Luigi Boille. Combustioni, impronte, grafie, catalogo, Spazio Temporaneo, Milano, 6 novembre, Studio Gariboldi, Milano, 8 novembre 2001

Due date, il 1951 e il 1955, segnano l’incrocio numinoso tra la biografia di Luigi Boille e i tempi del dibattito artistico, formidabile dibattito, degli anni Cinquanta.

Boille, Mémoire paysage, 1954

Boille, Mémoire paysage, 1954

La prima è quella del trasferimento del giovane architetto-pittore a Parigi, subito prendendo, diploma in tasca, le distanze dall’ambiente culturale italiano: il quale, in quel momento, altre poggiature non poteva offrire che le querelles tra concretismo, astratto-concreto e realismo, proiettate su drammi politici pur effettivi, ma quanto eteronomi e, oggi è a tutti ben chiaro, provinciali. La sua Parigi è quella della “jeune école de Paris”, l’attrazione cosmopolita che fa incrociare figure come Karel Appel e Antoni Tàpies, Hundertwasser e Serpan, Sam Francis e Enrique Zañartu. E’ quella di una galleria come Paul Facchetti, in cui Michel Tapié va saggiando nei fatti la consistenza del suo informel, e più in generale della felice ipotesi critica di art autre (1).

La seconda data è quella del suo debutto in personale da Lucien Durand, dopo che già l’anno prima aveva figurato nella collettiva “Jeune peinture” da Facchetti. Ma è anche quella di “Signes autres” curata da Tapié alla Larcade, riflessione su un’arte di segno, dagli echi surreali e dalle attenzioni alle fastose cadenze decorative; quella in cui “Phases” di Édouard Jaguer tiene la mostra-gemellaggio con i nucleari milanesi de “Il Gesto” (2), mentre Hubert Juin e Jean Clarence-Lambert lavorano per Georges Fall ai due volumi di La Jeune École de Paris (3), e Pierre Restany va maturando, sulla scorta di esperienze come quelle del primo César, le eccezioni all’informale “classico” che lo condurranno al Nouveau Réalisme.

Tra i due tempi si situa la stagione prima, già portatrice di sintomi cospicui di maturità, dell’operare di Boille. Le masoniti del 1952-1953, che lasceranno in seguito luogo alle tele, sono costruite per spalti di colore pieno, con materia aspra da intonaco, stesi con una sorta di intensità ossessiva, quasi una furia rattenuta appena entro i termini d’un gesto che si vuole ancora ordinatore.

Boille, Senza titolo, 1960

Boille, Senza titolo, 1960

Il bianco calcinato, l’ocra chiara, la terra rossa, ma anche i grigi terragni e i celesti alonati in una sorta di tono abbassato e disagiato, dicono che l’artista sceglie, in questo momento, un intendimento del colore che ne aggiri le aspettative sensuose in favore del valore costitutivo, sostanzioso, tutto materiale: è matière senza mémoire, verrebbe da parafrasare, e i gesti d’avvio sono le Bausteine, le pietre da costruzione, d’uno spazio che si vuole porzione concreta, e quanto fisica, d’esperienza. L’artista vi interviene con i gesti bruschi, ai limiti del controllo, d’una fiamma anch’essa fisica che ustiona la materia, ne altera la tensione superficiale e i toni cromatici, ma soprattutto pone il processo tutto nella zona fervidamente ambigua in cui l’opera non sia l’esito orientato d’un procedimento, ma un avvenire, lì, attraverso modificazioni, un avvenire concreto per via d’accidenti fisiologici, una vie des formes fatta di pulsazioni vitali, di formatività aperte e contaminate (4); ma insieme, sia ancora opera, figlia d’una padronanza, antagonistica ma non del tutto anestetica, del corpo agente dell’artista sul corpo agito dell’opera. E’ un processo, un rapporto, che si configura come metamorfosi dell’antica ideologia dell’artista costruttore in quella dell’artista che esperisce un momento vitale, puntuale per tempo e spazio, ma di altissima, ultimativa concentrazione.

Altri fuochi, poi, metafisici o d’umore simbolico, le pratiche della pittura conosceranno, tra le suggestioni metafisiche di un Klein e quelle formali di un Burri. Questi, nascono da una declinazione felicemente aggressiva d’antichi retaggi polimaterici, dalla pratica d’uno sperimentalismo non dimostrativo, non metodologicamente ideologizzato, non concettualmente preventivo, ma fastosamente e impuramente calato nelle medias res del fatto pittorico proprio, a esorcizzare ogni tentazione di bel gesto, di fare liturgico. Non lontana è, d’altronde, è la “poetica del muro”, dai cromosomi surrealisti, che anche per il tramite dell’affine e quasi coetaneo Tàpies entra nel circolo dei possibili espressivi, alimentando tra l’altro la cerchia italiana dei “peintres à signes”, da Perilli a Novelli, con i quali Boille nutrirà più d’un rapporto (5). Boille non libera, tuttavia, un’arte di puro gesto, effusiva e pittoricamente irresponsabile. L’urgenza del suo atto è come cautelata, risentita, auscultata. Opera nella materia ma non negando che di materia pittorica si tratta: e dunque di toni, di rapporti (un ripensamento del costruire braquiano vi è evidente); di aspettative di codice pittorico nel riguardante, anche.

Una terza data di questo decennio si deve indicare come cruciale per Boille, il 1957. Dopo una seconda personale da Lucien Durand, e partecipazioni prestigiose a mostre come “Junge Europaïsche Malerei” all’Akademie der Bildenden Kunst di Berlino e “Phases de l’art contemporain” alla Galerie Kléber di Parigi, 1956, eccolo tenere ben due personali italiane nel circuito prestigioso di Carlo Cardazzo, alla Selecta di Roma e al Naviglio di Milano, oltre alla presenza in mostre come “Phasen” allo Stedelijk di Amsterdam e “Ouverture sur le futur”, curata da Restany alla Kamer di Parigi.

Boille, Senza titolo, 1960

Boille, Senza titolo, 1960

La sua pittura, che procede per illuminazioni modali forti, a rischio di esser percepita come discontinua, si presenta assai modificata. Dopo “cet affrontement avec les bouillonnements bourbeux du monde matériel, auquel il ne pouvait être question pour lui de se dérober” (6), sono, ora, tele su cui la materia si  stende per spessori corposi, ma non più prosciugati in grazia inamena. Le paste, alte paste stese per spessori larghi, in una gestualità forte ma cadenzata, recuperano turgori d’una più sensibile carnalità – “Boille non rinunzia facilmente alla suggestione del postimpressionismo francese”, scrive Guido Ballo (7): e una luce, anche, d’intima tensione (non cade fuori luogo un parallelo, non di mere affinità, con le pâtes di Bendini, in questi anni: e per altro verso con certo Canogar), sostanza e identità insieme, carattere e pulsazione, di materia e di spazio: uno spazio dunque non stabilito per codice, postulato, condizionale, ma avvertito fin dall’atto genetico primo del processo come tensione, e relazione; come dramma vitale sospeso.

Il colore si declina come svuotato delle attese prime di captazione sensibile, grigio in dominante, o noir couleur virato al bigio, in controcanto a un bianco contaminato, impuro, e ad aloni sottili, come bave, sedimenti lisi, di rossi e celesti disanimati. La materia vive una pienezza slontanata, come memore di splendori,  ma provocata continuamente a un’umiltà fisiologica, a un pudore che ne fa una quantità neutralizzata, inerte e inespressiva in sé.

Boille vi incide il proliferare di larghi filamenti, non letterarie ferite, che si dipanano a farsi struttura, ora con espliciti umori d’organico, anche. La pittura, questa pittura, è farsi di un’immagine, d’un corpo. Di questo corpo, più che il tegumento conta il sistema nervoso, conta lo snodarsi dei gangli, la trama delle energie, dei corsi che per vie interne e impreventive ne hanno deciso la qualificazione. Così, in anni in cui temi come il formare e il formarsi, la materia e il segno, il gesto e il corpo, il naturalismo e la naturalità, vengono svolti in uno spettro d’interpretazioni spesso distinte da accenti minimi e pur sostanziali, Boille afferma la qualità autorevole, padrona ed eroticamente complice insieme, del gesto di generazione, erede di antichi automatismi ma, come uno jaku, avvertito e assaporato nelle implicazioni ultime. La sua, scrive Restany, è “une écriture originale, où les impulsions primaires viendront rejoindre les graphies plus cohérentes d’une authentique sensibilité” (8).

Boille, Confronto concreto, 1961

Boille, Confronto concreto, 1961

Il passaggio ulteriore, a concludere un decennio e una stagione schiudendo prospettive strepitose di nuovo operare, è segnato dal trittico di personali all’Entracte, Losanna, 1959, da Schmela, Düsseldorf e da Stadler, Parigi, 1960, e da partecipazioni come “Métamorphismes”, da Stadler, 1959, “Neue Malerei” alla Städtische Galerie di Monaco, “Ensemble 1960”, Torino, e “The International Sky Festival”, Osaka, tutte all’insegna del fervore operativo di Tapié e del suo International Center of Aesthetic Research (9). Anziché forzare sulla carnalità della materia e sulla non mediatezza del gesto, forte proprio delle riflessioni di Tapié sul segno Boille inizia a prosciugare le paste, a intridere della loro smagrita concretezza la superficie: la quale, ora, prende a essere riletta come quantum spazioso più che materiale: d’una concretezza, dunque, di precisa e ripensata rilevanza mentale.

Questo dicono opere come Accento isolato, Introspezione astratta, Struttura aperta, tutti 1959, i quali sin dalla titolazione (valga qualche confronto: Ocre brûlée, 1953; Empreinte-structure, 1958) spostano il fuoco della concentrazione espressiva dalla sostanzialità fisica, e dalla processualità concreta, a una misura di cosa mentale, come se il passo fisiologico del fare rifiltrasse attraverso un più lungo, e meditativo, percorso d’introiezione affettiva e intellettuale. Trascolora, così, la componente di alea, di barbarica e fervida impurità materiale e gestuale, di quella vie des formes, ma in cambio d’altra, e più distillata, vita formale, ma non perciò meno sensuosa, e dinamica.

Le nervature si sciolgono fluenti, ora, disinnescato l’agonismo del gesto, bianche ancora su grigio, ma un grigio teso e tramato di appena sensibili variazioni di tono, a intessere un clima, un temperatura, un carattere. Segno, e cultura decorativa, proprio come Tapié è andato ragionando, a partire da “Signes autres”, spingendosi a immaginare vicende che saranno “Strutture e stile”, e poi Le Baroque généralisé (10). Proprio presentando Boille nel 1960, d’altronde, Tapié dice di “structures hyperbaroques d’una complexité extrème” (11). Boille non avverte più il segno come accidente qualificativo intimo alla materia, ma come struttura schiarita e congenere, capace non solo di organizzare con senso la spazialità tutta dell’opera, ma anche di accelerarne la qualità visiva per via di accentuazioni, intensificazioni, movenze insieme necessarie e suggestive, riverberantisi sul cangiare – ora anche spettacolare, visivo – del colore superficiale. Terre e aloni di blu, mediati da grigi ora sensuosi, e poi rossi sempre più vogliosi di carminio, e violetti montanti dal marrone, a bordo spettro: e verdi, anche, non più sospetti di referenza naturale, giunti infine a incarnare in sé il naturale (“sorte de tissu biologique mouvant”: così Geneviève Bonnefoi (12)). Questi i colori che abitano le tarsie del nuovo Boille, le sue visioni in all-over di perfetta pienezza sensibile. Queste, ancora parafrasando, le strutture d’uno stile certo di sé per interna ragione e necessità. Questa la maturità in forza della quale l’artista affronta, lasciata la ferocia critica al decennio trascorso, un decennio nuovo di felice souplesse.

Boille, Senza titolo, 1965

Boille, Senza titolo, 1965

Quanto di barocco il decennio Sessanta porti, come legge Tapié nelle personali da Stadler e da Schmela, 1960, e quanto invece una sorta di stringente genetica della forma pittorica, crescente per via di “un tessuto di cellule spesso e vivo”, come piuttosto indicherà Cesare Vivaldi (13) (e del “senso di un mondo in divenire” dice Maurizio Fagiolo (14)), è ben leggibile nell’assettarsi dei sovratoni cromatici, e delle collisioni crude di timbro, entro le fluenze in continuo del dotto pittorico. L’urgenza del gesto prima, l’avvertito ripensamento della pulsione automatica di poi, e ora la certezza intima che né il patrocinio razionale né la pura effusione affettiva rendono il gesto congenere alla materia che va organizzandosi in immagine, bensì un’altra e più intima identità: sono, queste, le tappe di un gradus che Boille percorre senza soluzioni brusche, per concentrazioni successive, sino a questa stagione straordinaria, che si inoltra sino alla fine del decennio.

“Peintre à signes”, dunque, ancor più risolutamente si fa l’artista: ma di segni che trascorrono e s’intessono come un respiro senza affanni, certo delle proprie intime cadenze, delle durate, degli snodi visivi e fisiologici dell’immagine.

Ancora titoli: Signes-surface, Ritmo continuo, Structure continue. La sua posizione, riportata alla scena italiana, non pare distante da quella identificata da Giulio Carlo Argan, proprio in questo momento, nel gruppo Continuità (15): la “ricerca del continuo” ascritta agli antichi compagni di via di Boille, in effetti, è figlia di una cultura che ha traversato non polemicamente, ma certo con nitore e inflessibilità critica, la stagione informale, approdando a un’ “organicità astratta” – così usava allora indicare – della quale interprete perfetto sarebbe, non fosse che per l’appartenenza a un altro milieu artistico, il nostro. Sarà proprio Argan, d’altronde, sia pure in un tempo in cui lo studioso andrà sposando appieno la causa dell’arte tecnologicamente programmata, a riconoscere a Boille un tasso alto di “storicità” nell’intendimento del farsi della pittura, ove “i segni seguitino a mutare, a esercitare e ricevere influenze, a vivere”: di lì a due anni ancora, dirà di “ritmo esistenziale”, di “poetica del continuo”, di linguaggio vissuto nell’“evidenza del suo formarsi ed evolvere nel processo stesso dell’operazione pittorica” (16). Gli anni registrano una maggior attenzione dell’ambiente artistico nostrano, tra 1965 e 1966, con le personali da Pogliani, Roma, da Michaud, Firenze, e alla Biennale del 1966. Una prima retrospettiva del suo lavoro tutto si terrà d’altronde, nel tempo di un’ulteriore personale da Stadler, già nel 1969 al Centro Rizzoli di Milano: primo segnale forte dopo il trasferimento dell’artista a Roma. Nel 1964 era peraltro accaduto a Boille di rappresentare l’Italia, al Guggenheim International Award, New York, insieme a Fontana, Capogrossi e Castellani (17). Si può considerare, dunque, che il decennio sia di una pittura francese, ma già con lo sguardo rivolto al dibattito italiano, in un momento in cui l’ambiente parigino mostra i primi cedimenti che ne marcheranno la brusca involuzione. E’ il momento, in altra lettura, della massima temperatura espressiva toccata dall’artista. Gialli e rossi caldissimi, accelerato il timbro sino alla dissonanza, s’impossessano dello spazio e del tempo di visione, e a far cadenza è la nervatura corrente, sottile, di bianchi e neri secchi, quasi in tarsia oppure per l’agglutinarsi di strati e piani collassati in un’unica, tesa, consistente, organica fisiologia superficiale. Altrove, tuttavia, ancora è una sorta di riottosità alla captazione di convenzione del colore: e sono allora bruni, terre virate verso nero, e bianchi alitanti l’ocra; altrove ancora, sono cadenze più cantabili, in largo, d’un gesto che, non succube del colore, ne lascia fluire uno spettro ampio di toni, tra eccitazione e introversione meditativa, come è nello Strutture d’insieme ora alla Galleria nazionale di Roma.

Lo scorcio del decennio, dice, tuttavia, che attraverso questo ritrovamento di souplesse operativa, di scrittura cromatica intimamente necessaria, e della decantazione del colore alla condizione mentalmente suggestiva di colore/luce, che Boille ha alle viste il tempo di una calligrafia lirica in triangolazione storica con il decorare arabo tanto quanto con il nucleo migliore dell’art nouveau, sui nutrimenti della pattern painting. S’apre una stagione nuova, tutta italiana ora, in fervida maturità.

Note

1. M. Tapié, Un art autre, Gabriel-Giraud et Fils, Parigi 1952. La formulazione di Tapié riguarda una compagine assai variegata di artisti (Wols, Fautrier, Brauner, Dubuffet, Pollock, Tobey, Francis, Mathieu, Hartung, Ossorio, e altri) e tende a privilegiare i fattori di destrutturazione dell’immagine, in chiave organica o di forte protagonismo del segno: gli artisti italiani presentati sono Sironi (le cui tarde visioni impastate di materie alte e livide sono lette in chiave di dissoluzione della forma), Capogrossi, Marini, Dova. Lo stesso anno Tapié cura da Facchetti a Parigi Signifiants de l’Informel, che consacra la denominazione elaborata dal critico sin dal 1948. E’ da notare che in quei mesi esce H. Rosenberg, The american action painters, in “Art News”, 51, dicembre 1952.

Sui rapporti intensi di Boille con studiosi come Tapié e Restany, cfr. N. B. Calendreau, Itinerario critico-artistico 1953-1984, in Luigi Boille, catalogo della mostra, Centro Attività Visive, Palazzo dei Diamanti, Ferrara, 1984; Luigi Boille. Itinéraire artistique, catalogo della mostra, Galerie 16, Parigi, 1989. Bella testimonianza retrospettiva è P. Restany, Luigi Boille. Peintures 1997, catalogo della mostra, Studio Simonis, Parigi, 1997.

2. L’esposizione “Il Gesto” si tiene da Schettini, Milano, con  Baj, Bertini, Borri, Colombo, Colucci, Dangelo, Dova, Fontana, Milani, Alechinsky, Arnal, Bellefleur, Buchheister, Bryen, Childs, Corneille, Dumouchel, Duncan, Ernst, Freddie, Goeritz, Goetz, Halpern, Hantai, Herdies, Herold, Kujawsky, Inoue, Jean, Jenkins, Jorn, Yunkers, Matta, Messagier, Miller, Morita, Nakamura, Nieva, Osterlin, Saura, Schultze, Serpan, Sonderborg, Treinen, Tremblay, Viseux, Zañartu: Esposizione Il Gesto, catalogo della mostra, Schettini, Milano, 1955. Della rivista “Il Gesto”, che si dichiara “rassegna internazionale delle forme libere”, escono quattro numeri fino al 1959.

3. Boille è presente, introdotto da un testo di Restany, nel secondo volume, a cura di J.C. Lambert, che esce nell’aprile 1958 per Le Musée de Poche, Parigi: vi pubblica Peinture, 1957.

4. Espliciti riferimenti al Focillon della Vie des formes, libro tra l’altro amatissimo da De Staël, si leggono d’altronde in J.C. Lambert, La Jeune École de Paris II, cit. Vi si dice inoltre di un “vouloir-faire, qui ne se distingue plus de son vouloir-vivre”, di “co-naissance du sujet et de l’objet, de la peinture et du peintre”, come traccia genetica di questa formatività.

5. Gastone Novelli e Achille Perilli fondano nel 1957 “L’esperienza moderna”, nel cui biennio di vita escono quattro numeri. Il primo numero si apre programmaticamente con il saggio di F. Maraini Il segno nella scrittura giapponese (va segnalato che nel 1960 uscirà presso Scheiwiller E. Fenollosa, L’ideogramma cinese, e che già dai primi anni Cinquanta Emilio Villa sviluppa intuizioni sul segno dell’arte primitiva: cfr. ad esempio Noi e il primitivo, in “Arti visive”, 4-5, Roma, maggio 1953; Ideografie sui lastroni del Monte Bego, in “Arti visive”, 6-7, novembre-dicembre 1953). Vi si leggono inoltre testi di e su Klee, Schwitters, Wols, Fontana, Arp. Sotto la dizione “nuova figurazione” appaiono interventi di Perilli, Novelli, Capogrossi, Corpora, Scialoja, Boille, Accardi, Rotella, A. e G. Pomodoro, Alechinsky, Twombly, Bryen, Vandercam, Goetz, Herold, Man Ray, Marca Relli, Ernst, Kandinsky, Kline, Picabia, César, Saura, Gaul, Tàpies. Una ricostruzione complessiva in L’esperienza moderna, catalogo della mostra, Galleria Marlborough, Roma, 1976. Non è casuale che per le edizioni L’esperienza moderna esca nel 1958 Le mur derrère le mur, poesie di É. Jaguer e otto litografie di Boille, Novelli, Perilli e Sterpini.

6. É. Jaguer, Boille, catalogo della mostra, Galleria Selecta, Roma, 1957.

7. G. Ballo, Luigi Boille, catalogo della mostra, Galleria del Naviglio, Milano, 1957: cfr. anche M. Conil Lacoste, Phases, in “Le Monde”, Parigi, 15 novembre 1956, secondo il quale Boille “fait penser, en abstrait et à grande échelle, à la touche de Marie Laurencin”.

8. P. Restany, Luigi Boille, in J.C. Lambert, La Jeune École de Paris II, cit.

9. Michel Tapié soggiorna a Torino dal 1956, fondandovi nel 1959 l’International Center of Aesthetic Research. Una ricostruzione analitica della sua attività di organizzatore e di scrittore d’arte in M. Bandini, Tapié un art autre, catalogo della mostra, Fratelli Pozzo, Torino 1997.

10. M. Tapié – L. Moretti, Strutture e Stile, catalogo della mostra, Fratelli Pozzo, Torino 1962; L. Moretti – M. Tapié, Le Baroque généralisé, Edizioni del Dioscuro, Torino 1965. Va ricordato che in questo momento, in Italia, la tangenza maggiore è il lavoro di Carla Accardi, che proprio Tapié presenta nel 1957 all’Ariete, Milano, facendo esplicitamente riferimento all’orizzonte indicato da Tobey, Mathieu, Kline, Capogrossi. Si legge in Strutture e Stile: “Accardi et Boille avec leurs éléments baroques, posent le problème des structures de répétitions dans les ensembles complexes”.

11. M. Tapié, Boille, catalogo della mostra, Galerie Stadler, Parigi, 1960.

12. G. Bonnefoi, Les années fertiles 1940 – 1960, Mouvements, Parigi 1989.

13. C. Vivaldi, Boille à la XXXIII Biennale de Venise, Editions Galerie Stadler, Parigi 1966, ove cfr. anche un testo intenso di M. Mendes, in cui si legge di “un universo oscillante tra l’organico e l’inorganico”.

14. M. Fagiolo, Boille alla Pogliani, in “Avanti!”, Roma, 12 giugno 1965.

15. Il gruppo Continuità si presenta nell’aprile 1960 con Novelli, Perilli, Dorazio, Consagra, Bemporad, Giò e Arnaldo Pomodoro in una mostra alla Bussola di Torino (catalogo, testo di G.C. Argan), prima di una itineranza biennale. Cfr. inoltre, per un contesto più ampio, M. Tapié, Art et Continuité, Edizioni della Corona, Torino 1966.

16. G.C. Argan, Boille, catalogo della mostra, Galleria Michaud, Firenze, 1965. G.C. Argan – M. Tapié, Boille, catalogo della mostra, Galerie Stadler, Parigi, 1967.

17. L. Alloway (a cura di), Guggenheim International Award 1964, catalogo della mostra, The Solomon Guggenheim Museum, New York, 1964.