Terra & Terra, Museo della Ceramica, Palazzo Perabò, Laveno, 27 settembre – 26 ottobre 1980

Nel dibattito artistico contemporaneo, alcuni segnali ricorrenti indicano la permanenza tenace di quella che molto op­portunamente è stata definita “cultura della materia”, un at­teggiamento dalla fisionomia non univoca, non definita in modo statico, ma che è sempre stato ed è oggi più che mai in grado di proporsi autorevolmente come una componente deci­samente propositiva della ricerca.

Alla sua base, essa presenta alcuni connotati ormai ben radicati. Anzitutto, la concezione della materia come confine ance­strale del lavoro dell’uomo, in cui il rapporto tra il soggetto e l’oggetto dell’operare si fa di complementarietà attiva anziché di opposizione passiva. In secondo luogo e come logica conseguenza una nozione di manualità che la propone in tutta la sua ricchezza come il veicolo privilegiato dell’atto creativo, che nella sua sfumata complessità impedisce ogni forma di esasperazione ideologica e progettuale sia dell’impulso intellettuale sia della scelta del medium. In terzo luogo, la consapevolezza che lo spessore e la dura­ta dell’immagine, in un certo senso la sua “presenza”, non possono nascere che dall’interno del materiale, dall’eccitazione – anziché dalla compressione – della sua natura storica e del­le sue intime possibilità di produrre senso, secondo una pratica che va ben oltre i limiti della padronanza tecnica del mezzo.

Ora, quel che è certo è che la terra (cioè l’argilla, il cotto, la ceramica, eccetera) ha sempre rappresentato la “materia” per eccellenza sia dal punto di vista concettuale sia da quello più strettamente tecnico-operativo. E’ logico quindi che essa sia sta­ta scelta come l’area deputata di ricerche dalle infinite possibi­lità e aperture, ricche di pieghe insospettate e di soluzioni spe­rimentali ogni volta nuove; che, soprattutto negli ultimi de­cenni, hanno sfondato la barriera angusta della cultura mate­riale come puro banale utilitario, fatto di oggetti senza storia e senza identità, per volgerla a esperienze d’arte.

Martini, San Giorgio e il drago, 1926

Martini, San Giorgio e il drago, 1926

Il proposito di questa mostra è di tracciare, attraverso una compionatura succinta ma – si spera – qualitativamente significativa, un profilo sintetico delle esperienze recenti in que­sto ambito nate da un progressivo distacco dall’oggettistica de­corativa (che pure ha avuto esponenti tutt’altro che trascurabi­li, molti dei quali hanno operato proprio a Laveno e dintorni) e sfociate in indirizzi autonomi e culturalmente compiuti. In tal senso, indubbiamente, due sono i precedenti storici che in Italia hanno contribuito, in tempi diversi ma con conti­nuità, a questo salto di qualità. Da un lato Arturo Martini, con il suo recupero dell’antica severità formale e manuale, e dall’al­tro Lucio Fontana, con le sue brucianti ed esuberanti inquie­tudini formali. Entrambi tecnicamente eccezionali, scultori nel senso più robusto del termine e nel contempo non immemori di certe raffinatezze aristocratiche e squisite tipiche della tradi­zione ceramica, essi hanno indicato le vie di una ricerca anco­rata in un solido patrimonio artigianale e allo stesso tempo in sintonia – quando non addirittura in anticipo – col dibattito culturale, rappresentando per tutti due poli di riferimento ine­liminabili.

In anni più recenti, la terra è stata il medium privilegiato della ricerca di due artisti esemplari, Nedda Guidi e Nanni Valentini (tra l’altro la filiazione di quest’ultimo da Fontana appare esplicita da più d’una traccia), che possono essere con­siderati senza ombra di dubbio tra i capostipiti dell’attuale “rinascenza” della ceramica d’arte. Guidi è legata soprattutto a un’idea di materia-colore (con tutta la sua intima carica di vissuto) e alla possibilità di costruire per moduli geometrici, di nitida astrazione, strutture ambientali fortemente coinvolgenti. In Valentini, invece, prevale il recupero di certi archetipi formali, di certi modelli legati ancestralmente alla terra, alla sua infinita fenomenologia e alle sue connotazioni storiche.

La generazione a ridosso di questa è ricca di presenze variamente caratterizzate, per le quali la terra rappresenta un veicolo quasi mai esclusivo, ma ampiamente adottato proprio per la sua specifica natura. Con Claudio Costa l’ipotesi di marca antropologica si fa esplicita, dichiarando il formidabile potenziale intrinseco all’atto primario di manipolazione e la sua possibilità di rigenerarsi sempre in nuove valenze; su questa via si pone anche Sirio Reali, per il quale gioca un ruolo fondamentale il recupero dell’imagerie sottesa alla primitiva cultura contadina.

Valentini, I segni della terra, 1978

Valentini, I segni della terra, 1978

Emanuele Astengo è invece sensibile alla robusta qualità “naturale” della terra, al suo essere territorio e paesaggio che ospita le impronte dell’uomo; il tutto è sorretto da una non comune abilità artigianale, da un forte orgoglio disciplinare. Più sottili e innervati di suggestioni squisitamente intellettuali sono infine i lavori di Federico Simonelli, Gianni Robusti e Aldo Spinelli. Il primo, mosso da un’ipotesi di eccitazione della natura storica del materiale, è giunto oggi a formulazioni di arcaica e scabra potenza; il secondo, legato a una tradizione di marca esoterica e concettuale, fa lievitare nelle sue opere un gioco di sottili alchimie mentali; nel terzo, infine, si fa strada l’ipotesi straniante di uso ludico, tutto cerebrale, del materiale.

Dunque, una gamma composita di esperienze di prim’ordine, proiettate verso un rinnovamento radicale del modo di concepire e praticare la ceramica, secondo un orientamento ben avvertibile su scala internazionale. Ed è fuor di dubbio che esse, sia per l’autorevolezza della loro radice storica sia per la loro vitalità individuale, fanno dell’Italia una delle punte di diamante di questa situazione progressiva.