Il teatro crudele e banale di Alik, in “Studio Marconi / Quaderni / 3”, 21 febbraio 1980

Quando Arturo Martini morì, nel 1947, lasciò alla ricerca plastica italiana la pesante e­redità delle sue riflessioni, amare e ad un tempo destabi­lizzanti, sulla “scultura lingua morta”. Era la chiusura di un ciclo epocale, contraddistinto dalla certezza rassicurante del­l’opera come sistema chiuso, centrico, oltre i cui confini ben delineati sembrava eretico az­zardarsi.

Ebbene, in seno alla gene­razione venuta a maturazione nell’immediato dopoguerra le risposte più concrete, attive, spesso aggressive all’ango­sciosa “damnatio” pronunciata da Martini vennero proprio nel senso dell’eccezione disciplinare, dello spostamento del nu­cleo problematico della scul­tura verso altri poli, verso altre barriere con cui misurarsi. Del resto, erano anche gli anni in cui la scultura italiana fagoci­tava tumultuosamente e tutto d’un colpo, dopo decenni di forzato digiuno, un patrimonio quasi sterminato di ricerche in­ternazionali, che ribaltava on­date di questioni e di impulsi eterogenei su un dibattito ac­ceso sì, ma tutto sommato an­cora balbuziente.

E’ in questa temperie estrema­mente precaria e aperta che si fa strada, definendo via via sempre più marcatamente una sua fisionomia divagante ed eccentrica, la personalità di Alik Cavaliere, ‘navigatore so­litario’ in un mare che non ha cessato di essere procelloso. In effetti il lavoro di Alik è te­tragono ad ogni tentativo de­finitorio e classificatorio, so­prattutto se si adottano, come è ancora inevitabile fare, le unità di misura dell’avanguardia ciclica. Perché fin dagli inizi egli si è creato una ‘maniera’ ambigua, beffarda, unica, e ad essa è rimasto ostinatamente fedele nella sostanza anche là dove, nella sua inesauribile e sempre dubitante fame di ag­giornamento e dì approfondi­mento problematico, sembra a­ver radicalmente mutato di pel­le alle proprie immagini.

Cavaliere, La scatola di Pandora, 1964

Cavaliere, La scatola di Pandora, 1964

E’ stato scritto – ed è in par­te vero – che quel suo gioco di metamorfosi, di pietrificazio­ni del fenomenico, dell’immagine fisica, sempre svolto sul limine sottile tra arte e vita, tra realtà e finzione, è impa­rentato – sia pure in chiave critica – alle poetiche ogget­tuali d’oltreoceano (Russoli fe­ce i nomi di Segal, Dine e Ol­denburg).

Certo in Alik è sempre stato presente, e in date che dovrebbero indurre a più approfondi­te riflessioni, quello stesso lu­dico “stare a dispetto” nel mondo, quel gusto paradossa­le per un esercizio tragicamen­te spettacolare la cui scena è il mondo medesimo, che ha caratterizzato tanta parte dell’arte americana.

Ma è altrettanto innegabile che i suoi umori mediterranei sono ben più profondi, ben più ra­dicati in un orizzonte concet­tuale e culturale che assomma in sé valenze ricchissime, dall’espressionismo al surreali­smo, dal dada alla (perché no?) metafisica.

Ciò è ben evidente fin dai la­vori degli anni Cinquanta e da quelle Avventure di Gustavo B. che, nel volgere dei primi anni Sessanta, rappresentano un capitolo importantissimo della sua ricerca. Queste pic­cole e gustose messe in sce­na di una specie di “teatro della crudeltà” alla Artaud (ma anche di un teatro della bana­lità, in un certo senso) sono animate da una plastica scon­quassata, quasi sottoposta a un bombardamento di radiazio­ni emotive che ne eccita l’organismo, ne fa trasudare den­se secrezioni psichiche. Sono figure impure, aggressive, provvisorie, aspre, ironicamente per­verse. Ma sono ancora, nono­stante tutto, “figure” (e si pen­si, per riferimento, alle coeve esperienze nel panorama della pittura); soprattutto, sono figu­re cristallizzate in uno spazio scenico teso, spettrale, allucinato, svariante dal dràma an­tico all’assurdo metafisico.

La ricerca di Alik si configura come narrazione nello spazio: in queste opere esso è ancora onirico, forse, ma non tarderà a farsi via via sempre più sto­rico, quotidiano, caricandosi di sotterranei umori designatori di marca vagamente concet­tuale.

Tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi degli anni Settanta nascono le complesse e in­quietanti installazioni dominate dall’illusione spaziale, come in una “machina scaenica” di sapore barocco, nelle quali A­lik fa un uso sapiente ed emblematico degli specchi, un e­lemento che – come altri ar­tifici teatrali – appare con frequenza nella sua opera, e in cui lo spettatore viene coinvol­to in un fuorviante percor­so vero-falso, storico-precario, grazie a una gelida e beffarda formalizzazione del tema. Sono soggetti come Susi e l’albero, Apollo e Dafne, oppure A e Z aspettano l’a­more, o ancora I processi: scelti, direbbe Gadda, “per diletto di luoghi comuni” e violentati, resi capaci di pro­durre altri accadimenti, altre storie, grazie al plusvalore nar­rativo attivato dalla frequenta­zione dello spettatore. Quasi a confermare (mi si perdoni l’in­sistenza citatoria) l’affermazio­ne gaddiana: “Le frasi nostre, le nostre parole, sono dei mo­menti-pause (dei pianerottoli di sosta) d’una fluenza…”.

Alik, apologeta pirotecnico del falso, non si ferma qui. Il pas­so successivo, naturalmente, è ancora fatto di storie: ma so­no storie in cui il quotidiano è proposto come quotidiano, il banale come banale, lo spazio ambientale come spazio am­bientale da vivere. Senza me­diazione di filtri letterari, senza apparenti implicazioni formali, come in Surroundings e in 17 giugno 1976 via Bocconi, Milano.

Oppure sono quelle storie ve­getali – forse l’aspetto più famoso e riconosciuto del suo lavoro – in cui l’utopia dell’assoluto naturale è svolta at­traverso l’esasperazione dell’effetto mistificatorio, attraver­so l’aberrazione del/nel mate­riale, portando alle estreme conseguenze uno dei temi pre­dominanti della sua ricerca. Oggi, anziché restringere –come ci sarebbe da aspettarsi – l’orizzonte dei propri interessi, Alik ha scelto la via del­la dilatazione a trecentosessanta gradi delle sue divagazioni preoccupate e divertite. Ne so­no nate cose geniali, come l’o­perazione Attraversare il tem­po, realizzata con Vincenzo Ferrari; altre ne bollono in pen­tola, sempre paradossali, sem­pre spiazzanti.

“Sum enim unus ex curiosis”, si legge nell’Historia Augusta. Alik è un curioso, uno dei po­chi autentici e onesti curiosi rimasti: per questo nel suo ci­lindro ci sono ancora molte sorprese.