Tra la mistica e il vuoto, in Oro. Maestri gotici e Lucio Fontana, Compagnia di Belle Arti, Milano, 27 novembre 1998 – 17 gennaio 1999, Sperone Westwater, New York, gennaio – febbraio 1999

“E l’oro, era veramente qualcosa! Quelle foglie che letteralmente volavano alla minima corrente d’aria, su di un piatto cuscinetto che si teneva in una mano, mentre l’altra le afferrava a volo col coltello. E poi, il colpo di pettine che si passa tra i capelli. La foglia che viene posata delicatamente sulla superficie da dorare, spianata precedentemente con un piatto, e bagnata ogni volta con l’acqua gelatinosa. Quale materia! Quale miglior scuola del rispetto della materia pittorica…”. Così Yves Klein, ricordando uno dei punti più alti, concettualmente e poeticamente distillati, del proprio agire intorno all’immaterializzazione.

Il sogno, il désir, era attivare infine la progressiva perdita di densità della terra, della fisica, verso altro spazio e tempo altro. Che passava, anche, attraverso il “non fare il quadro”, il sottrarsi alla necessità mortale della forma e della tecnica ereditate dalla disciplina.

Maestro era Fontana, maestro d’arte non di quadri. (E l’Oriente: Lee Ufan medita nello studio di Kamakura in presenza di un taglio di Fontana e di un monocromo di Klein). Fontana non si atteggiava ad alchimista, men che meno a sapiente: non leggeva Jung, si disinteressava a Péladan, e nel 1961 certo gli era sfuggita l’uscita dell’edizione italiana de L’alchimia di Buckhardt.

Fontana, Concetto spaziale. Venezia d'oro, 1961

Fontana, Concetto spaziale. Venezia d'oro, 1961

L’oro dei suoi inizi non parlava di ascensione dello spirito; era quello di Wildt, l’oro con cui tegumentava i primi gessi, dagli aromi di Secessione, superdecorativo e di slontanante sensiblerie. Oro che valeva luce, e spazio, come nell’antico: amare davvero la tradizione è meglio che rispettarla, voleva anche Strawinskij.

Ma già non era lo stesso oro del Burri prampoliniano di Sacco e oro (1954, per i cronisti), che cadenza il bianco materiato e costruttivo dei quadri contigui, e neppure quello sognato dal Turcato di Astronomica, 1959, e delle Superfici lunari, di fondamento comunque suggestivo.

Neppure, anche se le vie della ceramica conducevano su sentieri vicini, era quello dei bagliori metallici clangorosi dei Trofei di Leoncillo, 1940: d’altronde, il sodale Melotti ceramista non ama l’oro, e la sfera dorata affiorante dalla terra del Senza titolo n. 5 di Scanavino, 1968, è sviluppo e citazione intellettualizzata, per il tramite delle terrecotte dei Germogli, delle Nature del maestro riconosciuto.

Fontana eredita l’oro della tradizione altoartigianale tipico della Brera di Boito e di Pogliaghi, ma già lo sa altro. Lo sa, soprattutto, luce. Ce lo dice la sequenza che dall’Ambiente spaziale del 1948 porta al soffitto di neon del 1951 attraverso la serie di gouaches nelle quali è l’oro, un oro fatto velo di sensualità dubitante, a intestare l’epifania stessa del colore. (Del resto, anche in Klein oro e fuoco e vuoto infine si equivalgono).

E’ per tale ragione, per tale strepitosa ambiguità, al cui bilico perfetto Fontana continuamente ritorna, che eredità diverse, anche radicalmente diverse, la sua opera fa scaturire. La fitta esperienza monocroma, alla quale Fontana partecipa in veste di patrono intellettuale, si dipana nel corso dei Sessanta elaborando di fatto un’equivalenza tra blankness e astrazione non metafisica dell’oro.

Penso agli esiti ultimi del lavoro di Tomas Rajlich, vasti spazi/luce – altrimenti non possono definirsi – dagli espliciti lucori dorati, ma soprattutto agli storici saggi di Superfici trasparenti di Castellani, 1973, la cui monocromia tiene più degli aliti poetici di Klein che della durezza materiale di Manzoni. Sono lavori ben più intensi, è certo, delle campiture sciocche di certe geometrie pop dei giovani statunitensi che non sanno smuoversi da questioni di visibilità: eredi semmai ne sono, per tensione affettiva anziché per modi, le estenuazioni decorative verso il simbolico di un Luciano Bartolini – soprattutto in opere come A la limite, Shiva dancing in Berlin, 1983 – e i sentori distillati d’esotico del Davide Benati di Confini orientali e Contea del Nord, 1981. 

Ma penso anche all’oro degli olii rari di Eva Hesse, artista “fuori strada” tra pittura e anti-form, riaffiorante in opere mature come C. Clamp Blues, 1965; e a quello di un altro extraterritoriale per eccellenza, il Vasco Bendini sensuoso e visionario di Gesto e materia, 1973, rinnovato nel Ciclo delle parvenze.

Eppure, “l’oro è un ottimo maquillage per ogni forma”: così Fabro, 1971, a proposito di Italia d’oro: e anche Fabro dichiara patenti ascendenze fontanesche. Assai più introverso e riverberante è l’intendimento del Kounellis di Tragedia civile, 1975, con quella grande parete aurea a far fondale assorbente, di straniata inquietudine, al silenzio non metafisico delle cose. L’oro materia, l’oro quantità, forse non può che essere maquillage: l’oro luce, assai di più, soprattutto per chi, non più intuitivamente come Fontana, ma propriamente come Klein, abbia fatto voti alle sorgenti d’Oriente.

Lee Byars, The Death of James Lee Byars, 1982-1994

Lee Byars, The Death of James Lee Byars, 1982-1994

Nel 1967 James Lee Byars presenta The Gold Tream Parade, un filo d’oro dello spessore di un capello che si dipana per 1876 piedi: ha inizio così il suo singolarissimo viaggio nell’oro come dichiarazione del vuoto attraverso l’eccesso e la sottrazione estetica, come trascendenza della corporeità a un sacro possibile (e qualcuno ricorda, per certe affinità, The Golden Windows, Bob Wilson, 1982).

Nel 1971 Hidetoshi Nagasawa realizza Oro di Ofir: “Volevo fare un gesto da cui nascesse una scultura. Dovevo partire da un gesto, dal senso del toccare, dal contatto con la materia, per creare qualcosa… come il gesto di un dio. Ma volevo che fosse più chiaro e più semplice possibile, allora ho pensato di creare una cosa dal vuoto, ho toccato l’oro con le mie mani ed è nato Oro di Ofir”. “Tremila talenti d’oro, d’oro di Ofir, e settemila talenti d’argento raffinato per rivestire le pareti interne” (Cronache, I, 29, 4): così Davide della Casa del Signore.

Come la luce. La luce che torna, infine, alitante religiosità, nel Dan Flavin di Santa Maria in Chiesa Rossa; come la luce della cappella di Tadao Ando, tra la mistica e il vuoto.