Carlo Zauli. Terra che rivive, catalogo,  Magazzini del Sale, Cervia, 3 luglio – 4 settembre 2011

“Proprio in questo periodo sento la necessità di approfondire le mie ricerche nel puro materiale argilloso. Lasciarlo scoperto e nudo, senza smalto e colori, ma il colore deve essere ‘portante’ in se stesso, fare parte integrante naturale e non naturale dell’impasto argilloso.

Zauli, Vaso sconvolto, 1976-1977

Zauli, Vaso sconvolto, 1976-1977

Sto facendo tante tante prove. Io, che produco con successo quel magnifico smalto bianco – grigio, che vira ai rosa e ai neri e che è stato definito il bianco di Zauli, mi sto introducendo in questo studio di impasti colorati.

Ma non intendo tradire  il mio morbido bianco. Anzi, forse, ci sarà l’opportunità di accostarlo alle terre colorate e trovarne dei significativi valori materici e cromatici”.

Così annota Carlo Zauli il 15 marzo 1980, a dire d’uno dei numerosi snodi problematici che il suo lavoro affronta nei decenni, mai acquetandosi entro il perimetro di sicurezza di formule collaudate.

Chiara appare soprattutto l’identità che l’artista concepisce di se stesso. Creatore senza remora di spingersi nel territorio dello sperimentale, interlocutore primario del dibattito sulla vocazione formativa delle materie che la stagione informale ha innescato e nutrito, feroce nello scavare un’autentica, non retorica raison d’être dell’opera su un piano che non vuole e non può essere quello del mero compiacimento estetico.

Allo stesso tempo, artifex nato e cresciuto nel solco della grande tradizione ceramica faentina, vissuta nelle misure della sapienza atavica – venata talora d’esoterismi – del faber e d’un orgoglio disciplinare che non sia idée reçue ma esperienza verificata ogni giorno nella pienezza del fare.

In altri termini, in un tempo in cui all’accoglimento a pieno titolo della pratica ceramica nel novero dei possibili espressivi alti, forte di esempi come quelli che hanno portato da Martini e Marino a Leoncillo e Fontana, va corrispondendo una sorta di demarcazione nominalistica e quasi sempre speciosa tra chi sia “solo” ceramista (dunque escludibile dal gran ballo dell’arte) e chi scultore in ceramica – ch’è, a un dipresso, ciò che oggi il sistema artistico va goffamente tentando in ambiti come la fotografia, il video, le pratiche digitali; in un tempo cioè in cui la consapevolezza culturale e teorica si manifesta arretrata e inadeguata, soprattutto in Italia, a leggere con i corretti strumenti l’arte che si va facendo, Zauli vive e attua una posizione autonoma e forte, certa di se stessa e poco propensa a farsi involvere nelle maglie dello sciocchezzaio critico e istituzionale vigente.

Zauli, Ruota strappata, 1967-1968

Zauli, Ruota strappata, 1967-1968

L’arte ceramica è, appunto, un’ars. Certo, è evidente che occorre dedicarsi, sono ancora parole sue, “esclusiva­mente ad opere ceramiche che vogliono essere esempi di ri­cerca della forma verso lo spirito della materia che la esalta e verso la chiarezza e la fermezza dell’idea”. Ed è altrettanto evidente, ovvio, nonostante quanto talune delle neoavaguardie – e solo talune – vanno affermando, che la “virtuosité”, assumendo l’arguto termine impiegato da Jean Fautrier nella celebre lettera del 1944 a Jean Paulhan, è premessa e condizione essenziale: pericolosa, avvertiva il pittore, per i mediocri, ma fondamentale per gli artisti che sanno cosa devono fare e che le attribuiscono il giusto peso in seno all’economia espressiva.

Tutto qui. Dunque Zauli si sa e si vuole scultore proprio perché ceramista, non disposto a nulla cedere della propria sapienza disciplinare in cambio di accettazioni condizionate in seno al sistema artistico. Questa la sua forza. Questo il suo orgoglio. Non a caso è Giulio Carlo Argan a ribadire con autorevolezza serena che “dell’opera di Zauli non ha proprio senso chiedersi se sia scultura o arte fittile, come se il significato delle forme dipendesse dalle materie e dai procedimenti con cui si realizzano”.

Il flusso d’opere che ne contraddistingue il percorso è, da questo punto di vista, esemplare.

Gli anni formativi di Zauli si collocano nel decennio Cinquanta, quello in cui le diatribe entusiastiche e tormentate tra figurare e astrarre sono innervate, per chi come Zauli sia figlio della tradizione grande faentina e ne sappia leggere lo spettro tutto delle implicazioni e delle sfumature, da mozioni come la “sintesi delle arti” corbusieriana, la continuità congenere tra la cultura altoartigianale e la ricerca pura, lo scambio paritario d’esperienze tra artista e artefice, il maturare del design.

Valga qualche sintetica indicazione: il congresso bergamasco CIAM VII è del 1949, nel 1951 Argan pubblica il saggio fondamentale Walter Gropius e la Bauhaus e si tiene la IX edizione della Triennale milanese, il cui programma s’annuncia nel voler portare “gli artisti alla prova di problemi concreti, promuovendo nuovi rapporti di collaborazione fra le varie arti: architettura, pittura e scultura, per l’elevazione di un livello di vita tanto spirituale che pratico”. È il tempo in cui Gio Ponti scrive: “Io credo profondamente negli artisti d’oggi, nei miei fratelli artisti d’oggi”, nel tentativo di recuperare il patrimonio inderogabile d’esperienza che le pratiche altoartigianali hanno conferito alla ricerca artistica; il valore della piccola serie nel modello della nascente impresa italiana, quasi una contaminazione tra atelier di pensiero e struttura produttiva; il fondamento dell’inventare come lievito del progettare, in una sorta di continua fagocitazione di stimoli che il dettato duro delle discipline vorrebbe eteronomi.

Zauli, Zolla, 1983

Zauli, Zolla, 1983

A partire da tale adesione climatica Zauli matura presto una consapevolezza individuale forte e lucida. Riflette sulle conduzioni produttive della pratica d’arte e sulla fisionomia nuova che l’artista può assumere, facendo del proprio raggiunto magistero nella pratica ceramica non un punto d’arrivo ma, s’è detto, la premessa e la condizione necessaria a un fare arte che si sappia identitariamente antico, e modernissimo.

Le prime stagioni di maturità creativa dicono di uno Zauli frequentatore assiduo della geometria, con propensioni forti all’integrazione architettonica dell’opera. Da un lato, i grandi rilievi di quel tempo, ponendosi in confronto complice e non accessorio con lo spazio del costruire e del vivere, sottraggono a questo formare ogni sospetto di compitazione metodologica, di separatezza algida dal mondo delle forme viventi d’esperienza estetica. Zauli s’avvede da subito dei rischi di sperimentalismo in vitro che l’arte che si proclama pura nutre in se stessa: il rischio del predominare della mozione intellettuale, del farsi protagonista nel progetto rispetto al fare, gli è ben evidente, ed egli sa invece che l’arte, la sua arte, non può che riconoscersi e determinarsi nel fare, nel passo dopo passo del confronto diretto con la materia e con la formazione, dunque con lo spazio storico del vivere.

D’altro canto, per lui lo schema geometrico vale come griglia intellettuale d’ordinamento che in ogni momento del processo si misuri criticamente, a costo del conflitto, con le pulsioni impure e fastose della terra, del suo premere secondo un crescere oscuramente naturale che trovi infine una ragione qualificativa nella forma.

La terra è materia atavica, sapienziale, potente, e l’artista non può, se è davvero artista, imporle l’arroganza di processi formativi eteronomi. Il fare arte, il farsi dell’arte, è accettare lo scambio d’esperienza, eroticamente complice, tra intenzione di forma e volontà autonoma di formazione della materia.

È in questo momento che Zauli assetta le condizioni fondative della propria idea d’arte. Desiderare la forma, e fare della geometria la questione, non la soluzione del suo stream generatore, il reagente che faccia lievitare le ragioni imperscrutabili della materia verso la clarté d’un ordine esteticamente necessario.

A un tratto del proprio percorso, l’artista si avvede che la terra vuole altro, che in ogni caso la filigrana geometrica può farsi retorica di se stessa: può farsi impropriamente, soprattutto, stile. E affronta una sorta di radicale remise en question dei propri raggiungimenti, lavorando, sono ancora parole sue, a saggiare la possibilità di “strutture strappate, violentate”, ovvero opere in cui la ragione stessa di forma sia lo snodo problematico del processo.

Zauli, Stele, 1976

Zauli, Stele, 1976

Lo schema plastico del solido viene assunto nella sua catafratta purezza, ma per sottoporlo alla pressione della forza autogeneratrice della terra, d’una materia che non sopporta imposizioni, che ha un dentro brulicante nell’infinito delle forme possibili e un fuori che si fa pelle alla luce: e colore in quanto colore di materia.

Non si tratta beninteso, per Zauli, si sostituire alla retorica della shape geometrica la retorica autre della degenerazione delle forma, a un’intenzione un’altra intenzione. Ciò che gli importa, ora che gli echi dell’informale e del naturalismo di partecipazione vanno trascolorando, è concentrare il momento fondante del processo di formazione nell’auscultazione reciproca tra le pulsioni espressive dell’artista e quelle della crescenza formale che la terra, materia di cui si accoglie l’avventura della totale autodeterminazione, manifesta a chi sappia: sappia guardare, sappia soprattutto toccare.

Una fotografia bellissima di Antonio Masotti mostra Zauli, nel 1975, seduto su una distesa di zolle e meditabondo, che rivolge uno sguardo amorevole alla terra. Qui è, al di là d’ogni arzigogolo intellettuale, il punto. L’artista e la sua materia, la sua terra nello spettro tutto delle significazioni dell’espressione, sono una sola cosa, non convenzionalmente uniti da un’identità indissolubile. L’arte è la manifestazione distillata di tale identità.

Zauli può accettare di affrontare questa nuova condizione di cecità progettuale, di fabrilità che scopre se stessa nella pienezza del fare, proprio perché salde, saldissime sono le premesse tecniche della disciplina. Se, in altri termini, egli può maturare la scelta di affidarsi alla plenitudine esperienziale del processo, è perché mai rischia di farsene prigioniero, o succube.

E scopre, molto scopre in questi anni: che sono quelli degli Sconvolti, delle Flessuosità, delle Zolle, titolazioni tutte emblematiche. In cui sembra dispiegarsi lo spettro degli ulteriori possibili plastici, quelli che egli andrà esplorando nel corso degli anni a venire.

Per scommesse espressive e decantazioni, per intuizioni e riflessioni, Zauli giunge a comprendere che la materia chiede forme, perché esse sono figlie dei suoi intimi comportamenti. Porsi al passo con tali comportamenti, in consonanza, forzando l’interna tensione genetica sino a che emerga e si faccia forma formata, è ritrovare nell’arte un fare perfettamente naturale. Naturale perché aggira l’antica e ormai esausta questione della referenza, e si fa epifania della naturalità della materia per via di forme equivalenti: forme che sono dell’arte, certo, ma perché intimamente alla natura appartengono.

Fare è dunque accettare le ragioni della terra, sottoponendole al vaglio lucido e inflessibile dell’azione che verifica, seleziona, delucida, eliminando ogni accessorio d’accidentalità in favore di una sorta di potente, diretta evidenza.

Il sapere la terra e il sapere della terra possono, ora, agire all’unisono. Non è più, ormai, per Zauli, neppure questione di discorso d’arte, men che meno di dimensione estetica, di gusto. Se una bellezza è alle viste, è l’intima bellezza della terra formata, che offre le proprie superfici fluenti, le proprie cellule generative, a una luce che ne legge la qualità necessaria, irrelata, per certi versi indicibile.

Dei comportamenti della materia Zauli saggia, ora, gli statuti fondamentali, lo stare sull’orizzonte e l’ergersi verticale, nella primarietà della stele, della colonna, in un rapporto dell’uomo con la terra che le fa totemiche. Il tramarsi fluente delle ondulazioni, che si fanno pieghe umbratili ed evidenze lucenti e sensuose, come di corpo, come di carne amata. Gli equilibri e gli squilibri, le geometrie ora non sapute, ma continuamente perse e trovate.

La stagione ultima di Zauli si fa fastosamente frenetica: affronta anche in modo struggente la questione della pelle della scultura, quel suo essere ora limite periclitante della forma alla luce e ora tegumento, protezione lucente dell’intimità.

Mosso da premesse per cui mai più sarebbe stato possibile, all’arte moderna, concepire una statua, Zauli si  avvede che ciò che va nascendo tra una Genesi e una Sensualità sconvolta sono, ancora, forse, sorgivamente statue. Ovvero individui che valgano il doppio atavico del corpo umano, non la sua rappresentazione.

Quasi a ridire l’antica sapienza: “Dirà l’argilla a chi la forma: ‘Che fai?’” (Isaia 45, 9).