesori giaceva sepolto nell’oblio come la città, sepolta sotto le sue stesse rovine; cioè nel tempo in cui il fune­sto destino che colpì la città, era noto appena per il rac­conto che Plinio il Giovane fa della morte di suo cugi­no, anch’esso travolto dalla catastrofe di Ercolano.

Questi grandi capolavori dell’arte greca furono traspor­tati in Germanía ed ivi venerati, quando Napoli non ave­va ancora la fortuna di possedere, per quanto si sappia, un solo monumento ercolanese.

Esse furono trovate nell’anno 1706 a Portici presso Napoli, sotto le rovine di una volta, mentre si gettavano le fondamenta di una villa per il principe d’Elbeuf, e su­bito dopo, con altre statue in marmo ed in metallo, sco­perte anch’esse in quel luogo, vennero in possesso del principe Eugenio a Vienna.

Questo grande intenditore dlarte fece fabbricare espressamente per queste tre figure una sala terrena, per avere un luogo degno dove collocarle. Esse vi furono poste in­sieme con alcune altre statue. Tutta l’accademia e tutti gli artisti di Vienna rimasero costernati, quando confusa­mente si sparse la voce della vendita di esse, e poi, con vivissimo dolore, le videro partire da Vienna per Dresda.

Prima che questo accadesse, il celebre Mattielli cui “Policleto dié la misura, e Fidia lo scalpello”, le copiò in argilla e con la più scrupolosa diligenza, per rifarsi in tal modo della loro perdita. Le seguì a Dresda alcuni an­ni dopo, e riempì quella città delle sue elette opere; ma anche qui e fino alla sua vecchiaia, le Vestali rimasero il modello del suo panneggio, particolare in cui risiedeva la sua maggiore abilità: e ciò costituisce in pari tempo un giudizio non infondato della perfezione di esso.

Con la parola “panneggio” s’intende tutto quello che l’arte insegna sui rivestimenti che coprono le nudità del­le figure e sulle pieghe di essi. Questa scienza costituisce, dopo la “bella natura” e dopo il “nobile contorno”, il terzo pregio delle opere antiche.

Il panneggio delle Vestali è di stile elevato; le piccole pieghe nascono con dolce movimento dalle pieghe più grandi, perdendosi di nuovo in esse con nobile libertà e con fine armonia dell’insieme, senza nascondere il bel contorno del nudo. Sono rari gli artisti moderni che nel fare le pieghe non offrono motivo di biasimo!

Però si deve riconoscere che alcuni grandi artisti, principalmente pittori di epoche moderne, in qualche caso si sono allontanati, senza svantaggio per la natura e per la verità, dalla maniera usata comunemente dai maestri gre­ci nel vestire le figure. Il panneggio greco è lavorato generalmente con stoffe sottili e bagnate che quindi ade­riscono strettamente alla pelle ed al corpo lasciando vede­re il nudo, come tutti gli artisti sanno. L’intero vestito della donna greca era di stoffa sottilissima e perciò veniva chiamato peplon, ossia velo.

I bassorilievi antichi, le sculture antiche e specialmente gli antichi busti dimostrano che gli antichi Greci non sempre hanno fatto vesti e pieghe minute. Questo è confermato dal bel busto di Caracalla, che si trova nella Gal­leria di Dresda.

Nei tempi moderni si vedono vesti ricoperte con altre vesti e talvolta con vesti pesanti che non possono cadere in pieghe dolci e fluenti come quelle degli antichi. Da que­sto prese origine la maniera moderna delle grandi partite nei panneggi, che non meno della maniera antica permette all’artista di mostrare la sua perizia.

Il Maratta e il Solimena possono considerarsi maestri di questa maniera. La nuova scuola veneziana, volendola perfezionare, la portò all’esagerazione, e cercando soltan­to le grandi partite di panneggi, ha reso le sue vesti dure ed inflessibili come se fossero di latta.

Infine, la generale e principale caratteristica dei capo­lavori greci è una nobile semplicità e una quieta gran­dezza, sia nella posizione che nell’espressione. Come la profondità del mare che resta sempre immobile per quan­to agitata ne sia la superficie, l’espressione delle figure greche, per quanto agitate da passioni, mostra sempre un’anima grande e posata. Quest’anima, nonostante le più atroci sofferenze, si palesa nel volto del Laocoonte, e non nel volto solo. Il dolore che si mostra in ogni mu­scolo e in ogni tendine del corpo e che al solo guardare il ventre convulsamente contratto, senza badare né al viso né ad altre parti, quasi crediamo di sentire noi stessi, questo dolore, dico, non si esprime affatto con segni di rabbia nel volto o nell’atteggiamento. Il Laocoonte non grida orribilmente come nel canto di Virgilio: il modo con cui la bocca è aperta, non lo permette; piuttosto ne può uscire un sospiro angoscioso e oppresso come lo descrive Sadoleto. Il dolore del corpo e la grandezza dell’ani­ma sono distribuiti con eguale misura per tutto il corpo e sembrano tenersi in equilibrio. Laocoonte soffre; ma soffre come il Filottete di Sofocle: il suo patire ci tocca il cuore, ma noi desidereremmo poter sopportare il dolore come quest’uomo sublime lo sopporta.

L’espressione di un’anima così elevata oltrepassa di molto le forme della bella natura: l’artista doveva senti­re nel suo intimo la potenza spirituale che egli trasmise nel suo marmo. In Grecia l’artista e il filosofo appaiono uniti in una stessa persona, e vi si trova più di un Metro­doro. La saggezza porgeva la mano all’arte e infondeva nelle figure anime superiori al comune livello.

Coperto dalle vesti di sacerdote, che l’artista avrebbe dovute dare al Laocoonte, il dolore di questo ci sareb­be apparso meno sensibile. Il Bernini ha creduto di scor­gere perfino nell’irrigidirsi della coscia il principio dell’ef­fetto che ha il veleno del serpente.

Tutte le azioni e tutti gli atteggiamenti delle figure greche, che, se troppo focosi e troppo violenti, non pre­sentavano questo carattere di saggezza, peccavano di un difetto chiamato parenthyrsus dagli antichi artisti.

Più tranquilla è la posizione del corpo e più è in gra­do di esprimere il vero carattere dell’anima: in tutte le posizioni che troppo si allontanano da quella del riposo, l’anima non si trova nel suo stato normale, ma in uno stato di costrizione e di violenza. L0anima si fa più fa­cilmente conoscere ed è più caratteristica nelle forti pas­sioni, ma grande e nobile è solo in istato d’armonia, cioè di riposo. Nel Laocoonte la sola espressione del dolore sa­rebbe stata parenthyrsus; l’artista gli diede perciò, per rappresentare insieme la caratteristica e la nobiltà dell’anima, l’atteggiamento che, con un dolore simile, più si avvicina allo stato di riposo. Ma in questo riposo 1’ani­ma dev’essere caratterizzata da tratti che ad essa e non ad altre anime si addicono, per apparire calma ma allo stesso tempo attiva, quieta ma non indifferente né addormen­tata.

Proprio all’opposto si trova il gusto volgarissimo de­gli artisti moderni e specialmente dei principianti. Essi ammirano soltanto azioni eccezionali e atteggiamenti animati da un fuoco insolente, che considerano eseguiti con spirito, ossia, come essi dicono, con “franchezza”. Il contrapposto è il loro concetto preferito e costituisce quel concetto generico di tutte le qualità che, secondo loro, fanno parte d’una perfetta opera d’arte. Pretendono che nelle loro figure vi sia un’anima che devii come una co­meta dalla sua orbita; vorrebbero vedere in ogni figura un Aiace a un Capaneo.

Come gli uomini, le belle arti hanno la loro giovinez­za, e gli inizi di esse sembrano simili agli inizi di ogni ar­tista a cui non piace se non ciò che è fastoso e meraviglio­so. Tale natura aveva la musa tragica di Eschilo, e le iper­boli resero in parte il suo Agamennone molto più oscuro di tutto quello che aveva scritto Eraclito. Forse i primi pittori greci non disegnarono in modo diverso da quel­lo in cui cantò il loro primo grande poeta tragico. […]