Troubetzkoy
Lettura di Troubetzkoy, in “Tracce”, XVIII, 23, Varese, agosto 1998
“La stecca lavora nervosa e morbida, come un pennello, a rotture, scavature, fiocchi, fratture, sospesi segni che suggeriscono il colore quasi e accennano il chiaroscuro condizionato e completato dai cangianti accidenti della luce”. Così Giuseppe Delogu diceva del Maresciallo Ney di Giuseppe Grandi: e certo questo è il carattere del maestro che maggiormente attrae Paolo Troubetzkoy, l’arditezza delle sprezzature, il pittoricismo non raffermato in patetismi superficiali e spinto a farsi pulsazione irritata di materia, brivido di grazia ancora settecentesca, ma già nervoso di modernità. A Grandi, che al giungere di Troubetzkoy a Milano attende ormai al Monumento alle cinque giornate, e più ancora all’allievo suo prediletto Ernesto Bazzaro, del quale frequenta lo studio, fa riferimento il giovane nobile con vocazione d’arte: per tradizione familiare prima ancora che per scelta, essendo si può dire cresciuto tra le vicende del milieu scapigliato lombardo, del quale il padre, principe Pietro, è uno dei più convinti patroni.

Troubetzkoy nello studio
Tuttavia, una vicenda biografica si trasforma prestissimo in scelta convinta di poetica, e in palestra di talento, che già si manifesta nel 1886 con la prima partecipazione alla mostra braidense, ad appena vent’anni. Nel corso della stagione milanese d’avvio, precedente al trasferimento come maestro all’Accademia di Mosca nel 1898, assai sensibile è l’influsso degli stilemi scapigliati nella pratica dell’artista. Non tanto, e non solo, per l’antiaccademismo esibito sotto forma di accentuazione insistita delle asperità superficiali, per il sapore come tiepolesco del “mosso” e degli assetti puntuali raggiunti attraverso tarsie diagonali complesse e sinuosità lineari eccitate, per la scelta persistente di un sia pur cautelato e grazioso non finito. Anche, e forse soprattutto, per un orientamento di gusto, tra l’altro secolo e il nostro, nel quale alla tradizione monumentale (pur stretta fra le tentazioni solenni di Garibaldi e della Grande Guerra; e pur praticata con larghezza, certo, anche da un autore come Bazzaro, principiando dallo straordinario Monumento a Cavallotti capace di convincere uno spirito antiretorico e ironico per antonomasia come Alberto Savinio) e al far grande figlio della “magnificenza civile” va ormai definitivamente sostituendosi la mozione culturale della borghesia operosa e “privata”: il ritratto, anzitutto, un ritratto laico e nordico, unico tantativo nostrano, a ben vedere, di esplorare le vie di un “eroismo borghese” fatto di valori convinti, di una virtù che si conosca senza alibi storici e travestimenti cólti; e poi la scultura di genere, gustosa, bozzettistica, legata a un’idea di casa infine non fintamente aristocratica, e giustamente speziata d’esotico.
Non a caso è questo il carattere distintivo di alcune raccolte private delle quali si conosce l’integrità. Ne fanno fede ad esempio le scelte di Giuseppe Ricci Oddi piacentino, di due anni più giovane di Troubetzkoy, che arriva a possedere il Ritratto del dottor Anselmi del Piccio e un Ritratto di signora di Giovanni Boldini, il Meissonier di Vincenzo Gemito, il Beccaria, il Ney e un Bambino che minge del Grandi, il Ritratto di Giuseppe Bianchi di Tranquillo Cremona, uno degli Ecce puer e Madame Noblet di Medardo Rosso e soprattutto un nucleo omogeneo proveniente dalla famiglia Borghi Torelli, il Ritratto della signora Torelli di Daniele Ranzoni, il Ritratto della signora Torelli di Luigi Conconi e il Ritratto di Giovanni Torelli di Troubetzkoy (ancorché giunto alla raccolta, quest’ultimo, dopo la morte di Ricci Oddi: ma per eredità si direbbe “naturale”). Quasi che la vera e più invasiva primazia di Hayez (del quale Ricci Oddi acquista, ovviamente, un’abbozzata Testa di vecchio) sia, infine, la ritrattistica, vero standard di gusto di intere generazioni di imprenditoria e professionismo operoso. Di Troubetzkoy il collezionista possiede anche una Recluta a cavallo, a far pendant con la non meno mossa Fuga in Egitto di Bazzaro.
Scarsi successi nei concorsi per monumenti, immediato accoglimento delle opere di piccola dimensione e dei ritratti. Così, in sintesi, si può indicare l’esordio milanese di Troubetzkoy: al cui apice sta, né forse diversamente potrebbe essere, la partecipazione alla prima Biennale veneziana con il Ritratto della signorina Erba.

Troubetzkoy, Giovanni Segantini, 1896
Leggerezza, eleganza, crepitio della luce sulla materia fratta, sull’impianto di una struttura plastica al fondo comunque salda. Più e meglio del maestro Bazzaro, non avendone i limiti tecnici e insieme potendo godere di una congenita attitudine cosmopolita, l’artista incarna la rinnovata rocaille che la moda parigina va diffondendo, della quale egli si trova ad essere un nume, libero com’è da pressanti problemi teorici e di poetica, e consapevole d’una mano intuitivamente felice e del pari operosa. E’, la sua, una sorta di perfetta vulgata, in scultura, del gusto impressionista, comparabile in termini di accoglimento al successo che arride, per gli stessi motivi, al Boldini parigino: con il quale condivide, d’altronde, una sorta di esclusiva per le committenze à la page e mondanamente rappresentative.
Sono, negli anni milanesi, non solo sodali come Ranzoni e Giovanni Segantini, ma anche Francesco Crispi , Gabriele D’Annunzio e la famiglia Vonwiller. Saranno, tra il 1898 e il 1905, nel tempo del soggiorno moscovita, Lev Tolstoj e i Romanov e i Galitzin.
Il 1905 e le prime avvisaglie della crisi russa spingono Troubetzkoy a dar corso a un nomadismo chic che durerà tre lustri. La prima tappa non può che essere Parigi, dove agli omaggi ad Auguste Rodin e al giovane collega, collega soprattutto nell’interpretare la nozione di scultura prediletta dalle classi elevate, Rembrandt Bugatti, egli alterna le committenze di casa Rothschild e di Robert de Montesquiou, il Monsieur de Charlus proustiano, a pochi anni dal memorabile ritratto eseguitogli da Boldini. Il lavoro di stecca si fa più fluido e prevale ormai nettamente sulla digitazione, sullo sprezzo dei grumi di materia: e le figure, soprattutto le stanti, tendono a sfinarsi, a risolversi in moduli di eleganza più allusiva e vagamente estenuata: già cogliendo, con perfetta sintonia sociale, il differente e più felpato modello di gusto che va affermandosi nella nuova aristocrazia internazionale.
Eccellente imprenditore della propria arte, e in questo certo più allievo di Boldini che dei maestri milanesi, Troubetzkoy va dove il mercato più chiama, in quell’America ricca e cólta che ammira Parigi, ma con nostalgie d’Olanda, e che predilige il gioco “più eccitante, interessante e vantaggioso che consiste nel comprare arte viva”, come dichiara il grande avvocato d’affari John Quinn.
Naturalmente il suo referente primo non può che diventare la famiglia Vanderbilt, capofila di quello che William Sharp definisce nel 1898 “le trust des chefs-d’oeuvre”, amante di Gérôme e di Meissonier, della scuola di Barbizon e in generale della modernità che non smentisce la tradizione: tra i personaggi ritratti da Troubetzkoy figura Gertrude Vanderbilt Whitney, fondatrice nel 1914 a New York del Whitney Museum: per uno spiegabile e saporito paradosso storico-culturale, proprio il primo museo dedicato esclusivamente all’arte americana… Ma nel 1914 Troubetzkoy è già lontano tanto da New York quanto da Parigi: il suo istinto di rabdomante sociale del gusto lo ha già portato ad aprire uno studio a Hollywood, in caccia della prossima aristocrazia mondana, quella delle star come Mary Pickford.
A non molta distanza vive una giovane italiana, una sarta che diverrà prima, nel 1920, grande attrice del cinema muto, al quale regalerà una memorabile pionieristica scena di nudo, poi una delle grandi figure della fotografia moderna, Tina Modotti. Un’altra vicenda dell’arte sta cominciando.