Atanasio Soldati. Invenzioni, studi, progetti, catalogo, Cardelli & Fontana, Sarzana, 6 marzo – 8 maggio 2010

Occorre muovere dalla lettura ormai classica che Nello Ponente ha dato, nel 1970, dell’opera di Atanasio Soldati, per comprendere la sostanza e la ragione di quella “probità” che lo studioso gli riconosce come carattere essenziale – ovvero l’eticità d’un fare che mai è dimostrazione, sempre ricerca – e, più, per leggere nella prospettiva corretta la trama fitta, plurima, radiante di carte su cui è cresciuto il suo lavoro d’atelier.

Soldati, Composizioni, 1946-1947

Soldati, Composizioni, 1946-1947

Scrive Ponente che “dei mezzi che aveva a disposizione (il colore, lo spazio, le forme) era sicuro per lunga padronanza, epperò l’intelligenza critica gli suggeriva che potevano essere impiegati per altre soluzioni”. Lo studioso dice della seconda maturità dell’artista, che ne fa il padre nobile del Movimento Arte Concreta, ma a ben vedere ne sintetizza il percorso tutto. Che è, dice anche la sequenza delle sue opere maggiori, non lineare, non metodologicamente padroneggiato e cautelato, ma continuamente pronto ad aprire nuove strade, a seguire fili ulteriori d’invenzione, a riprendere in chiave diversa riflessioni già svolte, ben consapevole di pagare lo scotto di un grado minore di riconoscibilità stilistica, in un clima in cui la logica delle adesioni, degli schieramenti, dei nascenti brand formali, si va pur facendo sempre più ossedente e normativa.

Leggere la serie di invenzioni, studi, progetti collazionati in questa occasione offre piena conferma di ciò. Oltrepassata la soglia di feticismo che fa del lavoro privatissimo d’atelier una sorta di piacere voyeuristico per coloro – quorum ego – che si compiacciono ed emozionano nel veder scoccare la scintilla inventiva prima, nell’osservarla crescere per rimuginii diversi sino ad assumere orgogliosamente le fattezze dell’opera maggiore, queste carte indicano che Soldati ha traversato il lungo guado dell’arte novecentesca assai più avvincendosi alla qualità e alla natura dell’andare che non alla certezza della meta, senza stelle polari ideologiche o fideistiche a fargli da guida, affidandosi piuttosto al motto avventuroso, più volte predicato in seguito dall’art autre, “il cammino si forma sotto i passi”.

In questa chiave leggo una notazione cruciale di Pier Carlo Santini, in quale nota che Soldati, “anche nei periodi di più connessa e univoca determinazione stilistica, non esperisce un limitato repertorio di forme, per poi passare in una fase successiva a nuove inedite soluzioni; compie piuttosto, incessantemente, dei sondaggi che si affiancano e si alternano con le opere di più stabile definizione formale: sondaggi che vengono talora ripresi e condotti innanzi, e restano talaltra senza apprezzabile seguito, o vengono abbandonati”.

Soldati, Composizione, 1946-1947

Soldati, Composizione, 1946-1947

Ciò che si constata, plasticamente evidente, nelle carte: in cui si stratificano, confliggono talora, dialogano talaltra per le vie carsiche dell’invenzione, temi, motivi, soluzioni diversi, in una sorta di sospensione cronologica che non riguarda solo il senso di sostanziale astoricità di tutto il pensarsi di Soldati, ma anche e più specificamente il suo modo interno di procedere, che non conosce indirizzi e confini statuiti ma una sorta di fervido, dubitante, continuo aprire fronti problematici e verificarli, per cui ogni opera, ogni stagione del suo fare vive la compresenza di tutto ciò che l’artista ha già conquistato, o sperimentato. Il disagio, l’impossibilità ogni volta verificata di delucidare una traiettoria espressiva, magari scandendola in stagioni, con un prima e un dopo accertati, e di scandire un’interna nitida consequenzialità, è la qualità ancor oggi, credo, più fascinosa dell’arte di Soldati.

Il quale nasce, è ormai notissimo, da studi d’architettura che lo preservano sin dall’inizio dallo psicologismo e dall’estraneità alla “pittura di intingoli e di mostarde” che faceva infuriare il giovane Carlo Carrà, e può guardare al Novecento, al suo monumentalismo, al suo classicheggiare per volontà di forma alta e troppo spesso eloquente, con occhio più critico che partecipe. Anche generazionalmente, Soldati si trova da subito più a proprio agio nell’universo tra metafisico e antigrazioso che proprio in Carrà ha il suo modello: iconografie sospese e semplificate ai limiti dell’elementare, rapporti formali e spaziali che violano l’aspettativa prospettica e si declinano in straniata tarsia sintetica e linearmente definita, alle soglie di qualcosa che ancora non osa chiamarsi astrazione, rapporto conflittuale con l’idea di classico (per via d’asimmetrie, di forzature di pondus, di pluralità di centri visivi…), e un colorare che, se non è quello rattratto e ostico dei maestri metafisici, è pur sempre pudico, rastrematissimo, pur annunciando già quella sorta di tersa luce interna che sempre sarà la sua.

E’ il “primitivismo immaginoso” che proprio Carrà gli riconosce nella prima recensione autorevole del suo lavoro, “dove la realtà – case, monti, cieli e acque – si presenta in imposizioni astratte, ma non arbitrarie”, con “sintesi cromatiche e volumetriche di sensazioni che diremmo sognate”. Primitivismo è termine chiave, nella Milano dei Persico e dei Giolli: il semplificarsi del dato di referenza a schema decantato, assottigliato in umori di tarsia, in cui echi d’antigrazioso di sovrappongono e contaminano con una volontà d’anticlassico che molti perseguono in antitesi all’ideologia construens del Novecento, è quanto perseguono, su sponde anche diversissime, il Licini che nel 1929 s’attribuisce una stagione formativa di “primitivismo fantastico”, i giovani Sassu e Manzù impegnati, scrive Raffaello Giolli, “in un problema della pittura che non sia ignaro della pittura d’oggi: e aggiunge, a Giotto, Modigliani”, e il primo Fontana dal “primitivismo un po’ ingenuo ed arbitrario” individuato da Edoardo Persico: solo per non citare che qualche esempio. E non è un caso che proprio Persico s’avveda subito dei talenti del giovane Soldati, nello stesso tempo della recensione di Carrà.

Soldati, Composizione, 1951-1952

Soldati, Composizione, 1951-1952

Ha inizio da qui, da quel fatidico 1932, la stagione di lavoro che conduce Soldati a oltrepassare le soglie dell’astrazione geometrica. Operativamente sincroni e incrociati, proprio dal 1932 si affacciano nell’operare dell’artista temi di specifica ispirazione metafisica e purista, ed esercizi di passo calcolatamente geometrico d’aroma tra kandinskijano e neoplastico. Un’indicazione dell’evoluzione concettuale e problematica del Sondati di quel tempo è perfettamente indicata da Albino Galvano, che intuisce le non evidenti affinità di pensiero tra Morandi e il nostro – si era nel cuore degli anni ’50, e Morandi era una sorta di totem negativo dell’avanguardia geometrica – e le sviluppa in termini di divaricata derivazione critica dal magistero di Carrà: “dove Morandi eliminava dallo schema di Carrà il colore, o meglio, le tinte, e si ritrovava così tra le mani un giuoco di luci ed ombre in cui l’austerità ‘metafisica’ poteva degradare a sentimentalismo solo attraverso l’erosione dei contorni nel tono; proprio sulle tinte e sulle loro gaie contrapposizioni Soldati puntava, ma in questo modo il chiaroscuro veniva totalmente riassorbito, e da Carrà si passava a Kandinskij”.

Pur nella forzatura critica, chiara è la chiave del discorso. Soldati non ha una Damasco astratta, e giunge piuttosto a quelle risultanze per vie più complesse e sfumate: verrebbe da parafrasare, non per “less” formale, ma per “more” intellettuale e poetico. D’altronde il termine di mediazione e il ponte concettuale tra il prima di Soldati e questo dopo è, ormai è assodato, il purismo di Jeanneret/Le Corbusier e Ozenfant, il progetto di una più marcata componente di astrazione perché le ragioni prime della forma risiedono in una sorta di percezione profonda e duratura, più sintetica che analitica, più, verrebbe da dire, pierfrancescana, in cui il valore dei contorni tende a intessere un continuo spaziale, e quello delle tinte un’armonia raggiunta anziché preordinata.

“La plus haute délectation de l’esprit humain est la perception de l’ordre, et la plus grande satisfaction humaine est la sensation de collaborer ou de participer à cet ordre”, si legge in Le Purisme. È, questa, la ricerca che tende a  radicarsi alle fonti stesse della classicità europea: uno spazio unitario, perfettamente scandito e perfettamente ripensabile, quel senso di ordine come lògos interno alle forme anziché  frutto d’arbitrio ordinatore, riscrive il canone antico, fa della bottiglia e del manichino l’erede della colonna greca, e del paradigma antropomorfo per eccellenza.

Ben si intuisce tutto ciò nell’itinerario che porta Carlo Belli a rivendicare con forza, presentando Soldati nel 1933 al Milione, che “l’arte non potrà essere che invenzione”, in perfetta autonomia del fatto pittorico, e di lì a due anni a enunciare nel fondamentale Kn: “Bene, l’arte è creazione, ossia manifestazione di espressioni che si presentano per la prima volta: idee. Allora l’arte non sarà mai il creato, giacché l’idea ha in sé la creazione allo stato di infinito presente – eter­nità – non già allo stato di passato che indica morte. Per ordinare: spirito: mondo della verità, dell’immo­bile, delle idee, creazione, vita eterna; materia: mondo del trascorrere, contingente, relativo, che ha per fine la morte”. Per ciò, aggiunge, “abbiamo infine deciso di non lasciarci più atterrire dalla semplicità”.

Soldati, Composizione, 1952

Soldati, Composizione, 1952

Questa è la classicità nuova possibile, condivide Soldati, che in quello stesso 1935, che è anche l’anno della “Prima mostra collettiva d’arte astratta italiana” nello studio torinese di Casorati e Paulucci, presenta se stesso al Milione con queste parole: “la pittura ‘astratta’ ama l’analisi, l’ordine, gli armoniosi rapporti della geometria, la chiarezza, come è di ogni opera d’arte, di qualunque tempo, dal Partenone a Pier della Francesca”. Composizione, e Pittura, d’altronde, titola la quasi totalità delle opere di quel periodo, sia che si tratti di puri costrutti geometrici, sia che vi si riconoscano shapes d’un somigliare semplificatissimo, e di filigrana, ancora, metafisica e purista. Il suo è, m’è accaduto altrove di scrivere, “un intreccio di motivi neopitagorici e di attrazioni metafisiche” e “una sorta di visibilizzazione per analogia linguisticamente fondata dell’ineffabile realtà altra, con voglie di perfezione”.

Il neoplasticismo mondrianesco filtrato attraverso l’esempio diretto di Frederick Vordemberge-Gildewart, e l’astrazione kandinskijana assaporata nella personale al Milione del 1934, irrompono nel laboratorio inventivo di Soldati, il quale è più attratto, in ogni caso, da un comporre più ritmico e ricco di sensuosità curvilinee così come di diagonali dinamiche, che dall’ordo neoplastico: né, quando occorra, egli rinuncia al vero e proprio astrarre dal motivo sensibile ridotto a sigla grafica, che il colore fa vagamente araldica.

E’ Alfonso Gatto a rivendicare, per queste pitture, una sorta di autonomia plastica del colore, un pensare astratto che non è geometria compitata ma un radicalmente diverso, a quelle date in Italia, far vedere. Soldati lavora per “colori infinitamente precisi e raggiunti nel loro corpo – scrive Gatto –. Per Soldati, cioè, i colori sono infinitamente elementari: non risultano dal loro limite nella luce bianca: cioè ogni forma ha un suo spettro solo in sé, nell’ordine di una sua chiarezza estrema e determinata”.

Quando, nel progressivo sfiduciarsi dell’esperienza astratta italiana coagulata intorno al Milione, Soldati riesplora un repertorio tematico più apertamente postmetafisico con speziature postcubiste, con citazioni morandiane, dechirichiane e puriste anche esplicite ma distillate in puro ritmo visivo e in cantabilità cromatica, non va compiendo, come ad altri pur accade, un ritorno alle origini, e piuttosto una sorta di esperimento di sintesi ulteriore. Matura, ora, una definitiva souplesse anche rispetto al gioco delle collocazioni mondane del suo lavoro, di cui Soldati mai troppo si preoccupa ma che ora, in una stagione di dibattito disorientato, può permettersi di arroccarsi nella certezza della propria forte, incontrattabile singola identità poetica. Il suo “mariage des contours” di radice purista agisce su spazi dei quali poco importa la probabilità referenziale, e assai più la cadenza visiva i cui elementi si concentrano in un grado di denotazione indifferente, riscattata dalla funzionalità alla costruzione musicale – spaziosamente, e cromaticamente musicale – della composizione.

Quando, il 22 dicembre 1948, il Movimento Arte Concreta si presenta alla libreria Salto di Milano, Soldati ne è indicato l’indiscusso maestro: più dello sperimentale Veronesi, più del meditabondo Reggiani, egli è l’interprete di una clarté grafica e cromatica che ha il coraggio di misurarsi solo ed esclusivamente, scrive Luciano Caramel, con “l’imprevisto della fantasia”. E’ quella sua “riduzione a elementari scansioni geometriche della stesura pittorica, così da lasciare ogni risalto alla creatività che muove schemi e strutture senza bloccarli in dati percettivi rigidi e definitivi”, come indica Paolo Fossati, il dato che i giovani del MAC e di Forma avvertono come vicino. Ed è, per taluni, l’intuizione che la sua pittura non è mai un dover essere ma sempre una sorta di epifania meravigliata, senza che ciò dica spettacolo e vuota intelligenza dell’effetto.

Le nuove pitture di Soldati vivono di shapes mosse, dal retrogusto talvolta biomorfo – com’è nel Kandinskij ultimo, nel Klee più sospeso, cui certo egli molto pensa – e con dinamiche visive a tarsia che lo rendono per composizione affine al Magnelli coevo, ma con la dote ulteriore di un colore che si sa splendente e terso, e per tensione poetica ancora parallelo al Morandi nuovo, e al nuovo Nicholson, al nuovo Bissier.

Sono, purtroppo, pochi anni operosi. Ma i fogli luminosi, e capolavori pittorici come Doppio, 1952, dicono di un magistero che si nutre ancora di felicità inventiva tanto quanto di fertile, preziosa insoddisfazione creativa.

Nota. I testi cui si fa riferimento esplicito nel testo sono: N. Ponente, Atanasio Soldati, catalogo, Galleria Civica d’Arte Moderna, Torino, 6 novembre 1969 – 6 gennaio 1970; P.C. Santini, Atanasio Soldati, Edizioni di Comunità, Milano 1965; C. Carrà, La mia vita (1943), Abscondita, Milano 2002; C. Carrà, in “L’Ambrosiano”, Milano, 13 aprile 1932; O. Licini, Questionario del 1929 compilato da Osvaldo Licini per Giovanni Scheiwiller, in Un ricordo e un omaggio a Osvaldo Licini, catalogo, Galleria Lorenzelli, Bergamo, 18 marzo – 15 aprile 1969; R. Giolli, Grossi Manzù Occhetti Pancheri Sassu Strada, catalogo, Galleria Milano, Milano, 1 – 13 aprile 1930; E. Persico, Lucio Fontana, Edizioni di Campo Grafico, Milano, 1936; E. Persico, Tre del Milione, in “La Casa Bella”, V, 52, aprile 1932; A. Galvano, Preliminari ad un’analisi di Soldati, in “Letteratura”, 19-20, Roma, 1956; C.-E. Jeanneret e A. Ozenfant, Le Purisme, in “L’Esprit Nouveau”, 4, Paris, 1921; C. Belli, Presentazione di Soldati, in “Bollettino della Galleria del Milione”, 17, Milano, 16 novembre 1933; C. Belli, Kn (1935), Scheiwiller, Milano 1988; A. Soldati, Dichiarazione, in “Bollettino della Galleria del Milione”, 37, Milano, 20 febbraio 1935; F. Gualdoni, Aspetti dell’astrattismo geometrico 1930 – 1960, catalogo, Galleria Cardelli & Fontana, Sarzana, 12 luglio – 6 agosto 2002; A. Gatto, in A. Gatto e L. Sinisgalli, A. Atanasio Soldati, Edizioni di Campo Grafico, Milano 1934; L. Caramel, Atanasio Soldati, catalogo, Associazione Piazza Maggiore, Palazzi Comunali, Todi, 5 ottobre – 9 novembre 1986; P. Fossati, Pittura e scultura tra le due guerre, in Storia dell’arte italiana. Il Novecento, Einaudi, Torino 1982.