Pascali
Pino Pascali. “Un’immagine, appena appena…”, catalogo, Studio Durante, Roma, 1990
E’, in principio, la metafisica. Atteggiamento del pensiero che vede, aroma filosofico che investe il fare al mondo, ironia fluente che tenta i limiti del saputo e trascorre, franante meravigliata, in quell’antologia del possibile che, se non è mito, è costruzione sulla proiezione disperante del mito. Pascali nasce all’arte ragionando di neodadaismo e stereotipi visivi, di straniamento spaziale e sperimentalismo, d’oggettualità e carezze al banale.Si ritrova, in un volgere contratto d’anni, a raccontarsi forme, presenze sovranamente distoniche al mondo, fabulae elementari e intense, in spazi di tensione straniata, in tecniche di semplicità sconcertante.
Il simulacro dell’esperienza, l’agitarsi delle apparenze, gli importano come repertorio svalutato a priori, incapace d’essere altro che pretesto, per chi sia in cerca di senso.
Ciò che conta, è la capacità che Pascali matura di ripensare, e riformulare, per via di captazione profonda – quasi una rabdomanzia divagante – e di proiezione fantastica, questo teatro di figure: intelletto fino a stillarne i più sottili umori d’idea, e insieme avvertito in totalità sensoriale, come pienezza reale in grado di ergersi, non meno precisa (né vera, né falsa), in alterità continua.

Pascali, Pelle conciata, 1968
“Invece se è appena accennata un’immagine, appena appena…”. Assediato dal nominalismo, dal sistematismo del tempo, Pascali s’assetta non un processo, ma una catena intuitiva, in cui ogni grado è insieme avvertimento pieno e spostamento pensiero laterale, dicono gli inglesi, istinto che riformula le cose da punti di vista sempre diversi.
Non mira ad accertamenti di verità, invece stratifica consistenze, di sostanza eterogenea ma non incongruenti, che si coagulano in forma formata, nucleo di senso compatto e radiante.
Non mira, neppure, alla facilità épatante della falsificazione, all’esibizione avanguardistica d’una negazione, d’una sottrazione. L’esito del suo lavoro è lì, “più semplice d’un pensiero” come in Novelli,
evento certo reale, a suo modo naturale, esistente a titolo qualitativamente non diverso dall’ordinario e, forse, capace in più di poesia; di candore affettuoso.
Non è necessariamente eretico. Egli guarda ai materiali, ai mezzi, come espansione d’un fondamento linguistico, e drenaggio antiretorico di tòpoi formali e spaziali, per normale fisiologia. E’, certo, erotico. Non ricorre a meretrici sensibilistici, a sollecitazioni epidermiche dell’estetico, anzi. Recupera, invece, una sensorialità totale, tesa sul filo del pensiero, che fa della sua simpatia alle cose un momento di pienezza emotiva e inventiva: imperfetta, e impura, ma in tentazione di purezza; meglio, di far tersa dimora a ciò che stabilisce, e radica all’esistenza, il senso.
E’ questo il propellente alla metamorfosi, alla trasfigurazione/riconfigurazione che presiede al viaggio di Pascali negli eventi.
Colosseo, Pietra pietra, 1964. Il passaggio è lì. Come un rattrarsi, prosciugato, dell’iconografia entro la ridondanza banale dello stereotipo; e un crescere, insieme, di corsi plurimi di pensiero e lettura. E’ esperienza ormai indiretta del reale ed è il reale di Klein… – attraverso il confronto e la collisione con il codice saputo, con la meccanica ovvia delle designazioni, attraverso un nominare che è trovare i segni disinnescandone la norma, ricapitolandoli in toto in una facoltà nuova del dire.
Il bianco, certo, è nell’aria, quasi un debito climatico a modelli trascorrenti da Manzoni a Scialoja a Twombly. Pascali non ne legge, oltre ogni rischio di ulteriore accademizzazione, che il valore di facoltà di fisicizzazione altra, di luogo di azione concreta e insieme di astratta, intimamente mentalizzata contiguità al teorico.
E’ il luogo per eccellenza del “trasformare”, della sistematica del cambiamento che agisce sul totale d’esperienza delle cose – nome forma materiale situazione relazione… – consentendo di “vedere se stesso da di fuori (nell’atto) di modificarsi, raddoppiarsi, triplicarsi, impicciolirsi, distruggersi, riproporsi, modificarsi, identificarsi” senza scontare i rigori obbligatori di logica e scienza: che schiuda e non concluda, che offra e non definisca, che ponga e non fissi: che, facendo, permanga nell’interrogativo di sé e dell’altro, liberamente fluttuando nell’ambiguità, crescendo nel circuito fertile delle distonie.
Non è bianco di pelle, anestetico, né figurazione limbale di separatezza preventiva. E’, piuttosto, condizione propria d’una coscienza che, tendendo involutivamente, inattualmente al germe primo dell’avvertimento di spazio, e tempo, e forma – à rebours di cultura e civilizzazione operato fantasticando anziché analizzando – si configuri un margine effettivo ma non compromesso, irrelato, in cui il fare sia di necessità atto iniziale, su valori originari, primum demiurgico in cui non è ancora luogo di differenziazione tra artificio e natura, tra luogo pensabile e paesaggio, tra forma pura e contingenza apparente.
Dunque, non gestes blancs sono le giraffe, i delfini, i pellicani, i rinoceronti, i serpenti, i dinosauri, che segnano lo straordinario 1966. Eventi reali, in luoghi reali, invece. Per i quali non tien conto ragionare d’allusività o simbolo, né, a ben vedere, di metamorfosi in senso letterario.
L’evidenza, “vistosa concretezza” (Calvesi), non è di messa in scena: se un palcoscenico ha luogo, è quello dechirichiano, non metrico, imbevuto d’una luce che fa essere e fissa assente, per distanze, per silenzi meravigliati. E’, piuttosto, evidenza di forma, compiuta, in una plenitudine di solido geometrico, capace d’assumere la fantasticheria, la demiurgia da dio saraceno di Pascali, in corporeità senza sangue senza carne, catafratta nel suo essere lì, figura dello spazio, apparenza rimontata a puro pensiero. “Casto biancore che invade silenzioso lo spazio” (D’Amico), allo spazio dà qualità di comportamento, d’avvertimento in grumo genetico d’una storia racchiusa in compostezza tersa.
Più che l’ingombro dell’iconografia, della relazione contaminante all’attività sensoriale, è in scacco la misura stessa dell’orizzonte. Le forme, “finte sculture” sono non solo perché vuoti abbigliati, esenti da materia, ma perché redente dal pondus, dal radicamento al suolo d’un formarsi che suppone una crescita, che implica solidarietà al grembo terribile e impuro della terra.
La forma stessa, shape, è qui elementum, al pari dell’acqua “plastica del liquido” del Mare, del vento di Biancavvela, della terra smaterializzata dei Metri cubi… avvertimento e comportamento, ancora, d’un intimo e incontaminato flusso di coscienza che si trova, che non diviene, che chiede facendo.
Così si intende l’artificiosità evidente di Pascali, l’astrazione radicale, oltre che dalle proprietà spaziali, da ogni vocazione delle materie a formarsi, a sostanziarsi in una naturalità accettata che egli risentirebbe, in ogni caso, spuria, eteronoma all’arte.
La “falsche sprache”, l’alterità fondante del suo fare è, concettualmente, precedente: è il nucleo d’identificazione dell’idea stessa purificata di natura, natura elementare, prelogico regno minerale vegetale animale i cui segni erano (forse: è la scommessa paradossale disperata), in tutto, senso.
Ecco perchè Pelli, Bachi da setola, così come Ponte Liane Trappola Cavalletto… agiscono sulla vischiosa improprietà fisica, sulla presupposta volgare innaturalità dei materiali adottati.
L’intuito sapienziale, il pensiero figurante dell’artista può rimontare a immagini sorgive, a un reale possibile incorrotto, proprio perché non ammette compromessi con l’ordinario di natura, renitente alla favola, ciecamente evolutivo.
A quella potenza, a quel mistero ultimativo, Pascali si sottrae, offrendo la propria astuzia di piccolo mago, di laico “facitore di trofei”: immagini, queste, in sé non meno potenti e autosufficienti, capaci d’un pensiero e d’un’apparenza, minimi magari, ma in grado a loro volta di farsi mondo.