Manzoni
Le carte di Piero Manzoni, catalogo, Rocca Sforzesca, Soncino, 22 aprile – 28 maggio 1995, Charta, Milano, 1995
L’11 agosto 1956 il ventitreenne Piero Manzoni espone per la prima volta in pubblico alla “IV Fiera Mercato” al Castello Sforzesco di Soncino. Presenta una serie di impronte di oggetti intinti nel colore, chiodi forbici chiavi eccetera, che occupano il suo fervente lavoro di questo tempo primo, e che fanno dire a un anonimo recensore del quotidiano locale “La Provincia” d’un “personalissimo stile surrealista”. A quasi quarant’anni di distanza, ecco di nuovo le opere di Manzoni tornare in quell’antica sede, fatte orgogliose di blasoni internazionali ma ancora frementi dell’ansia sperimentale d’allora. Il progetto di questa mostra non consiste in una generica, e inevitabilmente encomiastica, resa d’omaggio a Manzoni da parte del paese natale. Piuttosto, vuole puntare sull’analisi, e sulla documentazione, d’un aspetto cruciale del suo lavoro, il rapporto che l’artista ebbe con la carta: meglio, con lo schema retorico e tecnico del cartaceo. Era, la cultura di Manzoni, cultura filosofica, impregnata di teoricismo, e di suggestioni scientifiche: radiante nelle curiosità e nelle attenzioni, mai stringibile alla nozione ormai lisa di disciplina dell’arte. Dunque, il suo fare non era fare d’opere, ma fare di picchi concettuali divenuti eventi: fatti: immagini, e discorsi sulle immagini. La carta, dunque: di codice disegnativo o scritturale, tipografico o simbolicamente teorico: le carte, d’una partita avventurosamente infinita dell’intelletto.

Manzoni, Alfabeto, 1959
Preistoria di Manzoni è la vocazione adolescenziale al disegno e alla pratica pittorica, che si esplica in una serie di privatissime prove – tra le case di famiglia di Soncino, Milano, Soprazocco, Albisola – di cui, in questo ambito, si è ritenuto di dar breve conto, a titolo indicativo. Se ne legga, al di là delle mille fragilità, il disincanto da subito acuto, il gioco degli scarti tra proprietà di linguaggio e deroga: quasi a prolusione d’uno sperimentalismo che diverrà, poi, ragione fondante anziché mera curiosità. È con la metà del decennio Cinquanta che l’attitudine di Manzoni si fa scelta estrema, determinazione ultima. Il clima di riferimento, né forse potrebbe essere altrimenti, è l’informale, soprattutto nella declinazione più apertamente intrisa di cultura surreale. Tra 1955 e 1956, s’affastellano prove variamente orientate, dalla calcinata matericità d’intonaco d’un olio inteso già come materia dell’evento pittorico, gurgitosa e tramata di segni senza destino, alla serie di lemuri organici d’una serie compatta di inchiostri e pastelli il cui biomorfismo echeggia Lam, e Matta; dalle impronte oggettive esposte a Soncino ad analoghe, più burrianamente bituminose, composizioni: sino alle prime shapes antropomorfe, ironicamente fantasticanti, come una deriva totemica di voglie ansiose di mito.
Frequentissimo è il rapporto con la carta, in questi anni. Non, va sottolineato, particolarmente problematico, ancora. Il foglio vale, in questo tempo, nell’accezione ordinaria di luogo confidente di esplorazioni vaghe e non preordinate, di ambito sperimentale di prima e non ufficializzata messa a fuoco di intuizioni. È, insomma, ancora un momento in cui Manzoni si cerca: né, a ben vedere, ha fretta di trovare, in termini di stile e modi: bensì, d’attitudini mentali.
I referenti primi indicati dalla critica sono ormai chiariti. Per vie dirette, Cobra e Spazialismo e Nuclearismo: più latamente, il versante surrealista ernstiano e Fautrier, del quale Celant ha precocemente indicato i plurimi influssi – in positivo o per reazione agonistica – sul giovane Manzoni. In ogni caso, assai più problematico è per Manzoni l’assetto teorico del lavoro, quel discorso sull’arte e sui suoi statuti di necessità che, pur esprimendosi, nell’air du temps, attraverso plurime dichiarazioni e manifesti (da Per la scoperta di una zona di immagini a Prolegomeni a un’attività artistica), mira in realtà non alla proclamazione di una posizione, bensì a un intransigente e ultimativo scavo alle ragioni prime del fare, oltre le retoriche – anche nuovistiche – correnti. In altri termini. La ricerca di “immagini quanto più possibile assolute, che, non potranno valere per ciò che ricordano, spiegano esprimono ma solo in quanto sono: essere”, passa in questo momento sia attraverso l’officina dell’immagine quanto in quella del pensiero, per corsi ora intersecantisi ora divergenti, ma tendenti all’unificazione ultima dell’esperienza autenticamente, radicalmente totale: che è, Manzoni intuisce oscuramente, l’unica arte davvero possibile ancora.

Manzoni, Impronta, 1960
Ecco, allora, le immagini antropomorfe sospese sullo spazio denso e sospeso che nulla più ha del proiettivo, ma che si dichiara “spazio di libertà”, superficie non precognita in cui s’esercita l’analisi iconografica agguerrita di Manzoni sui “mitologemi primordiali”, come scrive, con Angelo Verga e Ettore Sordini, nel testo che accompagna l’uscita alla galleria milanese Pater, nel maggio 1959. Il totem, la valenza simbolica, ma soprattutto la primarietà nuda ed evidente dell’icona. Questo cerca Manzoni, non lontano peraltro da certi esperimenti sulla sagoma organica di Lucio Fontana, il quale, non a caso, sceglie di “appadrinare” – è parola sua – proprio quella mostra da Pater. Sono, le evidenze biomorfe di questo tempo, le “presenze”, “presenze modificanti”, che il manifesto Contro lo stile, settembre 1957, cofirmatario Manzoni nella fase di massima identificazione con il Nuclearismo, proclama le uniche possibili dopo i monocromi di Yves Klein, il cui valore è, per una generazione intera, il “demoliremo anche le rovine” di cui scriveva Alfred Jarry.
Ma già il saggiare di Manzoni punta altrove, a una monocromia che superi senza soluzioni di continuità l’organicismo della sua attrazione per il Nuclearismo, e che metabolizzi, di fatto, le premesse dei catrami e dei bianchi materici del 1956-57. Certo, molto conta l’esempio di Fontana, e quello vicino di Klein. Ma, più, conta il suo intento di una padronanza materiale, della fisiologia oggettiva della pittura, come luogo di eventi propri, capaci di totalità e insieme puntuali: fatti, insomma, qualificati dal proprio essere, e null’altro. È, questa, la via attraverso cui non solo passa la demolizione dadaista del codice, ma anche la riappropriazione di un campo proprio dell’’agire, concretissimo e insieme altamente interrogativo del senso possibile. E il codice, non casualmente, è il pittorico tanto quanto il linguistico, ovvero i momenti concettualmente e culturalmente forti del differenziarsi dell’indistinto, dell’organizzarsi della convenzione mondana nel pensiero. In altri termini, costituisce il nucleo problematico di Manzoni l’emergenza e l’evidenza prima del segno, il suo sottrarsi alla sclerosi mortale della convenzione e lo sprigionarsi possibile di un nuovo orizzonte impreventivo di senso.
Solo talune carte dipinte, in questa fase, accompagnano il lavoro di Manzoni sull’achrome. La ragione ne è evidente. Egli non intende ritrovare una modalità del pittorico, ma una sorta di stato altro della convenzione del quadro, in quanto oggetto e in quanto superficie. Opera quindi sul limite retorico, continuamente contraddetto, della stesura, della scansione, della consistenza materiale e iconografica del quadro: che deve, però, essere quadro, possedere cioè uno statuto non ambiguo di partenza, proprio perché la partita delle deroghe si giochi in tutta evidenza. Alle sue spalle egli non sente solo la mistica straniata di Klein, allora, ma anche il Fontana dei buchi e insieme dei barocchi, e le “poetiche del muro” e delle impronte care alla nuova tradizione dell’ambiente romano, da Scialoja a Novelli: ovvero, una fondante questione d’intendimento della materia, e del suo darsi al mondo in immagine attraverso la riappropriazione del luogo superficiale. La carta, ora, non è per lui l’ambito disegnativo rispetto alla problematica pittorica ma, inevitabilmente, un altro diverso luogo materiale proprio. Manzoni identifica nel cartone, quindi, un ambito d’esperienza di fertile esplorazione: la cui consistenza tattilmente evidente consente cordonature che rappresentano un caso di azione materiale primaria e non spuria (com’è, nelle tele, la nuda scansione della cucitura), oppure l’intervento di colle, gesso, eccetera, in una complessa e fisicissima operazione di estensione degli esperimenti sulla tela: è un’oggettività che si enuncia “desolata presenza a sé”, scrive Leo Paolazzi presentando la mostra di Manzoni, Castellani e Bonalumi alla Appia Antica di Roma, aprile 1959, e che demarca l’artista dalle contigue esperienze europee del gruppo Zero, alle cui attività pur aderisce, come da quelle dei milanesi che si riconoscono nella rivista “Azimuth”, della quale egli stesso è, con Castellani, promotore.
Pari crucialità problematica, s’è detto, Manzoni attribuisce alla questione del segno artificioso, segno cioè non affiorante dal differenziarsi primo della materia, ma impresso per codice mentale che si fa figura del mondo. Ecco, dunque, le medesime superfici – la cartacea è ovviamente, per pari questione di appropriatezza, privilegiata: ma si pone in collisione di lettura con identiche prove eseguite su tela, nella contaminazione continua proprietà/deroga – farsi abitare da lettere alfabetiche tracciate con mascherine (curiosamente, ma non banalmente, secondo un procedimento che tiene del pittorico), oppure da una sequenza di fogli di calendario, ove il valore di numeri e lettere possiede uno standard convenzionale altissimo. Conta, anche in questo caso, un riferimento climatico, certo da collocare nel coevo ambito romano che da Novelli s’estende ai più giovani Schifano, Angeli, Kounellis, sul quale l’operare di Manzoni agisce da reagente.

Manzoni, Linea m 5,70, Linea m 18,99
Tuttavia, la primarietà del segno, la sua originarietà fondativa, assai più che il suo sedimento convenzionale, importa a Manzoni. L’intuizione delle linee nasce qui, come quella d’un segno insieme concreto e indistinto, preciso e illimitato, netto e ancora al di qua del mondo significativo. “Una linea si può solo tracciarla, lunghissima, all’infinito, al di fuori di ogni problema di composizione o di dimensione: nello spazio totale non esistono dimensioni”; e ancora: “perché non cercare di scoprire il significato illimitato di uno spazio totale, di una luce pura e assoluta?”. Così Manzoni in Libera dimensione, testo cruciale pubblicato nel secondo numero di “Azimuth”, gennaio 1960. La linea come segno fondamentale, dunque, perché in grado di porre in risonanza la totalità, e l’adimensionalità, dello spazio: riportando così l’arte a una condizione sorgiva, quella di chiave di volta non straniata dell’esperienza stessa.
La linea che corre, concretissima ancora nel tracciarsi sul rotolo di carta in assenza addirittura d’abilità (che è radicalizzazione non teatralizzata del “non professionismo” caro a Duchamp), infrange non solo il residuo ultimo di convenzionalità, ma schiude non banalmente la via a una pratica effettivamente totale intorno al codice mondano. La linea è, null’altro conta: neppure il mostrarla, tanto che il suo residuo di convenzionalizzazione possibile è l’indicazione, del tutto ininfluente, della misura, da pochi a migliaia di metri, sul contenitore che la ospita. La linea è, ma ciò che concettualmente vale è addirittura il suo mero enunciarsi, non il vedere/far vedere dell’arte: tanto che, di lì a poco, l’etichetta dichiarerà linee di lunghezza infinita. E i corpi d’aria ne sono l’equivalente plastico, anch’essi fisici ma indifferenti differenziali, achromes corporei al limite della dematerialità. “Corpi di luce assoluti” vogliono essere, sfere d’aria sostenute dall’aria, come nella Scultura nello spazio, 1960.
Ciò schiude un’altra questione, perfettamente congruente agli svolgimenti intuitivi e riflessivi di Manzoni, e insieme alla sua reinterpretazione del dada più radicale: il rapporto tra l’esistenza e la sua certificazione: certificazione, s’intende, non solo di provocatoria artisticità, ma d’esistenza tout court. Egli, dunque, affonda la sua analisi sul piano stesso dello iato tra cosa e identità della cosa, tra identità della cosa e sua evenienza corporea. E s’avvale non solo dei segni dell’arte, a cominciare dal codice ipertrofico della firma, ma anche dei segni del corpo, a cominciare da quello, insieme antropologico e burocratico, dell’impronta digitale. L’impronta digitale, monema fisiologico e insieme retorico dell’identità, val dunque la linea: è segno insieme concreto e astrattissimo, di accertata oggettività ma di qualità solo mentale. È segno che autentica una cosa al mondo (siano le uova d’un’arte di deliberata provvisorietà e consumabilità, che egli divora in un processo di implodente autoritratto, siano fogli che si fanno spazio appena irritato da una differenza sorgiva: del resto, ai corpi d’aria affianca le opere fiato d’artista, palloncini gonfiati da lui stesso); è, insieme, impronta del corpo tutto, che si dichiara sottraendosi alla pensabilità, per simbolizzazione insieme complessissima e banale; è, ancora, segno dell’arte, nell’iterarsi sul foglio a farsi spaziosità orientata, immagine.
Per converso, la firma apposta alle sculture viventi, con il corollario laborioso delle certificazioni di autenticità; e la base magica, sorta di dissolto monumento al corpo; e soprattutto l’estremo della merda d’artista, che riadotta la modalità della certificazione sul piano più simbolicamente fisiologico dell’idea di corpo: e si sa d’un progetto di fiale di sangue d’artista; queste esperienze dicono d’una sorta di iperesposizione, anche agente sugli spessori del feticismo, dell’individualità e dell’oggettività fisica all’atto stesso in cui se ne evidenzia l’assoluta insussistenza d’identità, l’impossibile eternità, e dunque il disincantato hic et nunc del vivere, dell’esserci: che è dell’artista, e di chi partecipi della sua partita vitale.
La partita di Manzoni si gioca ormai su molti tavoli, la cui sempre maggior varietà e l’ambizione planetaria (lo Socle du monde, il progetto d’una linea equivalente alla circonferenza terrestre sul meridiano di Greenwich) dicono che l’ansia struggente che ne guida la riflessione è, sempre, lo scarto insanabile tra infinito e limite, tra totalità e fatto.
In un breve ozio romagnolo ricostruito dal cugino Gian Ruggero Manzoni, eccolo operare in poche ore – siamo nel 1960 – su una serie di lavori che si estendono dagli ominidi alle linee agli achromes, in una sorta di processo febbrile continuo di fissazione e insieme interrogazione sul limite mortale del fare.
Nelle assai più meditate Tavole di accertamento, edite nel 1962 con Vincenzo Agnetti per Scheiwiller (segni, tra l’altro, dell’intensificarsi della sua curiosità per il modello editoriale, che era pionieristica nei volantini e nelle riviste che faceva stampare dall’amico Antonio Maschera, e ora si fa attenta al più complesso concetto di libro) egli raccoglie carte geografiche, lettere alfabetiche, una linea, impronte: ovvero, il repertorio fondamentale dei segni limite.
Viene, poi, il libro fatto di fogli trasparenti, 1963, Piero Manzoni. Life and Works, summa della sua avventura di artista totale, Capaneo dell’illimite.
Nota. Le citazioni sono tutte tratte dall’ampia ricostruzione documentaria di F. Battino, Piero Manzoni: 1933-1963, in F. Battino – L. Palazzoli, Piero Manzoni. Catalogue raisonné, Scheiwiller, Milano 1991, cui si rimanda per una biografia completa e anche per la ricostruzione di G.R. Manzoni della serie di opere realizzate nel 1960 dall’artista a Lugo di Romagna (ominidi, linee, achromes). Letture fondamentali di Manzoni sono G. Celant, Piero Manzoni, Prearo, Milano 1975, e G. Celant (a cura), Piero Manzoni, cat. Paris – Herning – Madrid – Rivoli, 1991-92.