Zanichelli
Bruno Zanichelli, catalogo, Fondazione Sandretto Re Rebaudengo per l’arte, Guarene, 10 aprile – 30 maggio 1999
1. “E’ singolare il lavoro di Bruno Zanichelli perché ha sempre mostrato due moti irresistibili e conflittuali, quello della giovinezza e quello della fine. Il paradosso stava nel fatto che più lavorava a scollarli e più si annodavano. Quella di Bruno Zanichelli è come una metafora accelerata della esistenza. La sua formazione, il suo tirocinio come visualizzatore pubblicitario, la sua discendenza dal grande fumetto bolognese, la sua attenzione a quanto avveniva nei segni del mondo dei giovani uniti a qualità che si è portati ad attribuire alla maturità, la capacità di sintesi, l’intelligenza superiore e ancora la sua generosità, per dire di come i suoi lavori intreccino il mondo e la persona insieme. Questa sua mostra, l’ultima di una attività di quattro anni, vista crescere come una scommessa sulle proprie possibilità, diceva porto avanti i quadri in modo che ad ogni stadio siano finiti, che è già un lavoro, mostrano nel modo più preciso la compresenza di lucidità e perdizione, di guerre e balocchi, di guance e coltelli “Zanichelli coltelli”, di arguta pubblicità colorata e città in china alla deriva, di insetti e walkman, di somma precisione tecnica descrittiva ma che permetta una concitazione di cose, di oscillazione del limite tra vero e falso. Si Bruno Zanichelli è il Magritte degli anni 90, a noi trarne frutto, amico. (Corrado Levi, 16-1-90)
Così la testimonianza di Corrado Levi, compagno di via più che patrono del percorso di Bruno Zanichelli, e d’una parte non banale della sua generazione tutta.

Zanichelli, Senza titolo, 1987
Zanichelli è figura per certi versi esemplare della vicenda artistica degli anni Ottanta. Non tanto perché ne incarni gli elementi postavanguardistici quanto perché, con levità e lucidità, per decisione non strategica si sottrae al contesto dell’arte “alta” – comunque alta, anche presso coloro che adottano la retorica dell’high and low con cinica prassi manipolatoria – in virtù d’una tensione a fare che risponde più a oscure ma pressanti mozioni esistenziali, di conoscimento e affermazione d’identità soprattutto, che a interrogazioni all’arte e ai suoi statuti di necessità. E in ciò s’affianca a un tentativo complesso e contaminato di non ufficialità che traversa nel suo tempo la fabbrica delle immagini così come la musica, come la scrittura, come il cinema, eccetera.
In altri termini. La spinta iniziale ad agire non scaturisce dalla postulazione preventiva di una fisionomia professionale organica al sistema artistico, in seno alla quale, e in seguito alla ormai lisa coazione a ripetere del comportamento avanguardistico e mondano-mediale, reperire ragioni di originalità in grado di “far notizia” e garantire un ruolo: ciò riguarda altre pratiche, situazioni e reputazioni (penso soprattutto allo spreco di Wildheit simulata in Germania, in Italia, in Francia), non il germinare di queste esperienze plurime e irriducibili ai paradigmi statutari esistenti.
Parimenti, essa non è frutto inconsapevole di pratiche incolte che il mondo della consapevolezza culturale assume a freddo con gusto intellettualistico e, infine, esotico. La vicenda di Basquiat, dal suo rapporto con Warhol alla santificazione postuma, è esemplare, soprattutto dal punto di vista della sociologia dell’arte. Ma è invero assai diversa.
2. Nel caso di un artista come Zanichelli, il Popism dimostrato e profetizzato da Warhol, ma ancor più da Baudrillard, è brodo di coltura, non connotato esplicito. Ovvero, esso agisce come avvertimento della mancanza soggettiva di un profilo culturale – oltre che sociale – definito, da accogliere o al quale contrapporsi non importa; della collocazione involontaria nell’area vasta e opaca del masscult e del midcult (Dwight MacDonald dovrebbe essere lettura obbligatoria, nella scuola: si avrebbero idee più chiare sulla “banalità interiore”, sul fatto che “al giorno d’oggi tutti vivono in riserve”, e sulla deindividualizzazione come distruzione di ogni mozione di valore ad opera dell’omogeneizzazione); soprattutto, del trascolorare definitivo della cultura “alta” come serbatoio di modelli plausibili e non meramente autoreferenti.
Tale avvertimento fa maturare l’idea della pratica espressiva come pratica specifica del simulacro in grado di esorcizzare la servitù dai simulacri dell’omogeneizzazione. Una pratica che valga per sé, nella sua spinta ossessiva e nella sua disperazione dolce – disperazione d’ideologia, di progetto e d’esito sperato; luogo d’emulsione e di coagulo d’una identità culturale che dica estraneità, anziché opposizione o adesione; luogo, soprattutto, d’un “trovarsi” al di fuori di codici culturali sentiti comunque come impositivi ed eteronomi. Una sorta di alterità culturale, insomma, che galleggi sul mondo debordiano dello spettacolo, senza cavalcarlo senza farsene complice.

Zanichelli, Scatola gialla, 1989
“Ho una cultura da liceale distratto”, dice Zanichelli nelle fitte pagine d’uno scrivere che è, per lui, complice paritario del fare immagini, i cui esiti si leggono oggi per la prima volta nella loro intierezza. E ancora: “Sono sempre più figurativo, e nella figura sempre più dettagliato e sempre meno curato”. Sino a un’idea di astrazione come distanza dalla proprietà naturale delle cose, dalla loro fisicità concreta, come filosofia straniata del mondo come packaging e pura apparenza. Ma è una “distrazione” che asistematicamente, con voracità – essa sì – cannibale si misura con Baudrillard e Tuttle, con il dibattito dell’arte “seria” insomma: senza complessi senza remore, traendo pari nourritures dalla vita ordinaria: e dall’amore.
Disperazione dolce, s’è detto. Che in Zanichelli, per dramma biografico, si carica d’una convivenza distillata con il senso di morte che a maggior ragione spinge a un fare indifferente all’esito, a un viaggio che non può dirsi termini sperati, e procede per accumulazione continua, l’unica misura esperibile del tempo che non parli di fine imminente. Dolce, perché sottratta a ogni patetismo: lucido sentirsi vivere sapendosi morire capace d’un suo vitalismo lieve, energetico, autoironico, disincantato. Meravigliato, anche.
3. Zanichelli nasce come Pennarex, alla maniera dei Pazienza e degli Scozzari, all’ombra del grande padre – non sentito come tale: grande libertà dà lo scegliersi orfani – Moebius. Volendo fare, concentrando sul fare tutto il proprio focus energetico, prima ancora di sapere come. E’, come tutti, invaso d’iconografie popolari, pubblicità fumetto cartoon cinema, ma già ben avvertito che il feticismo, delle immagini delle cose, è il grimaldello che ne può far saltare l’assedio, per via di dismisure. Lavora da subito a trovare una qualità specifica dell’iconografia, ben consapevole che anche lo stile è divenuto ormai packaging. Tenta, piuttosto, il meccanismo dell’immagine, attentando o semplicemente forzando la logica delle relationships che intestano la scrittura visiva, adeguando con libertà corsiva la pratica dei modi.
Non progetta uno sviluppo. Constata la propria iniziale carenza di conoscenze dirette, la adegua con golosità ametodica, saggiando con variabilità – è il caso di dire – cangiante, e subito passa alla sua indefinitamente provvisoria maturità. Per un lustro di lavoro. E’ molto. Attorno si muove il mondo di coloro che guardano al gran teatro dell’arte con pari scettica ironia, e che vogliono entrarci non da selvaggi incazzati ma da meticci stralunati, da deflagratori non violenti. Sono Pier Luigi Pusole, Raffaello Ferrazzi, Maurizio Vetrugno, Andrea Mandarino, Luigi Stoisa, soprattutto, a Torino. In giro per l’Italia, Marco Mazzucconi, Stefano Arienti, Vittoria Chierici, Amedeo Martegani, Guglielmo Aschieri, Mario Dellavedova, Augusto Brunetti, Fabrizio Passarella, Igort, Massimo Kaufmann.
Il “lieve e implacabile” Zanichelli, così lo indica Corrado Levi presentandolo a Milano nel 1987, condivide un po’ di vita in più con Pusole e Ferrazzi, ma è sostanzialmente estraneo a ogni logica di groupage. Da tutti lo isola una concentrazione autobiografica assoluta, necessitata dalla sua esistenza così diversamente cadenzata, riempita e anestetizzata dal fare e dalla propria storia d’amore. Ma anche, allo stesso modo, o forse proprio perciò, lo isola un intendimento della pratica sorgivamente straniato dall’ansia di successo, dalle strategie di cooptazione intellettuale, dai comportamenti professionalistici. Il lavoro è la sua stessa identità, l’unica cosa che egli sappia con certezza e possa dirsi di sé. Tanto basti. Per questo occorre una libertà incontrattata, e una verginità intellettuale di durezza angelica. Che è ciò che Zanichelli coltiva, esclusivamente.
4. Zanichelli non chiede sviluppo al proprio percorso, e preferisce muoversi asistematicamente, per blocchi d’esperienza, in senso orizzontale. Come in una deriva della teoria dei generi: ritratto, natura morta, nudo, veduta urbana… Generi che non gli importano, ovviamente, come tali, ma in quanto portatori in sé di una acquisita retorica iconografica. Non è dalle immagini, infatti, che egli muove, ma dall’intelligenza dell’effetto di riconoscimento che esse inducono nella cultura media, postmoderna si dice, della quale egli è figlio, e con capriola intellettuale insieme lucido esploratore. Lo stupore che innesca l’accelerazione immaginativa gli viene non dall’immagine, ma dalla constatazione ogni volta rinnovata della sua perdita di corpo, del suo essere segno svincolato dal referente reale, fluttuante e fluente, né vero né falso in sé, un segno libero, per dire con Baudrillard, “per un gioco strutturale, o combinatorio, secondo una indifferenza e una indeterminazione totale”.
E’ l’immagine che fa lo spettatore mero schermo del segno, e che nella sua incidenza gleaming si rende, è ancora Baudrillard a dire, “prodezza senza conseguenze”, secondo un principio di iperrealtà che Zanichelli decide di accelerare per una via che può considerarsi diametralmente opposta ai ragionari analitici di Paolini sulla doublure. Zanichelli tenta, con la sua pittura veloce e diretta, paradossalmente nitida nella concussione delle fattezze dell’immagine, di centrare l’interstizio tra la nuda apparenza e la fisicità altra, a sua volta artificiosa, che attraverso quei segni esperiamo. “Tecnicamente tendo a raccontare e rappresentare nel modo più comprensibile e semplice, usando i codici segnici e cromatici da tutti rintracciabili nel catalogo dell’esperienza visiva più elementare. Cerco di spogliare le situazioni e le scene di componenti decorative onde semplificare la comunicazione evitando eccessi di gusto personale nella composizione”. Sino alla consapevolezza concettuale definitiva della serie sulle scatole.
5. Zanichelli si mantiene lucido, non si innamora del proprio oggetto, non congela ambiguamente come un Pop. Adotta semmai una prospettiva feticistica, nel senso dell’ipertrofia curiosa e della forzatura dei gangli di senso: è il feticismo di tipo infantile, assunto in consapevolezza, per il quale la visione delle immagini è insieme una sorta di zoom mentale e di espansione fantastica e metamorfica, contaminatoria, magari con al centro se stesso divenuto personaggio estraneo, “eroe” dell’autoracconto, come le cose circostanti. Capace di meraviglia, di stupore, non di credere alla realtà di ciò che vede. Da tale feticismo è esclusa l’idea di pittura, infatti. Alla quale egli non riconosce alcuna liturgia, alcun privilegio mandarinesco, alcuna separatezza esclusiva. I quadri sono immagini che si immettono paritetiche nel flusso delle immagini, artifici che parlano degli artifici circostanti, e perciò distinguibili solo in quanto generanti anticorpi mentali che si attivano dopo l’erotismo lieve della lettura prima. Immagini facili in pelle, ma straniate radicalmente, infine discontinue, capaci di inceppare il meccanismo delle apparenze per eccesso di apparenza.
6. Perdita di corpo, si è detto. E’ in virtù di un ancoraggio fisico ed emotivo estremo all’isola intangibile della fisicità propria del corpo, il corpo che non si può perdere né tradire in look, che Zanichelli mantiene salda la prospettiva del proprio discanto. Il corpo proprio e quello della donna, che vale luogo d’esperienza in sé: nella singolarissima condizione di Bruno, con un ravvicinamento micidiale tra istinto erotico vitale e un cotidie morimur non filosofico, davvero quotidiano. I nudi, i corpi di donna, hanno un tocco d’occhi che nessuna doublure riesce a trasformare, cui nessun guizzo ironico toglie profumo e tenerezza. E gli autoritratti, i ritratti, i coltelli.
7. Zanichelli lavora per blocchi d’esperienza, s’è detto. Che non è esattamente secondo serie. La seriazione appresa dall’officina pittorica è fatta dell’isolare un motif e del declinarlo passo passo, secondo una prospettiva progressiva, di schiarimento, di evoluzione. E’ un da a, comunque. In Zanichelli è stabilire, in grumo intuitivo – spesso a partire da un titolo: scambio scrivere dipingere, discorsiva intuizione visiva – un sistema di relazioni iconografiche, o meglio un clima visivo, e variare continuamente l’approccio sino all’esaurimento della curiosità, sino alla scoperta di un non senso non più manipolabile. A tale approccio corrisponde l’adozione degli strumenti operativi congruenti. Indifferente all’artigianalità della disciplina e ai suoi orgogli, prevalentemente Zanichelli disegna a colori, lasciando scaturire sempre una sorta di non mediato codice illustrativo perfettamente corrispondente alla clarté di prima comunicazione e di innesco di codice sulla quale basa il proprio processo d’effetti. Anche per questo, ha ragione Corrado Levi, “Magritte degli anni 90”. Dal dotto grafico si preoccupa di elidere il tic individuale, il gusto personale, il carattere – il quale pure trapela, per sprezzata qualità – e di far riverberare sottilmente l’eco del riconoscere rassicurante in cui si adagia l’aspettativa del lettore.
Non gioca il gioco delle citazioni, stucchevole al tempo in cui lavora. Non si affanna in manierismi. Usa, da padrone intellettuale di un’immagine, degli strumenti, giocando a scacchi con i segni che ci tengono in scacco. Non è affascinato dalla tecnica in sé. Quando affronta, auspice Guido Carbone, il passaggio dai colori da grafico a quelli da pittore, non si fa cogliere dal complesso che pure mina i tentativi pittorici dell’affine Pazienza. Non “diventa” né si sente pittore. Usa i modi della pittura: anch’essi modi, codici. Per la stessa ragione non attribuisce al colore altra responsabilità che il rapporto, la posizione, la saturazione della superficie con forte presenza sensoriale. Sottilmente inacidisce i toni, avvelena i timbri, nella stagione ultimissima. Quando, volendo o no, esprime.
8. Leggere i suoi fogli. Notando spesso l’anticipo intuitivo tra questo ragionare in deregulation e i tentativi pittorici, in una sorta di disimmetria che dice come l’esperienza di Zanichelli sia un continuo pensare, e pensarsi fare, più che un fare con centralità d’esperienza. E quale velocità concitata, e quale temperatura, talora, i pensieri raggiungano, liberi dall’obbligo della oggettivazione visiva. Perciò egli può dirsi, anche, sia pure con vezzo ironico, concettuale. In questi fogli non c’è ciò che Zanichelli avrebbe potuto essere, se la storia fosse stata diversa. C’è, chiaramente, ciò che non sarebbe stato. Non un reduce, non un mercante inacidito della propria passata stagione gloriosa, non una vittima dell’insuccesso di ritorno. Non un professionista della pittura.
Sarebbe, comunque, un artista vero.