V Biennale SPSAS Cureglia
V Biennale SPSAS d’arte all’aperto, Casa Rusca, Cureglia, 12 settembre – 1 novembre 1999, Electa, Milano 1999
Un giardino, gli artisti. E’ ormai consuetudine, nell’arte contemporanea, che la proiezione ambientale di talune operazioni sia il contesto naturale. E’ una consuetudine del contemporaneo, va subito soggiunto, che riprende ed amplifica, con riflessione critica e inventiva, una tradizione che ben più addietro affonda, nei parchi di meraviglie in cui l’artificio, al sommo grado, fosse in modo duplice e congruente quello della natura artificialis e del creare umano.
Giunta all’età della maturità, una maturità cospicua accresciutasi di edizione in edizione dalla primogenitura di Nag Arnoldi alle prove recenti di Gianfredo Camesi, anche la Biennale di Cureglia sceglie la via della riflessione su ciò che il Ferrari diceva hortensis architectura: ovvero, non l’assunzione del giardino a teatro, pur nobile, di opere altrimenti e altrove generate, ma del giardino in quanto matter dell’azione critica stessa.
Materia, argomento, sia beninteso, in termini critici, riflessivi, oltre che inventivi: d’un operare che è, in fondamento, pensare, ripensare il giardino, la sua fisionomia specifica e insieme la sua identità storica: attraverso gesti che valgano cadenza e metro intellettuale, scrutinio e riverbero affettivo, appropriazione creativa e rispetto fondamentale. E alterità, certo, com’è sempre delle cose d’arte: ma un’alterità acquisita e concepita come attivante differenziali di tensione generativa positiva, in un unico, e non discontinuo, processo di presa di possesso intellettuale ed emotiva.

Rigassi, Nave erratica, 1995
A ben vedere, in anni recenti s’è dato più volte il caso, e l’occasione, di interventi d’arte concepiti appositamente per contesti naturali. Assai più raramente, tuttavia, s’è verificata la possibilità che tali interventi si tenessero lontani da entrambi gli estremi del segno antropico deliberatamente difforme, così come della contraffazione – variamente consapevole – del dato naturale in altro dato apparentemente naturale.
Ebbene, questa iniziativa ha scelto di percorrere la delicata via mediana: quella d’un’arte che, senza rinunciare a nulla della propria specificità, in termini linguistici, modali, concettuali, sia parimenti specchiamento dell’idea stessa di natura: come in una concentrazione virtuosa intorno all’idea – idea, si ribadisce – da cui nasce il valore stesso di giardino, natura e artificio in specchiamento serrato, armonico, mai vanamente autoreferente.
Non si può fare a meno di citare la celebre indicazione di Hofmannstahl del giardiniere che, “con i suoi arbusti ed i suoi cespugli, fa lo stesso che il poeta con le sue parole: li mette insieme in modo tale che essi sembrino nuovi ed eccezionali e, nello stesso tempo, come se per la prima volta significassero se stessi, si ricordassero di se stessi”.
Ciò è quanto, d’altronde, ad un ascolto attento chiede il giardino stesso, nato insieme alla Casa Rusca a far da accidente nobile nelle verzure rurali di Cureglia.
A concepire il complesso è Vitale Rusca (1790 – 1862), discendente “per li rami” da una delle grandi famiglie ticinesi, la quale sin dal 1733 è documentata anche in Cureglia. I Rusca, affini ai Rusconi disseminati in Lombardia (e va ricordato che Giuseppe Antonio Rusca, iniziatore di questo ramo, nasce nel 1707 a Milano, e a Milano ha cittadinanza e beni) , punteggiano di sé la storia di queste terre sin dal XIII secolo, con diramazioni genealogiche ch’è impossibile seguire: ma piace ricordare, in tema, il pittore cavaliere Carlo Francesco Rusca (1696 – 1769), e il Luigi Rusca da Agno (1758 – 1822) architetto alla corte di Caterina II di Russia.
Il palazzetto è sobriamente classico, della bellezza pudica che piace in queste valli, e presenta un solido e ritroso fronte verso la strada. Breve nota di classicità è anche la citazione pittorica della Madonna della seggiola raffaellesca che, nei modi freschi e ingenui d’una mano popolaresca, fa da immagine devozionale di strada su un angolo esterno: la data, 1823, può essere ben assunta a termine cronologico del complesso, anche perché è la stessa del matrimonio di Vitale con Rachele Porta da Agno.

Arcangelo, Villaggio Dogon, 1994
L’insieme s’ingentilisce – da subito, anche di verde – sul fronte opposto, verso il giardino, cui induce una scala simmetrica ch’è il momento anche strutturalmente forte, di sottolineatura simmetrica, dell’insieme tutto.
Di lì, un breve spiazzo su cui s’affacciano una rimessa e una serra organiche alla casa, e poi il giardino. Esso è scandito da terrazze lievemente digradanti, simmetriche alla spina del vialetto che approda a una non coeva apertura sul lato breve opposto all’edificio: apertura ora sottolineata, e valorizzata, dalla cancellata realizzata proprio in occasione di una delle passate Biennali. Nessuna grandeur, nessuna scenografia è nella compagine e nella distribuzione delle essenze. Idea dominante non vi è il giardino di delizia, e piuttosto la creazione di raccolte zone d’ombra per il sano ristoro del borghese abbiente, che può rimandare ad altri ambiti scelte utilitarie come quelle del frutteto e della vigna, e insieme riterrebbe sconveniente ogni esibizione di magnificenza, in nome d’un decoro sobrio e solido che è, verrebbe da dire, tratto costituzionale di quel tempo, e di quella cultura. Verso il fondo si apre lo spiazzo erboso soleggiato che, come è consuetudine, s’alterna alla fitta zona arborea.
Per ciò che si possa intravvedere al di là delle inevitabili stratificazioni e variazioni che il tempo ha allineato, la fisionomia originaria del giardino non doveva differire poi di molto dall’attuale.
E’ su questo scenario, su questi caratteri, soprattutto su questi valori che hanno deciso di operare gli artisti invitati per l’occasione.
La compagine è stata individuata per differenze specifiche, di vocazione e d’intendimento possibile del tema, avendo ben presente che non poteva non trattarsi che di artisti la cui storia di lavoro indicasse non generica affinità con il progetto: Arcangelo, Hidetoshi Nagasawa, Carmen Perrin, Reto Rigassi.
Piace iniziare da Reto Rigassi per due ragioni. La prima è che egli è l’enfant du pays. Non, s’intenda, in senso solo anagrafico. Egli è di questa terra perché negli anni, e nel suo lavoro appartatissimo, che con rigore inflessibile tiene al riparo anche dalla mondanizzazione inevitabile del circuito espositivo, ha sviluppato il senso stesso della propria ricerca come una complessa cognizione e riappropriazione d’identità.
Rigassi ha disegnato sempre, meglio, ha segnato, in rapporto complesso e amorevole con la natura, quella dei ghiacciai e quella delle mappe geologiche, quella delle stratigrafie archeologiche e quella del volgere del sole sui luoghi.
Ha considerato se stesso una sorta di intermezzo accidentale che, agendo nel vivere naturale allo spazio e al tempo, gli consentisse di far da rivelatore all’anima profonda dei luoghi: il muoversi e il respirare del ghiaccio, l’innesco memoriale e fantasticante di un fossile, l’anima del vento. La seconda ragione è perché egli, trovandosi per la prima volta a poter affrontare da par suo il tema del vegetale, e in un contesto per lui inusuale, potesse offrirci una lettura proprio della duplice ragione naturale/artificiale che è l’identità stessa del giardino. Ne è nata, né altrimenti poteva essere, un’operazione fondata sulla “geografia visionaria” che è propria a Rigassi. Lo stato attuale del giardino confrontato con le mappe del passato che ne rimangono, da un lato. Dall’altro, il progetto di reintegrare il giardino, sino a farlo somigliare alla mappa, utilizzando però le piante pioniere, le essenze cioè che la paleobiologia ci indica esser state quelle che popolarono il primo Ticino postglaciale, attivando un valore di identità storica che, stratificandosi, arricchisce e non trascolora.
Sulla connotazione artificiale lavora invece Carmen Perrin, da tempo impegnata in un suo complesso dialogo con la natura architettonica e tout court spaziale dei luoghi, nei quali immette la devianza dolce, ma intellettualmente lucidissima, dei propri interventi lievi. Il giardino è tema non ignoto, al suo lavoro. Perrin ne ascolta la vita, ne coglie le cadenze dei rapporti interni, e ne amplifica taluni elementi, per effetto di sottolineatura, di parziale modifica, di interferenza complice.
Nel caso del giardino di Cureglia, ha scelto di operare sulla sagoma forte, concettualmente e spazialmente determinante, del muro di cinta: la gran parte del quale, va ricordato, è coeva all’edificio, mentre una porzione è stata risarcita in tempi recenti. E’ da lì, infatti, che si diparte un motivo architettonico che sin dal profilo del parco inizia a disegnare strategie tipicamente vegetali, come disegni naturali che attenuino il valore marziale, difensivo, del plesso murario, facendone l’ingentilito sostegno di tralci arborei e floreali. Il muro antico conserva, regolarmente cadenzati, sostegni di pietra – una pietra sbozzata con ruvida funzionalità – ai quali far sostenere un pergolato che si svolgesse parallelo e insieme creasse un passaggio verso le macchie arboree. E’ su questi sostegni che Perrin imposta il proprio intervento: che, in questo caso, non è restituzione, ma evocazione stilizzata, per elementi emblematici, quasi a simulare eccentricamente ciò che un tempo era appropriato: un artificio che rimanda a un altro artificio, per riverberi sottili di memoria e suggestione.
Altra è l’invenzione di Arcangelo. Il suo è un pensiero di selve, più che di giardini: di boschi e monti d’un Sud mediterraneo sovranamente inattuale, che in lui ridiviene, per equivalenza inventiva ed affettiva, alito nuovamente mitico, in vena d’un animismo almeno sognato. La castità del giardino di Cureglia, quel suo offrirsi dimesso ma nitido al sole, ha evocato ad Arcangelo la primitività dell’altare votivo, il senso sorgivo della teoria di offerte alla forza naturale. Senza archeologismi d’accatto, beninteso. Non anacronistico è il modo di Arcangelo. Intimamente inattuale, piuttosto, e valevole per l’oggi di coscienza. Ecco allora i ruvidi ponteggi da cantiere, le assi di legno umile, costruire quell’altare: il gesto solo ne è antico.
E sopra, ecco allinearsi una teoria di vasi, dalle forme bruscamente tradizionali, dai decori corsivamente enigmatici: con quei neri e terre ispidi che dicono della matrice italica, della sapientissima barbarie che precedeva la cultura greca. Vasi sono, e verrebbe da pensare urne, per quei coperchi che si ergono in voglia di figurazione, veri corpi umani rifatti in corpo plastico. Ecco, Arcangelo intende forse, con il proprio intervento contraddittorio al carattere storico del giardino, rievocare la suggestione del bosco sacro, del cerimoniale che ad esso si lega e che indubbiamente sia la tradizione formalizzante italiana e francese, sia la più “selvaggia” del grande Nord, variamente stilizza. E piace pensare che il giardino borghese ottocentesco recuperi questa eco panica, che alita senza che l’opera dell’artista ne forzi oltremodo il senso.
Nagasawa, infine. Figlio d’un Oriente per il quale il giardino, l’idea del giardino e la pluralità dei giardini, è assai più che costume culturale. Reduce dalla Chashitsu, la stanza per la cerimonia de tè, proiettata nel giardino della Casa di Kyoto, l’artista in questo caso opera non per collisione di materie e di sensi, ma per raddoppio. Nagasawa “vede” un giardino altro entro quello storico, una sorta di cellula di senso che si dica nelle forme rastremate e brevi d’un autentico microcosmo. Entro il perimetro di Cureglia, l’artista traccia un altro perimetro – un perimetro mosso e variegato, quasi un viaggio – e lo edifica con lastre metalliche che cingono l’area come una shape astratta e insieme fisicissima, cinta che pare voler occludere l’intimità dello spazio al pascolo dello sguardo. E’, questo recinto, separazione vera, la cui enfasi pare rinchiudersi sullo spazio interno piccolo sino a racchiuderlo in una sorta di bozzolo mentale, facendone non il dentro di un fuori, ma il dentro, in sé.
Qui Nagasawa opera per interventi minimi, la cui levità – levità primariamente poetica – è amplificata proprio dall’opacità potente dell’intorno. L’erba è pelle, materia d’un operare che passa per avvertimenti intimissimi delle sostanze: pelle, e carta da disegno: superficie sensibile in sé, e sensibile al tracciarsi dei segni dell’uomo. Facile sarebbe citare, con l’approssimazione rozza tipica del modo nostro occidentale, la memoria del giardino zen e il rapporto con il vegetale che il Giappone ci ha indicato. Facile, ma in parte inappropriato, perché Nagasawa eredita da quella cultura, ma la vive senza complessi ortopedici: maestro, semmai, d’un pensiero ferocemente preciso, che è l’unica cosa che conti.
Eccolo qui, infine, il giardino di Cureglia. Che non ospita opere d’arte, ma che si fa, con loro, opera. Capace di articolarsi in mozioni forti di identità, mantenendo la propria. Non giardino delle Muse, forse: chissà. Certo, giardino di pensieri.