Per Giovanni Manfredini, in Luca Caccioni Giovanni Manfredini Sandra Tomboloni, catalogo, Galleria Civica, Modena, 20 aprile-25 maggio 1997

La concentrazione definitivamente introversa, lo scandaglio negli spessori della propria anima, al di qua e al riparo dalla dimensione ordinaria del sentirsi vivere: questa la pratica dell’arte, per Giovanni Manfredini; riverberante un’ossessione di corpo dura, energetica, pulsante, come poche da troppo tempo.

Manfredini, Tentativo di esistenza, 1996

Manfredini, Tentativo di esistenza, 1996

Altro dall’avventura mondana è il sentimento del tempo di cui vuole farsi transito, altra la concentrazione affettiva che – figlia magari più della musica, della poesia, della coscienza lunatica di chi viva questi orizzonti lunghi padani, che non di poggiature pittoriche identificabili – egli si sente in dovere ogni volta di esperire radicalmente. Nascono i quadri suoi primi, coaguli di materia spessa ed estranea, scavati da scritte emblematiche, sovente asseverate da lame che aggettano, inquietanti, dalla superficie. Quadri che non sono, ad evidenza, superfici di rappresentazione, ma eventi fisici in sé, pagine plastiche in cui la frequenza emotiva dell’artista si fa frequenza nervosa, rapporto agonico con le cose, con le situazioni visive, a far essere appieno, in una fisiologia altra, la rage de l’expression sorgiva. Nascono, sulla scorta di quelli, le opere penultime, nelle quali la corporalità si fa essa stessa tema e pratica: il valore di travaso corporeo, di veronica pittorica (così l’avrebbe detta Arcangeli), salta a piè pari il codice della rappresentazione, e si fa pratica incoatta e diretta, radicalmente diretta.

Manfredini imprime il proprio corpo sulla superficie, a solcare della propria impronta la nerità  dello spazio: che è, a sua volta, fisicissima e insieme nerità d’anima, non l’ombra confidente della tradizione orientale, bensì quella, occidentalissima e ben frequentata dalla psicanalisi, della caverna: e che è, a ben vedere, l’ombra della grande tradizione pittorica, anche, sensuosa e inquieta, dei pestanti nostrani come del siglo de oro spagnolo. E quella superficie si sfonda, si dilata, assume dimensioni  – siano esse quelle, claustrofobiche, delle opere di piccolo formato, che rinserrano e imprigionano il corpo, oppure quelle, impadroneggiabili, delle opere grandi, laicissime pale d’un altare senza cielo – d’una condizione amniotica senza confini e destini, non confidente non torbida: di nuovo, situazione fisica che si fa condizione poetica. Manfredini non si mette in posa, in questi suoi estenuanti e digrignanti tentativi di trascendere la prigionia del corpo imprigionandolo in un’immagine. Sarebbe ben facile, in effetti, arroccarsi nel gioco virgolettato delle citazioni suggestive del repertorio infinito di ecce homo che la storia ci ha consegnato. Così come sarebbe assai più appagante, ove l’artista inseguisse la graziosità trash oggi corrente, far di quel nero il nero retoricamente laccato dei Tim Burton e degli Alex Proyas, o, al più, dei Sam Raimi.

Il suo imprimersi non è, s’è detto, comunque rappresentare. E’ proprio imprimersi, attuare e lucidamente scrutinare uno sforzo, una fatica, la nascita ansimante e dolorosa d’un doppio portatore non d’altro che dello stesso dubbio infinito, dell’angoscia, della cecità, che l’artista avverte di sé. Con immediatezza brusca e impietosa – ma quanta, e ben altra, e ben altrimenti disperata è la pietas generante queste opere – Manfredini dice il proprio corpo: così; senza altri infingimenti che l’astuzia fondamentale dell’arte: senza urlo e senza gelo, devastando ogni volta la propria anima prima che le proprie membra. Ecco, ora, le opere ultime. Che sono d’un artista ormai maturo, il quale ha spinto la propria consapevolezza, e la propria capacità di rischiare, di mettersi non letterariamente in gioco, ancora più in là.

Manfredini, Tentativo di esistenza, 1996

Manfredini, Tentativo di esistenza, 1996

Tenta, Manfredini, una sorta di nudità definitiva, che il costituirsi dell’immagine corporea rende “oscenità meravigliosa” (Trini: che avverte: ”Nell’ordine vivente di questa figurazione generativa la tua vista di spettatore è levatrice, è imperturbabile”); una nudità primigenia da autoritratto – finalmente, in questi lavori, prende a campeggiare un lemure di volto, maschera dell’altro entro sé che Manfredini ogni volta sente premere, sino ad assumere esistenza e garanzia d’esistenza propria – prima degli attributi storici: come per distillazione d’identità al grado zero: ecce homo senza esemplarità, disincantato, orgoglioso della propria fisicità che pulsa, ancora, sensuosa, vitale, libera infine delle scorie della pronuncia retorica, dell’ambizione simbolica. Non calco, sono le opere, non impronta gelata nella fissità mortale delle sembianze: individua di autonoma vitalità, corpo altro, senza orgogli demiurgici: “Kunst ist urerwig”, vuole Schiele, l’arte rimonta sempre alle origini.

Da questa scommessa estrema nascono due caratteri imprescindibili dell’operare di Manfredini. Da un lato è quel suo rinserrarsi nel buio dello studio (buio fisico, senza infingimenti) in concentrazione estenuante, in una separatezza dal mondo vissuta non come distanza, ma come trascolorare di tutto ciò che di esso è inessenziale. Questo, distillato da ogni accidente, è il mondo, il vivere fondamentale: questa la stanza dei pensieri, degli avvertimenti, degli atti: questo il luogo, la dimora unica possibile. Dall’altro è il rapporto qualitativo inflessibile che Manfredini ha con le proprie opere. Rare, perché ciascuna è per lui l’esperienza estrema, totale, e, verrebbe da dire con qualche timore di fraintendimento, estatica: né sopporterebbe altra tensione che il mordere freddo, irrecusabile dei toni, e il dilucolo di questo apparire, in lucida perfetta necessità.

Corpi forti della loro propria verità, abitano gli ultimi neri fumidi. Anche quello, come sdraiato, come abbandonato al buio. “Ogni prassi è un’immagine,…. zendado, impresa, nel vento bandiera…. La luce, la luce recedeva…. e l’impresa chiamava avanti, avanti, i suoi quartati: a voler raggiungere il fuggitivo occidente…. E dolorava il respiro delle generazioni, de semine in semen, di arme in arme. Fino allo incredibile approdo” (Gadda).