Georges Perec, Storia di un quadro, Skira 2011, in “Il Giornale dell’Arte”, 311, Torino, luglio-agosto 2011

Nel 1979 Georges Perec applica il suo congegno letterario micidiale al mondo che, per eccellenza, sulla collisione tra verosimiglianze si fonda, la pittura. La storia è quella di un collezionista, Hermann Raffke, ritratto in Un cabinet d’amateur dell’artista Heinrich Kürz tra i suoi quadri, mentre fissa il suo stesso ritratto tra i quadri, in una moltiplicazione infinita.

Poi Raffke muore e si fa seppellire in una tomba che somiglia in tutto e per tutto alla stanza senza aperture in cui il quadro lo raffigura, collocato nella posa in cui è ritratto: solo che nel sepolcro è rivolto allo stesso Cabinet d’amateur. Egli contempla se stesso che contempla, all’infinito, per l’eternità, in perfetta, autistica, insensata mancanza di sguardo.

Teniers, L'arciduca Leopold Wilhelm nella sua galleria in Bruxelles, c. 1651

Teniers, L'arciduca Leopold Wilhelm nella sua galleria in Bruxelles, c. 1651

Ma resta la collezione, e lo studio filologicamente accanito che si scatena. Il gioco è quello delle minime, continue alterazioni della verosimiglianza. In ognuna delle successive rappresentazioni di Kürz ogni quadro riprodotto presenta piccoli significativi mutamenti. Poi ci sono i discorsi e le descrizioni che ne fa la critica, elenchi, repertori e schede di catalogo in cui Perec sguazza mimando con discrepanza feroce i tic della scrittura d’arte, gli andirivieni tra vero verosimile copia falso. Ancora, ci sono gli accidenti ulteriori che lo scrittore dissemina qua e là, mescolando artisti e studiosi veri con altri che innescano derive argute: c’è un R. Mutt che non è quello, peraltro a sua volta fittizio, cui pensiamo noi, c’è il gangster Angelo Merisi, c’è John Jasper, c’è la rivista d’arte “Befana”… uno dei critici, poi, si chiama Doppelgleisner, ovvero letteralmente “doppio ipocrita”.

Conciso e perfetto, il testo dipana la vicenda di una potente, strepitosa allucinazione collettiva, di cui è protagonista e insieme vittima non tanto il mondo dell’arte, quanto lo stesso sistema di codici e di protocolli su cui si regge l’idea di pittura, il paradigma sempre più improbabile della rappresentazione dell’esistente e insieme la convinzione che il quadro è comunque un oggetto teorico, perché il tema di ogni immagine è l’immagine stessa.

Perec gioca con i meccanismi storici dell’Einsatzbild e dello Spiegelbild, tipici di quell’arte nordica di genere che il protagonista, birraio tedesco di Pittsburgh, in perfetta identificazione sociologica non può che sposare, ma lo fa adottando la scrittura anziché la pittura: la narrazione funziona come ciò di cui parla, ed è a sua volta specchio meticolosamente straniante.

Lo snodo narrativo decisivo è un’altra situazione di identità/alterità, che val la pena di non spiegare perché alla fin fine questo coinvolgimento progressivo del lettore per fascinazione labirintica è come una trappola: e ogni volta deve scattare, implacabile.