Alighiero Boetti. Attirare l’attenzione, catalogo, Galleria L’Incontro, Chiari, 3 – 30 aprile 2004

La dimensione del gioco, dell’esercizio ferreo del logos sino al punto della collisione dolce e della deriva, l’atteggiamento deliberatamente anideologico e antisapienziale; l’idea, vagamente saviniana, di un’arte leggera nella forma perché altrimenti sostanziosa… molte sono le chiavi che nel tempo sono state indicate per un approccio al lavoro di Alighiero Boetti, coboldo impertinente e geniale nel tempo dell’arte come discorso sull’arte.

Chiavi, beninteso, tutte corrette, tutte parimenti legittime e consentite. Resta da chiedersi, con lo sguardo del poi, con la misura della tenuta storica, come mai esse lo fossero: esse, ed altre ancora, in una sorta di osmosi radiante tra pensiero che fa e pensiero che legge, dalle plurime vie, e suggestioni, e tracce concettuali.

Sin da subito, dagli anni Sessanta che lo vedono esordire in una posizione già ambigua e criticistica nel momento massimo del teoricismo, il suo è un continuo smontare e rimontare codici e modi, siano gli apparati istituzionali del culturale – la geografia, su tutte – siano quelli modali dell’arte, del fare abile e talentoso, del rigore metodologico.

Boetti fa, fa cose differenti all’apparenza e nella forma, ma appartenenti tutte a un unico philum di pensiero nella sostanza. E’ possibile, egli si chiede, ribaltare senza sosta le modalità del senso in un processo speculare che ne dimostri la relatività, la problematicità? E’ possibile fare un’arte solo di domande, abbigliate magari da affermazioni in filo di paradosso, nell’intendimento più radicalmente corretto, ma allo stesso tempo in variante antiesemplare, del duchampismo?

Boetti, Avere fame di vento, 1988-1989

Boetti, Avere fame di vento, 1988-1989

E’ possibile, certo. E’ la ragione stessa del lavoro. Il quale sempre esibisce la propria periclitante irregolarità e fragilità perché sa, del proprio nucleo fondamentale, l’acuminata durezza.

Il minimal, il concettuale, la stessa arte povera prevedono enunciati forti, razionali o fisici non importa. Boetti ne adotta le modalità e il lemmario per insinuarvi non i germi di quello che, di lì a poco, diverrà moda indicare come pensiero debole, ma per farvi lievitare i fantasmi dell’intelligenza leggera, mobile, non imprigionabile, non coercibile. Pensiero forte, fortissimo.

Perché il pensiero, se è davvero pensiero e non retorica, e la sua facoltà d’analisi fantasticante, non hanno bisogno di clave e d’armature. Perché non abbisognano di muscoli e di tatuaggi. Meglio librarsi, in perfetta demateriazione – anche quando hanno una marcata fisiologia, le opere di Boetti appaiono demateriate, vere e proprie figure – e senza remore a far da confine, in una forma di nomadismo definitivo dello spirito, a Torino a Kabul non importa (questa è un’altra storia, di come davvero si possa abitare la dimensione indistinta di arte/vita) perché il mondo è una mappa geografica, un foglio reticolato, un gioco di segni cifre lettere (papa Queneau, eccoci) a perdere e ritrovare senso, un metro cubo di cose qualsiasi che fanno un metro cubo, un elenco che perde ragion d’essere, una copertina di giornale che vive, lei, forse, il fatto non si sa…

Non l’arte come discorso sull’arte, ma il codice come discorso sul mondo, un discorso che Boetti non ammette così, riduttivo, univoco, alla fin fine mortale. Come può una rappresentazione dirci, del mondo, l’alterità, la vita vera? Parlando non del mondo, ma della rappresentazione, smontandola e rimontandola come in una versione fin de siècle del Perelà di Palazzeschi, da una posizione che non è il palcoscenico del predicatore bensì dall’angolo del curioso, di colui che sa mantenere integra l’attenzione spasmodica e sovranamente irrispettosa, la capacità di stupore, la curiosità, la ferocia intellettuale del bambino, la captazione dello straniero: del nomade, appunto.

Boetti, Mappa, 1989

Boetti, Mappa, 1989

Aveva ragione Anne-Marie Sauzeau: “Lo stra-vagante gioca sull’infrazione continua delle consuetudini (ad esempio si scopre ‘vedente’ attraverso lo sguardo bianco dei ciechi), oppure inventa nuove naturalezze (il senso senso, lo sdoppiamento gemellato). Evidentemente la stra-vaganza è refrattaria alla smentita sperimentale (la Mole Antonelliana può sorgere a Fès)”.

Il discorso, allora, si fa non sul senso, ma sul discorso stesso. La ragione si sdoppia e si specchia e va a zig-zag, la via più breve per far sì, lo ricorda Corrado Levi “– che i meccanismi più effimeri su cui non val la pena di soffermarsi, i gesti i pensieri più elementari che trascuriamo salvo ‘a tempo perso’ possono rappresentare la parte che val la pena di essere accorta; – che ci sono dei circuiti mai esistiti che posso riinventare a piacere”.

Un discorso sul discorso, soprattutto, che è il territorio stesso dell’intelligenza, in fondo a prescindere da intenzioni progetti destini. Che non vuole essere una lezione, non un exemplum, men che meno una norma. Ma che infine, se vuoi, diventa davvero la lezione preziosa. Una lezione data da improbabile maestro zen.

Un giorno, un giovane critico sicuro di sé e orgoglioso della propria professionalità lo andò a trovare per parlargli di un progetto serio, importante. Si era preparato, sapeva tutto, aveva scaletta e idee chiare. Pioveva, a Roma, quel giorno. Boetti lo ascoltò con attenzione e curiosità, chiedendo, come per saggiare i confini del discorso.

Poi smise di piovere, e Alighiero gli mostrò l’arcobaleno dal balcone, e passò un’ora parlando e strologando e reinventando l’arcobaleno. Concluse: “Bene, ci siamo detti tutto”. Quel giorno ho capito. La mostra fu straordinaria, come sempre.