Bepi Romagnoni. Disegni editi ed inediti 1956-1963, Edizioni Roberto Peccolo, Livorno 1989

“Si dovrebbe arrivare a costituire un organismo respirante e pulsante in una serie di connessioni i cui significati siano continuamente precisati e spostati nello stesso momento; siano cioè differenziati, ma mobili perché possano modificarsi. Questo organismo non è la somma di vari elementi, ma la risultante di accadimenti; è qualcosa di spinto ad accadere”.

Romagnoni, Senza titolo, novembre 1960

Romagnoni, Senza titolo, novembre 1960

Così Romagnoni, anno 1960. L’occasione è “Possibilità di relazione” all’Attico, Roma, con Adami, Aricò, Bendini, Ceretti, Dova, Peverelli, Pozzati, Ruggeri, Scanavino, Strazza, Vacchi, Vaglieri, Crispolti, Sanesi, Tadini: precoce mostra di problemi, e interrogazioni, anziché di proposizioni; che sintomaticamente precede, nella stessa galleria, quella del gruppo El Paso. Molto è accaduto, nello scorcio terminale dei Cinquanta. Il ceppo d’una polemica ormai storica, tra realismo e astrazione, è uscito dalle secche d’una troppo provinciale e circoscritta vicenda nostrana (quella, per intenderci, di Fronte e Forma e Otto…), assediata da eteronome connotazioni politiche, comunque ideologiche. La cultura del surreale ha preso a circolare in modo aperto e criticamente ricco, oltre che nelle declinazioni originarie, nella fitta e già ulteriore proliferazione di esperienze della generazione seconda dei Matta e dei Gorky, dei Wols e dei de Kooning, dei Fautrier e dei Bacon: sono singole mostre, ed è soprattutto il segnale netto della Biennale veneziana del ‘54, a segnare tale passaggio. È come se, in un dibattito ancora impaniato nella derivatività delle meccaniche formalistiche (a metà decennio solo pochi se ne sottraggono: Afro, Burri, Capogrossi, Accardi) o nell’adesione a un reale concettualmente prosciugato ormai ad alibi retorico (come pochi avvertono, i “vecchi” Mafai e Birolli in testa), ricco di motivazioni e intenzioni e volontarismi ma troppo arido di nourritures, irrompesse non solo uno spettro di modalità nuove, di facoltà stilistiche, ma il modello complessivo di un’attitudine di pensiero attuato. È l’universo stesso del possibile, dell’indeterminatezza generativa, dell’identificazione psichicamente vertiginosa tra l’intimità dell’esistere e avvertire il mondo e il manifestarvisi con segni di forte autonoma sostanza. È, soprattutto, una compiuta formatività altra, consistente nella propria specificata genetica, eretta su un ambiguo linguistico capace di dire il rimosso, il non evidente, il flusso extraordinario d’affetti, sensazioni, pensieri, dilatanti all’infinito la nozione di realtà e forma.

Quanto, di questa congiuntura, abbia innervato le persistenti esperienze racchiuse nella definizione di informale, è fatto ampiamente esplorato, anche tenendo conto del collidervi e contaminarsi delle concezioni stesse di astratto, e concreto, e figurale. Ciò che meno si è rilevato, fatte salve alcune illuminate e precoci indagini di Crispolti, è come e quanto i medesimi stimoli abbiano agito da reagenti critici per la nuova generazione che, successiva rispetto a quelle dell’immediato dopoguerra, movendo dal postulato dell’ineludibilità di un rapporto profondo, e insieme fortemente dubitativo, con il reale sensibile e storico, prende a praticare la via di una sua resa in termini – cito Crispolti – di “vitalità organica”, di “verità d’organismo espanso e partecipe”, bruscamente antiretorici, di cruda autenticità d’emozione e insieme di non preordinata eccezione mimetica.

Si sentono ancora, questi artisti, jungen in senso avanguardistico, responsabili d’una posizione ulteriore, di pensiero e di modo, agonicamente moderna: e proprio per questo, parimenti polemica verso l’ufficializzazione del nuovo in termini di gusto, e della retorizzazione inane dei furori e dell’oppositività dell’avanguardia immediatamente precedente. Non si tratta, come qualcuno ha ipotizzato, di un tentativo di recupero e mediazione dei riferimenti dissolutori e linguisticamente brucianti del dada-surrealismo in seno a un atteggiamento referenziale ormai formalmente usurato, ancora ascrivibile al rimontare di un milieu provinciale verso climi culturali di maggior spessore internazionale. È consapevolezza, e assunzione di responsabilità, già all’interno di un ambito di dibattito ormai evoluto e omogeneizzato, che sa di poter far conto e utilizzare tutti i corsi della ricerca artistica recente e meno recente, ma a partire da un’intransigente e assai avvertita condizione di coscienza eticamente orientata, contraddittoria rispetto alla smobilitazione di quella “politicità” della pratica che pure, dell’avanguardia, era stata uno dei fondamenti.

Romagnoni, Senza titolo, settembre 1959

Romagnoni, Senza titolo, settembre 1959

Che anche tale posizione, innescata dai modelli forti di Matta e Gorky, nutrita delle letture correnti di Bacon e Giacometti oltre che di certe epoche passate, dal Seicento al Manierismo, sia condizione a sua volta di rilievo internazionale, è detto da molti, non casualmente coincidenti fatti: dai nuovi corsi dell’arte spagnola e nordeuropea, a mostre di riproblematizzazione critica come “The new images of man” a New York e “The romantic agony” a Houston.

È all’interno di questo clima, qui ripercorso per troppo breve sintesi, che va letta la crescita alla maturità di Romagnoni, figura chiave per comprendere i corsi problematici della riflessione artistica nel passaggio cruciale tra i Cinquanta e i Sessanta. Una lettura che trova nella sua pratica del disegno, laboratorio concettuale prima che di sperimentazioni formali, pratica dipanantesi come un continuum fitto fino all’ossessione, ritmato a sua volta su flussi brucianti e liberati di coscienza, lo specchio più autentico e non filtrato, capace di dirci non solo degli esiti, ma anche dei rimuginii, delle prove, delle vie intraprese e di quelle effettivamente percorse. La scelta stessa del disegno come pratica privata sì, ma problematicamente privilegiata, è indicativa d’un atteggiamento. II novelliano “non fare il quadro”, il sottrarsi alla nozione stessa di opera come esito perfetto e dichiarato che ufficializza una esplicitazione di intenti ­– così è, e permane tuttora nel codice del consumo snob – comporta in Romagnoni, in attesa di riconfigurarne l’approccio, una sorta di remora, superata solo nelle consapevolezze della prima maturità, 1958; un ritrarsi nella fermentazione più autentica (e anche padroneggiabile) del foglio, che negli anni di pieno dispiegamento di forze assumerà, per naturale conseguenza, il valore di paritetico luogo di esperienza.

La prima metà del decennio, quella degli incontri di Brera con Ceretti, Vaglieri, Guerreschi, va letta come incubazione vera e propria. Conta, in lui, l’esplorazione radiante di posizioni diverse, dal costrutto astratto alla schematizzazione geometrica della visione naturale, al ricarico esistenziale, d’introverso patetismo, della situazione visiva, per le vie d’’una iperdeterminazione discrepante dei segni riconoscibili in senso emotivo.

Conta, forse più di queste prove ancora d’orientamento (e va considerata non solo l’ansia di scontare, assorbendoli rapidamente, i modelli circolanti, ma anche l’oggettiva difficoltà d’affrancarsi dallo schema culturale del realismo post-bellico in una città come Milano, in cui si sovrapponevano allora fino all’equivoco prosecuzioni anche non ovvie di novecentismo e un forte polo di realismo socialista), la fagocitante curiosità intellettuale di cui fa mostra, che lo apre a una non atticciata attenzione filosofica, e soprattutto a esperienze letterarie che vanno da Sartre a Camus, premesse del successivo approfondimento riflessivo del nouveau roman butoriano e della parallela école du regard cinematografica. Le prove del 1956 ci dicono di uno stadio importante di questo processo, coincidente con l’uscita programmatica di Romagnoni, Ceretti e Guerreschi in una mostra al centro San Fedele di Milano. L’approccio è alla visione reale, al mondo fenomenico, in modo all’apparenza fisiologico.

Ma l’attenzione di Romagnoni non è per la forma, per lo scandirsi e qualificarsi dello spazio in un’articolazione di relazioni ordinate e necessarie. Prevale già, in lui, l’avvertimento della scena, della sua fantasmagoria in avvenimento incidente sul piano emotivo, in condizione narrativa sensazionale non formale, che certo riecheggia valori, più ancora che modi, della cultura espressionista, e delle sue riformulazioni tedesche degli anni Venti.

È un narrare, quello ipotizzato da Romagnoni, che fluisce per accelerazioni disgreganti, attraverso un’intensificazione lineare che é risonanza e concrezione energetica del segno figurante. È un narrare che contrae e comprime la dimensione spaziale, e temporale, in nucleo fratto e convulso, sottrattivo e insieme attuato come coagulo concitato. L’artista intuisce, già, che una figurazione sensorialmente e concettualmente motivata non può percorrere, ormai, la via della riduzione, quanto quella dello scacco radicale e della ricostituzione di un’identità, e di un’evidenza, d’autonoma fondazione. Il segno né descrive né trascrive più, ora; è già scrittura di un feeling che a una situazione figurale ritorna dopo un’impietosa notomia analitica ed emotiva, carico d’una tutta nuova condizione significativa, e di concretezza, abitante e attivante uno spazio/tempo non meno topologicamente altro. La divaricazione tra vero e verosimile, tra forma stessa e senso, tenta di ricomporsi in questo processo di complessa omologazione in stato di coscienza, che si attua pienamente proprio per diversità specifica e fondamentale rispetto all’esperienza ordinaria del vedere, del conoscere vedendo.

È in questa immagine, autre ma al reale congenita, che Romagnoni vede la risposta possibile anche in termini di ethos, di coscienza disperata magari, perplessa e allarmata certo, ma non ancora svuotata dalla trappola del disincanto.

Romagnoni, Racconto, 1963

Romagnoni, Racconto, 1963

Il biennio 1957-58 è, rispetto a tali premesse, di compiuta esplorazione di una situazione rimotivata di figura: in “una specie di furia meticolosa” (Tadini), i fogli fittissimi di questi anni mostrano la tensione a costituire e affrancare una sorta d’interiorizzata biologia pittorica, una formatività che non si concerta solo nell’espandere all’estremo i possibili linguistici e le loro vocazioni a concretizzarsi nella fantasmagoria dell’artificio pittorico (che è pure tratto non secondario del suo lavoro: lo scandaglio lucido e razionalmente ripensato dei “gesti e tutti i concatenati modi del nascere di una pittura”, com’egli scrive, lo porrà sempre al riparo da retoriche ed esibizionismi formali di ritorno), ma anche nell’evolvere il primigenio germe surreale fino a identificare una fisiologia della coscienza attraverso l’immagine, un’organicità capace di attuarsi in identità equivalente e insieme irrelata rispetto al mondo.

Elisa, definitivamente, ogni spaziatura di tipo proiettivo, Romagnoni convoca al segno la facoltà di agire come movenza di senso, che dice dell’aggregarsi e disgregarsi della forma all’interno dell’evento (vero “soggetto” dell’opera), come trama non univoca di relazioni, scambi e scacchi significativi, tensioni e rarefazioni: valori, tutti, di una identificazione non più che puntuale dell’immagine, momento-pausa di una mutazione che è autentica misura del tempo e dello spazio, organismo, dunque, di cui si testimonia la condizione ambigua d’esistenza: “se questo mobile terreno è l’unico che abbiamo a disposizione – scrive Romagnoni nel ’59 – ogni mossa non deve essere giusta solo rispetto ad un punto, ma ad una molteplicità non trascurabile; quindi non è ad un procedimento di riduzione che dell’immagine alla sua struttura o alla sua larva che si riconduce la pittura, ma al contrario si spostano più in là le zone dei possibili riscontri”.

Relatività, mutanza, complessità. È come se, beckettianamente, Romagnoni ora avvertisse che “fare il quadro” è possibile solo a patto di scardinare definitivamente il valore storicamente eretto di unità, stabilità, profondità, durata, quella stessa monumentalità che ancora s’avverte nello stesso Bacon, come se ordine e disordine fossero davvero condizioni contrapposte dell’essere, e alternative; trovando, com’egli ormai sa, continue contaminate compresenze all’interno d’un avvenire i cui segni, esplosi, insensatamente proliferanti, sono insieme, e mai in sé, senso e non senso, valore e opaca astanza: di cui la pittura può dar conto, ma a patto di abdicare alla propria certezza, per farsi a sua volta provvisoria, interrogativa, variante. Nascono qui i fogli in cui egli saggia quell’“imagerie organicistica per reale gravitazione fisica, per peso concretamente ed effettualmente mondano, per una volontà di palpare e commisurare nella loro consistenza quasi oggettuale, pur espansivi e dinamicamente respiranti, gangli vitali e nodi strutturali” (Crispolti). Sono grumi d’una quantità visiva addensata e aspra, che si dipana in tracce spazialmente disorientate, fino a farsi orizzonte e luogo e ipotesi di forma; oppure brandelli d’un visibile naturale cui non è concessa responsabilità d’esistenza, ma solo facoltà di reiterarsi in apparenze apposte come fotogrammi d’una sequenza sottratta al tempo, al suo estraneo lògos; o ancora, “personaggi” di cui il rigore scrutinante d’analisi delle movenze genetiche mostra la possibilità in trasformazione, in una sorta di stratificazione di transeunti condizioni d’identità.

È il momento, per Romagnoni, del massimo dispiegamento di modalità espressive, oltre che di massima concentrazione intellettuale intorno all’immagine come evento narrabile.

Nella dura, scarnificata consistenza e corporeità che la sua metrica grafica convulsa, febbrile e insieme lucida, mette in gioco, l’aulicità di epos e l’esemplarità del racconto della tradizione pittorica sono riassorbite, deidentificate in “petit récit”, minimo trascorrere visivo di evenienze proliferanti sul limine della significazione possibile, differenziali posti non affermati, d’un senso interrogato come precario.

La svolta finale è nei fogli dell’estate 1960, che appaiono come il dispiegamento d’un potenziale concettuale ormai decantato, con quell’irrompere di movenze strutturali che saturano lo spazio per qualità, per ritrovata interna misura e scansione della mutazione; forma che aspira, infine, a una compiutezza, a essere non definizione, ma plenitudine d’avvenimento.

Prima per nuclei grafici apposti nella whiteness mentale del foglio, poi stretti in una tramatura sempre più fitta e articolata di rapporti, scambi, scorrimenti, in una sorta di labirintica, ma non enigmatica, configurazione, Romagnoni trova non solo la nuova possibilità d’un figurare forte e motivato, ma anche quella d’un peso specifico, d’una consistenza e corporeità dell’immagine avvertibile in equivalenza con l’esperienza del mondo.

È a questo punto che matura, per naturale svolgimento, l’immissione di reperti fotografici entro il montaggio visivo. Se la questione non è di diversa dignità e responsabilità in termini di verità e verosimiglianza; se ogni segno è a un tempo sottrazione di senso compiuto e radiazione indeterminata da una realtà comunque altra, allora il grado di referenzialità dei singoli segni porta con sé solo un diverso grado di scacco e di interrogatività nei confronti dell’esperienza sensibile: oltretutto, l’immagine meccanica, il suo riprodurre convenzionalmente il mondo, è già di per sé, in questi anni, da molti indagata come primo momento d’una artificializzazione e d’uno svuotamento sensibile, in grado di renderla simulacro concettualmente ed espressivamente riqualificabile: ovvero, per altri versi, già segno possibile, concreto e insieme esorcizzato e rideterminabile, del processo che Romagnoni attua.

In questi ultimi anni, conseguentemente, al segno forte del lacerto fotografico l’artista deve far corrispondere segni di non minore spessore e assertività spaziale. Da qui l’inturgidirsi dei tracciati, il loro infittirsi fino a ripristinare movenze chiaroscurali; da qui, soprattutto, il passaggio a un lavorio più lento e meditato, che alla tensione fremente dei fogli precedenti sostituisca un’accortezza analitica fatta di bilanciamenti, sedimentazioni, scelte compositivamente più calibrate.

Più che al disegno puro, è al collage, di cui cospicue prove ha già dato fin dal ‘60, che Romagnoni si rivolge. Ma ora, dal ‘62, l’opera di Romagnoni non è più quadro, ha travalicato anche il diaframma disciplinare che separa il disegno e la pittura, e i loro determinati armamentari. Davvero, ogni opera è un puro eventum visivo, un frammento parziale ma non insensato di mondo. Pochi sono, ora, i fogli. Il “this is tomorrow” di Romagnoni è tutto in quei “racconti”, specchi compiuti d’una coscienza che sa trovarsi, senza remore e incantamenti, tutta in un’immagine.