Anton Raphael Mengs, Pensieri sulla bellezza, 1762

Come ciascun pittore ha scelto l’una o l’altra cosa particolare cercando in essa la sua perfezione, così han­no fatto anche gli antichi. Fra tutti i pittori che vissero dopo il rinascimento delle arti si osserva un motivo ge­nerale e un’unica volontà, cioè l’imitazione della natu­ra. Questo fu il loro fine principale; ma lo perseguirono per vie diverse. Anche gli antichi Greci ebbero, nono­stante la loro diversità, uno scopo principale, ma esso era assai più sublime di quello dei moderni. E poiché le loro idee s’innalzavano sino alla perfezione stessa, essi prendevano il mezzo fra la somma perfezione e l’uma­nità, cioè la bellezza, come loro scopo principale, e del­la verità prendevano soltanto l’espressione. Perciò la bellezza si trova in tutte le loro opere, ma fra tutte le espressioni nessuna è così forte da far soccombere la bellezza. Credo di poter chiamare quello degli antichi il gusto della bellezza e della perfezione, poiché le loro opere, benché siano imperfette come tutte le opere fat­te dagli uomini, hanno tuttavia il gusto della perfezio­ne. E come il vino, mescolato con l’acqua, conserva tut­tavia il sapore del vino, così anche le loro opere, ben­ché deteriorate dall’umanità, hanno il sapore della per­fezione, e perciò io le chiamo perfette.

Le opere degli antichi sono anzitutto differenti fra loro per bontà ed espressione, ma non per il gusto. So­no tre le classi dei monumenti antichi; cioè in tutte le statue che ci sono rimaste ci sono tre diversi gradi di bellezza. Quelle inferiori hanno sempre il gusto della bellezza, ma solo nelle parti indispensabili; quelle del secondo grado hanno la bellezza nelle parti utili; e quelle alfine della prima classe lo hanno dalle parti in­dispensabili sino a quelle superflue, e perciò sono per­fettamente belle. Ora, essendo la bellezza in se stessa nient’altro che la perfezione di ciascuna idea, e perciò si chiama bello ciò che è più perfetto tanto nelle cose visibili quanto in quelle invisibili, si devono considera­re allo stesso modo anche le opere degli antichi, e cioè che la loro bellezza non sempre consiste in una medesi­ma parte, ma nell’essere la parte scelta dall’idea rappre­sentata nel modo migliore.

Le opere più belle del sommo grado sono il Laocoon­te e il Torso del Belvedere; le più belle del secondo gra­do sono l’Apollo e il Gladiatore Borghese; quelle del terzo grado sono innumerevoli; di quelle brutte nean­che intendo parlare. I grandi maestri dell’antichità fu­rono superiori ai moderni nelle loro idee e più grandi ancora nell’esecuzione, poiché le loro idee si formaro­no sulla perfezione, ma nell’esecuzione seguirono non una sola parte, come hanno fatto i moderni, ma il tutto della natura.

Come i moderni hanno mostrata un’intenzione in un’opera, così gli antichi in ogni singola parte mostra­rono diverse intenzioni, secondo le quali era stata fatta dalla natura. Fra i moderni Raffaello amava l’espressi­vo, Correggio il dilettevole. Ora, per esempio, il nervo di un muscolo è più espressivo della sua carne; ebbene, Raffaello faceva il nervo più che la carne, e Correggio più la carne che il nervo; gli antichi Greci facevano in­vece l’uno e l’altra sapendo che sia la carne che il nervo hanno ciascuno la loro particolare bellezza. I moderni hanno sempre diminuito una parte per rendere l’altra più forte, mentre i Greci non facevano così ma mutava­no soltanto queste parti secondo la loro espressione. Se la figura era umana vi facevano tutto ciò che appartiene alle proprietà dell’uomo; se era divina, lasciavano da parte le qualità umane e sceglievano soltanto quelle di­vine. E così si regolavano secondo tutti i significati. Finché formavano un uomo, cercavano di non trala­sciare nulla, ma di rendere più visibile quello che è necessario all’espressione, che non quello che non è necessario.

Perciò concludo che il pittore, che vuole trovare il buono ossia il migliore gusto, deve imparare a cono­scerlo da questi quattro; cioè: dagli antichi il gusto del­la bellezza; da Raffaello il gusto dell’espressione o della significazione; da Correggio il gusto del dilettevole o dell’armonia; da Tiziano il gusto della verità o del colo­re. Tutto questo però egli deve cercarlo nella natura e nella vita, perché tutto ciò che ho scritto e mi sono sforzato di spiegare tende solamente a far conoscere ai giovani artisti le pietre di paragone a cui devono prova­re il loro gusto, poiché la più grande difficoltà nel pen­sare è quella di non errare.

Ora, siccome i modelli di cui ho parlato sono stati imitati tante volte da molti altri, ma da nessuno tuttavia superati, è una verità evidente che questi tre grandi maestri avevano preso la giusta via della perfezione. Perciò mi sono servito di loro come esemplari ed ho mostrato il cammino per comprenderli ed imitarli. Chi lavorerà diligentemente col senno e con la mano e ri­fletterà seriamente su quanto ho detto, potrà un giorno essere contento della sua fatica e del suo lavoro e con­seguirà il buon gusto.