Milano. Storie di scultura, catalogo, Strada coperta di Luchino Visconti, Castello  Visconteo, Vigevano, 2003

Scorcio degli anni Cinquanta. La scultura milanese è, più che mai, a quel tempo “scuola”, milieu e tradizione, identità e interno, fervido dibattito.

I maestri sono tutti lì, punti di triangolazione che non valgono solo carisma, ma anche e soprattutto, in seno a quel dibattito, un modo, un’attitudine del pensiero che riguarda il fare ma, più, il concepire la ragione stessa della disciplina.

Marino Marini, Giacomo Manzù, Francesco Messina, Lucio Fontana; attorno, una compagine fitta di Jungen e no, in maturazione oppure, reduci da esperienze non banali, in fase di rinnovamento profondo: Floriano Bodini, Luigi Broggini, Carmelo Cappello, Alik Cavaliere, Sandro Cherchi, Agenore Fabbri, Luigi Grosso, Umberto Milani, Luciano Minguzzi, Mario Negri, Giovanni Paganin, Eros Pellini, Lorenzo Pepe, Giuseppe Scalvini, Genni Wiegmann Mucchi, Francesco Somaini, Vittorio Tavernari, Arnaldo e Giò Pomodoro. E’, ben si comprende, un panorama incombente, il quale tenderebbe a fare di un giovane autore, pur nella vis polemica tipica dell’ “io solo combatterò” di chi s’affacci sulla scena, un prosecutore più che un dissolutore.

Ormai è acclarata la trama di solidarietà e stime reciproche che, pur dalle barricate opposte di un ragionare alle volte persino fanatico, lega questi autori, non immuni mai, neppure quelli più avanguardisticamente laici, da una sorta di esoterismo della disciplina, di solidarietà di congrega, cui li avvince una identità accademica (la Brera non solo retoricamente grande di quella stagione) e, più, una rete di fitti rapporti quotidiani. Il Fontana che commemora con rispetto filiale la scomparsa di un Lodovico Pogliaghi, maestro della porta grande del Duomo milanese, e che con naturalezza s’affanna, nell’immediato difficile dopoguerra,  a creare condizioni espositive per un Messina; lo stesso Fontana che condivide ragionamenti d’atelier con uno Scalvini, lui caposcuola dell’avanguardia e l’altro fatto maestro del realismo più lucido: questo, per exempla, s’intende.

Bodini, Ritratto della madre, 1950

Bodini, Ritratto della madre, 1950

Brera, e gli studi d’attorno, questo clima avevano determinato, e perpetuavano. Ma nel volgere di pochissimi anni, mesi verrebbe da dire, altre misure occorre prendere. Ancora si va metabolizzando la lezione di maestri difficili, da Arp a Giacometti alla Richier, quando si riprende a parlare con prepotenza  di Dada, e ventate antidisciplinari, oppure adisciplinari, ripropongono senza possibilità d’elusione la ragione della scultura a fronte di quella dell’oggetto, la ragione non solo dell’informe, del crampo anestetico della materia, ma anche e soprattutto quella di una pratica che deroghi, per via d’ideologia ma anche per via di tensione poetica feroce, proprio quel saldo bagaglio disciplinare, quell’orgoglio altoartigianale, dal quale sino ad allora deroghe non erano state neppure da concepire.

Certo, più d’uno avverte che la pratica dissolutoria della disciplina, l’antisculturalità conclamata, i bruschi trascorrimenti oggettuali, la remitizzazione delle tecniche e dei materiali non ereditati dalla storia, non possono non apparire che come scorciatoie, quando non alibi. Modernità non può essere, in sé, una lamiera tagliata con la fiamma ossidrica: troppe volte scopo ne è non, come scrive Emilio Villa, “la grazia estrema nel crudele”, e neppure la liberazione di energie contigue al pittorico come meno limpidamente legge Lionello Venturi nel 1958: ma il nuovo tout court, la provocazione, un’ulteriorità che vuol giustificarsi di per se stessa.  Modernità non può essere a priori l’impiego di resine e plastiche e tecnologie progressive, e men che meno l’assunzione dell’objet trouvé dopo decenni di vulgate surrealiste non sempre di prima mano. E scultura non può essere l’ostensione disperata o cinica non importa di una cosa prelevata al mondo: altro, radicale, è lo straniamento da cercare.

Tuttavia ora si può – e qualcuno dice si deve – far ricorso a un possibile infinito e disciplinarmente indefinito, e affrontare senza remore e alibi una remise en question che riguardi, soprattutto, il cosa e il perché della scultura.

Forza dell’ambiente milanese, naturale polo d’attrazione d’un’area assai più ampia, è elaborare, nella singolarità forte degli autori che prendono a operare, risposte plurime, raramente appiattite sulla meccanica dei gusti decennali, attente piuttosto a mediare, della tradizione grande, le qualità inderogabili, ricostruendo gli apparati di una tradizione tutta calata nel moderno del Novecento.

Gio Pomodoro, Senza titolo, 1960

Gio Pomodoro, Senza titolo, 1960

Da qui, da una crisi che s’annuncia come fatale, ecco ripartire invece un processo identitario autorevole, ecco ricostituirsi una tradizione, un ventaglio di posizioni conviventi entro il perimetro, esso sì indiscusso, di qualcosa che si può, senza tema di forzature, chiamare ancora “scuola”. Meno, certo, conta la centralità di Brera, il cui carisma (anche se non il mito) tende man mano a trascolorare. Assai più, vale l’apporto di provenienze diverse che la Milano meravigliosa del decennio Sessanta va convocando, con sana forza aggregante: provenienze di autori che saranno grandissimi, come già è stato per i Pomodoro e per Minguzzi; e provenienze di stimoli, autenticamente cosmopoliti, mai di seconda mano, mai, soprattutto, accolti con lo zelo provinciale dell’epigonismo.

E’ in questa logica che si può riflettere sul panorama offerto dal susseguirsi delle generazioni che, da quel momento, hanno proseguito questa vicenda di scultura.

Vi vediamo il riaffiorare di una cospicua identità del figurare, inteso non semplice far di figura, ma interrogarsi sulle sembianze, e su quanto il retaggio stesso, classico, dell’arte, vi abbia peso e facoltà di connotazione. E’ un descrivere per trascrizione in cui la lingua conta più che il testo: e il suo scambiarsi segnali con la ben più complessa ragione del corporeo, della fisiologia della forma plastica, sulla necessità di corpo, sostanza, dell’immagine. E’ il caso di Giuseppe Bergomi, del suo giocare addirittura la partita insidiosa e bellissima della scultura colorata. E’ quello del visionario Paolo Borghi, faber antico per certi versi, straniato fulgido sognatore per altri.

Ma vi vediamo anche presente la ripresa, su un versante d’opzioni intellettuali opposto, della scultura “in costruendo”, figlia della tradizione neoplastica e concreta, che già nel secondo dopoguerra – e con il precedente strepitoso, nei Trenta, del lavoro di Fontana e Melotti: proprio Melotti, non a caso, ridiviene protagonista, oltre che “caso” culturale, nel corso dei Sessanta – sia pure con accentuazioni d’astrattismo, aveva dato ampia prova di sé. Casi diversi sono quelli  di un Gianfranco Pardi, che deriva più direttamente da poggiature bauhausiane, e quelli di protagonisti dell’arte esatta come Gianni Colombo, per il quale la cosa plastica non è scultura né oggetto, semmai processo di pensiero che si irradia in situazioni sculturali architettate; e Grazia Varisco, la quale cadenza un vide non filosofico, vero disegnare lo spazio, entro l’esattezza tersa del progetto. Disegnare lo spazio è anche quello di Paolo Minoli, che da erede perfetto del Munari concreto forza il codice sino alla dissoluzione metodologica, e a impennate di lucente emozione della geometria; ma anche quello di Rita Siragusa, che entro i propri nitori struttivi concentra una sensuosa, fastosa affettività.

Staccioli, installazione in Piazzetta Einaudi, Milano 1974

Staccioli, installazione in Piazzetta Einaudi, Milano 1974

Mauro Staccioli affronta, più apertamente, la querelle della forma minimale esentandosi dal complesso delle ontologie opache della minimal, bensì architettando le proprie forme per trovare e amplificare senso, in forma che si fa storia, e soprattutto idea attuata.

Ancora, ecco le strutture esatte, ma per esattezza sottilmente deviante, di Michele Festa, e il lavoro sempre più concentrato a far risuonare la spaziosità d’architettura introversa, di Pietro Coletta, melottiano nel far forma di musica, quanto sanamente brusco nel non cadere nelle trappole mentali della demateriazione. Così come Alex Corno, e per altri versi Claudio Borghi, e per altri ancora Giovanna Bolognini, autori tutti il cui gioco con il pondus delle materie è sempre in controcanto, a strutturare e porre in scacco la gravità, cercando un canto laddove aspetteresti clamore. Duro, ossoso, invece deliberatamente enfatico di peso e sostanza, di durezza e crudezza e asperità delle materie, è il lavoro di Salvatore Cuschera.

Altre vie, di un narrare per tensione e pressione interna delle materie, materie sorgive, quasi un biblico “io sono l’argilla”, ha aperto il magistero raro di Nanni Valentini, a buon diritto capostipite delle generazioni nuove d’arte con quel suo derivare dall’idea sorgiva del plasticare una ragione profonda di formatività. Un narrare, una facoltà di racconto insita nel formarsi stesso, che è per altre vie ossessione sottile in Alberto Ghinzani, autore di vere e proprie situazioni poetiche fatte corpo plastico, e per altre ancora in Arcangelo, approdato a una sorta di remitizzazione del rapporto atavico, verrebbe da dire magico, con le cose. Sulla loro via si è posta Paola Pezzi, in quel suo toccare lieve, incantato ancora, vero flusso di microemotività che, dentro a storie di forme, legge storie d’emozioni.

Sono stati dunque, questi decenni, intonati a un segno di pluralità, di complessità: soprattutto, di ritrosia a un dover essere fideistico o ideologico. E sono stati decenni in cui l’antica partita della scultura, la quale per nostra fortuna non ha alcuna intenzione di soccombere in baudrillardiano “oggetto perfetto”, ha ritrovato ciò che doveva, della tradizione e identità storica sua (si ama, la tradizione, non si rispetta, amava ripetere Strawinskij), e va continuamente maturando posizioni: oggi, essa sa bene, non necessariamente ulteriori, o nuove: ma vive, intense, autentiche.