Dieci proposizioni per Lucio Del Pezzo, in Del Pezzo, catalogo, Galleria Arte 92, Mazzotta, Milano, 1 ottobre – 21 novembre 1992

1. “Luogo arcano, immaginario, enigmatico, detto Flatlandia”. Così Del Pezzo, anni fa, a proposito delle stagioni d’immagine sue più recenti. E Italo Calvino, nelle Parafrasi memorabili di questi teatri pacioleschi e paradossali: “Tra le insegne d’una città non si svolgono mai monologhi ma duetti, trii, sestetti, sinfonie in cui l’ingresso d’ogni nuovo interlocutore cambia tutto il discorso”. Chiari e netti come stendardi, i colori, come le tarsie d’una araldica in cui le forme non sanno più se stesse, ma impongono l’videnza cantabile della loro sagoma forte. Concitato e sapidamente oscuro il montaggio, invece, che vive della compressione e della accumulazione degli echi simbolici, delle allusioni, delle evocazioni nomadi: forme grevi di storia, e insieme stereotipi di se stesse, doppi virati a un gioco di segni che s’inventano una sintassi, indifferenti, liberi, mentalmente bidimensionali.

Del Pezzo, Autobiografico, 1992

Del Pezzo, Autobiografico, 1992

2. Sono Le diecimila cose del mondo, come recita una delle opere cruciali di questa mostra, che rivendicano con orgoglio provocatorio una vocazione babelica, un’identità rastremata a pattern, a grumo relativo nel teatro esploso delle connessioni del senso. Hanno un’apparenza in cui il colore puro piatto squillante agisce entro una struttura semplificata, che gioca lieve sul confine tra segno e segnale, che risente della propria congenita geometria, che vorrebbe galleggiare nel blank concettuale ma ne è trattenuta, giocosamente, in un barbaglio duchampiano estroverso e mobile (cose-cose, parole-cose, parole-parole…), da scorie mondane sostanziose e felici, da un cortocircuito referenziale, di riconoscimenti primari, che Del Pezzo lucidamente eccita e titilla. Segni bassi e segni astratti insieme, alchimia e fisica, banalità e artigianato, in un unico corso fantasticante che si dirama, ed espande, e riverbera.

3. Di pochi artisti è davvero importante la radice geografica, che vuol dire cultura. Del Pezzo è napoletano. Perché nei suoi cromosomi ci sono la metafisica e lo straniamento, lo scrutinio profondo e la boutade che lo emette, la lepidezza lievissima e non paludata e la malinconia vertiginosa. Perché il suo sguardo va al cuore dell’immagine e già può tradirla. Perché sa che anche il mentalismo più sottile è fatto di sangue che pulsa, sa di carne sesso terra. Un amico artista lo ricorda ventenne, in Grecia, a disegnare kouroi e templi: quel segno sottile e già disincantato, dice (quello stesso che ora riempie fitti i taccuini preziosi che sono il laboratorio proliferante delle figure di Del Pezzo), sapeva cogliere l’anima sacra di quelle forme, e insieme il simulacro pupazzesco, la doublure scenica, il luogo comune: senza scarti e senza eresia: per comprensione profonda e incapace di retoriche, se non deliberate e svuotate di valore.

4. Il fasto dissoluto dell’iconografia, e la scintilla cristallina dell’idea. Africa è l’opera più potente della serie odierna. La lunga pelle di serpente, la maschera, la geometria esplodente dei colori. Del Pezzo satura lo spazio del codice pittorico di segni forti, ma insieme lo serra in una cadenza rigida, distillata, precisa. Ogni elemento è se stesso ed altro, in uno stillare d’umori turgido e di piena souplesse. Evoca, ma si riassorbe in un’architettura neoplastica, lontana, ferma, che consente al pensiero di insinuarsi e aggirarsi oltre la pelle tesa e concreta dell’immagine, a trovare la luce altra che davvero ha generato l’immagine. È il gioco più rischioso di Del Pezzo, il più contiguo all’oggettività: e il più pittoricamente clamoroso: ma anche quando non mormora, anche quando non decanta l’immagine nel suo disegno – schema e disegno interno – Del Pezzo vede il proprio corso inventivo retto da un pensiero sottile e caustico, divertito ma inflessibile.

5. È, in fondo, la medesima radice delle opere sue prime, quelle con cui esordì a Milano da Schwarz nel 1961: La fidanzata del pittore, Tavola ricordo II, per esempio. C’era, allora, un sentimento autre, nell’agitare paste livide d’un bianco virato, ma già attento a inghiottire l’arroganza fisica dell’oggetto, dell’inserto concreto, in una condizione di lettura tutta emozionata, fatta di sapori, di ascolti, più che di decodificazioni. Era un neodada già orientato, certo, ma odoroso del salnitro dei muri nobili e schiantati dei Quartieri Spagnoli, impregnato dell’affettività lunga e saturnina d’un pagano sensuale che avverte il sacro metafisico delle cose. E l’approdo non poteva che essere Ex voto, panoplia corrusca di figure già dalla simbologia pericolante, già dall’araldica svagata e improbabile. Era la voglia di segreto, di interrogatività persistente e non drammatizzata sul senso, sul secret du monde, che doveva schiudersi verso De Chirico:  un De Chirico ovviamente ripensato per scacchi bersagli sagome amuleti, in un ridursi ludico delle citazioni colte a cangiante luna park domestico.

Del Pezzo, Mazzocco quadrettato, 1992

Del Pezzo, Mazzocco quadrettato, 1992

6. Qualcuno ha detto d’un Del Pezzo tangente alla cultura pop, in certi anni. Vero, se pop vale genericamente e massmedialmente basso, stereotipato, riassorbito in Flatland warholiana. Improbabile e impertinente, invece, se si dica di pratiche artistiche, stilemi, e quant’altro: altro, sapientissimo è il gioco di svuotamenti e trascorrimenti significativi, altro lo scarto continuo e mobile dei valori visivi, altra la sintassi problematica: se proprio parentele contigue Del Pezzo può dimostrare – quelle storiche, Duchamp e De Chirico, essendo conclamate – esse stanno nella genia intricata dei Fahlström e dei Castellani: tra proliferazione di schegge d’una mondanità dissolta a sequela di pins, e geometria potente del desiderio di spazio, del rigore analitico che allo svuotamento e alla riformulazione dell’immagine conduce.

7. Del Pezzo era, in quegli anni, non tanto l’evidenza sommaria e mortale, benché abbigliata di colori clamorosi, di Le tigre, quanto piuttosto il catalogo ossessionato e alla deriva di Thyco Brahe: ove le shapes si complicano fittamente, figure estranee: ed hanno ombre, improbabili ombre d’uno spazio solo pensabile, in bilico. È una sorta di coagulo semplificato di mistero, di gioco d’ironia fondamentale al limite d’un mistero importante, sospettato, suggerito, alluso. Ne nascono Chimere, rimuginii su Bomarzo, costellazioni di chi scruti lo spazio non con gli occhi, ma con il cuore e la mente ( e non può essere cromosoma casuale quello fontanesco, la sua astronomia un po’ sumera un po’ paneroniana), e vi proietti le figure stupide e criptiche della nostra retorica.

8.  Cielo stellato e Motivo astronomico appartengono a questa stirpe di opere, ma cielo estraneo, astratto, è anche quello di Due segni, e quello che sovrasta l’omaggio dechirichiano della Scena con oggetti. Ma casellari, sono soprattutto le opere che nascono ora, in un à rebours ancora più concitato entro il mondo delle iconografie che gli sono consuete: alchemiche, simboliche, banali. Sa di pittura Autobiografico, di viaggio non geografico Eraclion, figlio minore d’Africa, di antiche ironie ludiche Composizione con due bersagli.

9. La combinatoria di Del Pezzo s’infittisce, tocca con grazia dissolvitrice sfere sempre più precise del nostro pensiero sistematico, e del nostro inventarci spiegazioni per la sfera inattingibile del mondo. Insieme, però, pare acquisire una sorta di dolcezza melanconica –forse anche questa è una citazione cangiante… – di strana introversa narratività, come in una sorta di non cerebrale nouveau roman, di diario visivo ellittico ma capace di ritrovare spessori: di poesia almeno.

10. Nei taccuini, montano fitti altri tesori. Sottili e suadenti, “menzogne geniali” come l’oro di cui sono fatti.