Mainolfi
Luigi Mainolfi, in “G7 Studio”, VI, 3-4, Bologna, giugno 1981
Nel campo della giovane arte italiana, Luigi Mainolfi occupa un posto ben individuato e di grande rilievo. Accomunato a situazioni che, genericamente, appartengono all’area della new image, Mainolfi se ne differenzia per una caratteristica sostanziale: il suo è un operare non sulla pelle delle immagini, secondo interposti che ne determinano a qualsiasi titolo la manipolazione e la modificazione, ma piuttosto all’interno della forma, sulla scorta di un percorso complesso – e mai forzosamente intellettualizzato – che ne garantisca spessori assolutamente tipici.

Mainolfi, Nascita di Orco e di Elefantessa, 1980
Tutto ciò ha comportato finora, e comporterà a maggior ragione quando tra breve saranno trascolorate le formule critiche attualmente in voga, la necessità di dare del suo lavoro letture totalmente individuali, completamente svincolate da ogni griglia sistematica che ne possa imbrigliare e in qualche modo ridurre la potenza radiante: e che proprio per questo, rendano ragione della sua radicale scelta (tipica, peraltro, di molti scultori) di operare “fuori contesto”, misurandosi solamente con la qualità propria del lavoro. Ridotta, e raggrumata in un certo senso, la tensione esistenziale esplicita che ne motivava gli esordi negli anni Settanta, Mainolfi ha operato uno scarto significativo realizzando la Campana: all’esterno, organizzata in fasce che, tematicamente e nell’impianto formale, ne definiscono una sorta di memoria razionale, consapevole; all’interno, campita da graffiti divaganti che procedono per rarefazioni e addensamenti narrativi.
Sono, questi, frammenti di un aggirarsi circolare nelle regioni primarie della propria cultura, impastata di memorie arcaiche e umori autobiografici, a eccitare una fantasia affabulante che procede per concrezioni corpose, per pause sostanziose di un flusso incontrollabile razionalmente. Da qui scaturiscono l’Orco e l’Elefantessa che abitano il suo mondo visivo, le epifanie che emergono dai suoi gorghi di immaginazione e si fanno forma. Tuttavia non sono essi i veri protagonisti delle opere. Mainolfi non cade nel trabocchetto accattivante della narrazione, della resa tematica esplicita. Ciò che lo interessa veramente è instaurare un rapporto di profonda complicità con le materie, che gli permetta di riprodurre nel fare artistico gli stessi processi naturali, primari di generazione formale, quasi a volerne carpire il segreto magico della nascita.
In questo senso la sua non poteva essere che una scelta di scultura. Il lavoro con le argille, innanzitutto, è non solo un’opzione tecnica, ma il tentativo di eccitare e far manifestare quell’“intimità della materia” su cui si è mosso un intero filone della ricerca nata in area postinformale.
In secondo luogo, lo spessore fisico dell’operazione, in continuo bilico tra quantità e qualità, accentua quella fisionomia vagamente titanica di “faber”, di artefice di opere compiute, che Mainolfi ha individuato come vaso di decantazione e di distillazione di quell’urgenza espressiva radicale che ne ha motivato la scelta artistica. E ancora, la
nozione di opera, intesa come organismo plastico congruente, come “messa in forma” in grado di mediare completamente dentro il lavoro lo spettro delle valenze artistiche che lo hanno generato, è per lui (e per non molti altri oggi) l’unica possibilità aperta per chi non voglia cadere nelle ormai sterili atmosfere del vuoto esercizio linguistico.

Mainolfi, La campana, 1978-1980
È una ricomposizione iconica, la sua, che naturalmente non si ferma al livello della ristrutturazione epidermica, ma si schiude a ben più sostanziose sollecitazioni di un plusvalore espressivo. In effetti, questi sono i dati che emergono anche dalle carte, che rappresentano un capitolo a sé stante – e non secondario – della sua attività. Qui la dimensione è quella, tutta mentale, della sospensione fantastica, dell’andamento quasi onirico che non richiede atti formativi complessi, dell’abbandono a una fascinazione espressiva più sfumata e divagante. Ecco allora le testure grafiche fitte e mosse, svarianti per addensamenti e trasparenze, far affiorare le immagini, come memorie di emergenze ctonie (con richiami, che sarebbe troppo lungo analizzare, a certe linee colte dell’arte fantastica).
Ecco comparire il colore, riassorbito nella scultura dalla qualità dei materiali e qui invece adottato per conferire –insieme alla natura delle carte impiegate – uno spessore corposo e una precisa durata psicologica alla lettura dei lavori. Ecco, infine, gli inserti in cotto e le “spolverate” di terra, che stabiliscono un cordone ombelicale con la ricerca plastica maggiore, a rendere palese la continuità senza soluzioni della pratica di Mainolfi.