Christo, l’arte e le sue leggi, in Christo. Progetti, catalogo, Galleria Arte e Arte, Bologna, 17 dicembre 2000 – 17 febbraio 2001

E’ destino comune, agli artisti della nostra epoca, di vedere accomunato per certi versi indissolubilmente il proprio nome a un gesto: un gesto che ne proclama insieme il tasso di originalità, talora di scandalo, ma insieme ne diviene lo stereotipo, una sorta di simulacro ipertrofico che dissolve le ragioni fondative del gesto stesso.

Marcel Duchamp e l’orinatoio, Lucio Fontana e il taglio, Yves Klein e il monocromo… l’elenco è lungo, e ad esso appartiene di diritto Christo, per paradosso uno degli artisti che più problematicamente hanno riflettuto e agito sulla soglia, nonché di identità, di legittimità della natura storica della cosa d’arte.

Christo, bon gré mal gré, è colui che impacchetta, l’autore di una sorta di coazione dipanantesi negli anni con un tasso ogni volta rinnovato di effetto scandaloso.

In realtà non è proprio così, né, gli va dato atto, l’artista ha contribuito più di tanto ad accreditare un luogo comune di tal fatta, ancorché assai vantaggioso sul piano della spendibilità mondana.

E’ ben vero, tuttavia, che l’effetto straniante delle sue prime realizzazioni, tra le quali figurano già nel 1958 le Packed Bottles, e nel 1961 opere come Two Wrapped Chairs (e molti ricordano il leggendario Guido Le Noci, patrocinatore tra i più attenti del giovane Christo, fotografato a bordo di una Vespa regolarmente impacchettata, nel 1963[1]), portava sin da subito le stigmate del gesto radicale destinato a divenire un luogo topico dell’immaginario dell’avanguardia. Assai più, ad esempio, di opere consimili e coeve – penso ad esempio alla Curtain-Wall of Oil Barrels che invadeva con i suoi 240 opachi elementi la parigina rue Visconti nel giugno 1962 – alle quali forse nuoceva quel rifuggire in modo enfatico alla dimensione spettacolarmente oggettuale, in favore di una ostensione opaca, dura, d’irrevocabile anesteticità; e, per altro verso, quel tentare senza mediazioni la via di una illegalità non ritualizzata, bensì agente in modo effettivo rispetto alle rules and regulations sociali, quasi a voler smentire il disincanto di un Theodor Adorno, secondo il quale “ogni opera d’arte è un delitto mercanteggiato, e cioè ridotto a proporzioni più ragionevoli”[2].

Ebbene, il primo punto sul quale svolgere talune considerazioni, ora che il percorso di Christo può offrirsi legittimamente a ricapitolazioni e bilanci, è la congruità, ideologica e inventiva, delle operazioni di impacchettamento con altre, come le pareti occlusive di bidoni, oppure esibizioni fredde e di sottile deriva oggettuale come Showcase, 1963, e i consimili negozi immaginari, tra vetro e acciaio e carta e luci elettriche anticipatori forse di talune ontologie minimal, e certamente di molte delle avventure installatorie dei giovani tedeschi e britannici.

Christo cresce nel clima del montante Nouveau Réalisme, al quale Restany aggrega figure operativamente diverse, accomunate da un intendimento dell’oggettività, e del rapporto (controverso, problematicamente ricchissimo) tra oggetto e opera d’arte, tra codice ovvio e riconfigurazione comunque estetica, che le conduce a operazioni d’un effettivamente rideclinato dadaismo. La vicenda ha inizio alla milanese galleria Apollinaire di Le Noci nel maggio 1960 con una mostra che allinea Arman, Dufrêne, Hains, Klein, Tinguely, Villeglé, per svilupparsi a Parigi in ottobre con la mostra 40° au dessus de Dada, alla galerie J, sempre a cura di Restany. Il gruppo si estende a César, Christo, Deschamps, Raysse, Rotella, Spoerri, Niki de Saint Phalle[3].

Notevole è osservare come, fra i tratti accomunanti molti di questi questi autori, sia l’approccio duplice allo statuto di codice dell’oggetto, con tutto quanto ciò comporta sul piano del gusto, e insieme alla sua capacità di metamorfizzarsi in una sorta di autostraniamento: uno straniamento, cioè, prodotto per scarto retorico anziché per ridefinizione e reimpiego funzionale ed estetico.

Le modalità della deformazione, della accumulazione, dell’iterazione sino alla perdita di senso, del trascolorare funzionale, secondo procedimenti che si guardano con attenzione dal ricorrere alle clausole facilitanti del Kitsch – Kitsch, invece, al quale attinge a piene mani la strategia dei New Realists e dei Pop statunitensi, anche in casi “alti” come quelli di Johns e di Oldenburg – e preferiscono una sorta di metafisica fisiologica della cosa, trascorrono da un artista all’altro divenendo una esperienza radiante, dagli sviluppi plurimi.

Ebbene, nell’operare del Christo degli inizi la pratica dell’accumulazione (i bidoni) vale quella dell’impacchettamento, il quale in prima istanza è occultamento della fisionomia della cosa e accelerazione palesemente, arbitrariamente, disfunzionale, che agisce sull’identità stessa dell’oggetto, pur senza – e ciò è problematicamente non secondario – modificarla in alcun modo. Va peraltro annotato che indicazioni di occultamento e scacco funzionale agiscono anche nel caso dell’accumulazione di bidoni, su una scala d’esperienza fisica e oggettiva che è quella dello spazio convenzionale di vita, la pubblica via[4].

Tuttavia sin dall’inizio si nota un’attenzione tutta particolare – che crescerà sino a divenire un punto forte della pratica dell’artista – verso le componenti di omologazione estetica che si esprimono, nel sentire ordinario, per vie in fondo non dissimili. Pare in altri termini chiedersi Christo: se parliamo di oggetto estetico a proposito dell’opera d’arte, e ciò avviene in un momento in cui la riflessione dell’avanguardia va concentrandosi sulla natura anche oggettiva dell’opera, in un percorso alle cui origini sono Duchamp tanto quanto il Cubismo dei papiers collés e degli assemblages, in che modo l’operazione di messa in scacco differisce se a esserne coinvolta è, anziché la sfera dell’ordinario, quella convenzionalmente estetica?

Christo, Progetto per Piazza Duomo Milano, 1970

Christo, Progetto per Piazza Duomo Milano, 1970

Che l’impacchettamento, soprattutto nelle dimensioni non ambientali praticate agli inizi, citi per molti versi l’Enigme d’Isidore Ducasse di Man Ray, oppure l’appena meno noto disegno di Moore del 1942 in cui un gruppo di astanti osserva una sorta di totem imballato, è fatto da ascrivere specificamente all’attenzione di Christo, poi largamente manifestatasi nei suoi tipici eventi di larga scala, per la problematicità dello scambio concettuale continuo, una sorta di ambiguo gioco di specchiamenti, tra codice di retaggio artistico e codice di identità banale, tra esperienza ordinaria ed esperienza simbolica, in una gamma di gradazioni sulla cui consapevolezza è dato compiere analisi.

Ebbene, da questo punto di vista non può essere letto che come perfettamente congruente il fatto che, a lato della partecipazione alla Documenta IV, 1968, con 5600 Cubic Meter Package, una sorta di macroscopico e perfettamente inutile pallone sonda sul quale si proietta la suggestione che attribuiamo, a prescindere da conoscenze e implicazioni funzionali, a oggetti affini, dai tempi di Jules Verne a quelli dell’epopea spaziale (va ricordato che già nel 1966 l’artista si era presentato al van Abbemuseum di Eindhoven con operazioni affini)[5], egli punti con decisione inflessibile sul tòpos per eccellenza dell’identità artistica, il museo, in quanto ambito della “Grande Garanzia Culturale”, dell’identità estetica per contratto sociale; ed esso stesso, nella sua natura architettonica, monumento, ricco di una stratificazione impareggiabile d’umori simbolici.

Nel 1968 Christo impacchetta interamente la Kunsthalle di Berna; l’anno successivo è la volta del MoCA di Chicago[6]. I primi grandi packages, sono, dunque, luoghi canonici dell’arte, sottoposti a un processo di compressione simbolica, più ancora che funzionale (l’istituzione continua a essere perfettamente agibile) che insieme li deestetizza e li riestetizza, li cancella, per certi versi, ma così facendo ne fa affiorare a una evidenza estrema, critica, il tasso di consumo sclerotizzato di identità; a un altro livello, ciò prefigura la sottile opera di mise en abyme concettuale di un contenitore che deve la propria monumentalità al contenuto, ma tanto quanto il contenuto lo deve all’identità del luogo.

Scrive in quegli stessi anni un altro dissolutore di luoghi comuni, Robert Smithson: “Nei musei, come nei ricoveri e nelle prigioni, ci sono delle celle e dei quartieri, delle sale neutre chiamate ‘gallerie’. Una volta collocata in questo luogo, l’opera perde la propria funzione per non essere altro che un semplice oggetto trasportabile o una superficie sconnessi dal mondo esterno”[7].

Da qui muovendo, Christo più e più volte fa mostra di considerare l’ambiguità tra codice estetico, logica monumentale e identità fisica uno dei nuclei fondanti del proprio percorso: per esempio lavorando, nel citato caso milanese, su due monumenti di perlomeno controversa qualità estetica (uno dei quali, tra l’altro, dedicato a Leonardo da Vinci…), intervenendo nel 1974 sulle mura antiche a Roma, e a ben vedere anche nell’annosa e per mille altri versi controversa vicenda del Reichstag di Berlino[8], in una stagione di rifondazione che non può cancellare antichi echi, come quel “ripulire gli ultimi settori della cultura” di cui Hitler menava vanto nel 1937.

Quando con Wrapped Coast, 1969, realizzata a Little Bay in Australia, la sua iterativamente ossessiva operazione prende a misurarsi con una esplicita dimensione ambientale, Christo mette in gioco nuovamente un duplice riferimento: da un canto il contesto proprio, una sorta di testualità naturale sottoposta a una atipica intromissione d’artificio; dall’altro, e indisgiungibilmente, il non meno problematico concetto di bellezza naturale: a proposito della quale operare sull’ambigua nostra coscienza della pulchrizzazione – cartolinesca, turistica, educlorata da un implausibile technicolor mentale – dell’ambito naturale, e dell’effettivo antagonismo che rivolgiamo alla sostanza di fatto indifferente della natura[9].

Qui per estensione l’artista chiarifica, ancor meglio che negli interventi sui musei, che il cuore della sua modificazione degli statuti correnti opera per paradosso, più che sull’evidenza di larghissima scala, sulle strategie di intentimento e di ricezione del pubblico. L’idea di opera d’arte, l’idea di monumento, l’idea di paesaggio naturale, e l’esperienza che da tale idea ci attendiamo discenda è, in effetti, in perfetta eredità duchampiana, il punto in questione. Da un punto di vista soggettivo, Christo immette una gamma ulteriore di riflessioni, da questo punto in poi: a cominciare dall’ambiguità ricca di implicazioni del suo stesso ruolo di artista imprenditore, il quale assume ed annette a un discorso d’arte logiche, pratiche, modalità, metodologie che appartengono per appannaggio storico alle pratiche “utili”, l’ingegneria in testa.

Da tale punto di vista il processo di messa a punto della sua operatività è rappresentato dal Valley Curtain, realizzato tra il 1970 e il 1972 a Rifle, in Colorado[10]. L’effetto visivo prodotto dalla grande vela di nylon poliammide tesa tra i due lati della gola presenta due livelli almeno di lettura. Da un lato è l’impatto spettacolare, che modifica il contesto naturale con una immissione insieme violenta – perché assai connotata sul piano estetico – e insieme dolce, dal momento che imprime una modificazione non irreversibile allo scenario ambientale. Christo sovrappone e integra, con effetto di amplificazione, la monumentalità artificiosa della propria struttura (ma quanta parte vi ha il vento, ovvero un altro protagonista naturale) e quella retorizzata del canyon, oggetto di una violenza dello sguardo – Baudrillard parlerebbe di “meretricio dello sguardo” – che ne riduce i connotati a schema convenzionale e logoro di una idea, essa sì artificiosa, di natura. A un altro livello, diviene fondamentale l’impresa, il lavorio tra ingegneria (ivi compresa la costituzione di uno staff a tutti gli effetti imprenditoriale), burocrazia, questioni legali, promozione economica – sino a trasformare, aspetto assai interessante, gli stessi progetti in sorte di certificati azionari dell’impresa – che fa dell’artista non un oggetto del mercato, bensì il soggetto di una economia dell’arte, e non solo, dal profilo fervidamente atipico: l’opera in sé non è possedibile da alcuno, è provvisoria, e sopravvive fondamentalmente come mito e tòpos memoriale, in ambiguo rapporto con i documenti (da taluno a loro volta feticizzati: e anche questa è perfetta interpretazione duchampiana) che ne restano, le foto, i libri, eccetera.

Valley Curtain funge da premessa all’operazione esemplare, soprattutto dal punto di vista di questa laicizzazione critica dell’artista come imprenditore d’un sogno, alla quale Christo pone mano subito dopo, il Running Fence. Realizzato tra il 1972 e il 1976 a segnare del proprio passaggio le contee di Sonoma e Marin, in California, per un totale di 165.000 yards di nylon bianco teso a vela, il lavoro, destinato a una rapidissima distruzione, ha un costo complessivo di tre milioni di dollari[11]. Al di là del suo titanismo, bilanciato dalla perfetta inutilità dell’operazione, il Running Fence riesce a innescare meccanismi critici in un ambito che nel tempo altre posizioni e provocazioni avevano solo scalfito: quello della non possedibilità effettiva dell’opera, e quella della sua effettiva illegalità, che giunge a porre in discussione non solo le convenzioni stabilite dal bon ton sociale, come era nell’esprit de scandale classico, mirante a épater ma non a toccare princìpi cruciali di convivenza, ma dallo stesso apparato legislativo: a cominciare dal sancta sanctorum del diritto di proprietà terriera, con il quale tutto il progetto, nella sua fase progettuale e poi realizzativa, fa continuamente i conti, a livello privato quanto pubblico. Lo stesso Christo chioserà, ripetto a tali aspetti, che “rientra perfettamente nel sistema americano se mi comporto illegalmente”: giungendo, attraverso un approccio iniziale a mere convenzioni pratiche ed estetiche, a penetrare uno dei gangli della stessa identità nazionale statunitense[12].

Giunto a tal punto, per certi versi a fare i conti definitivi con l’apparato legale e burocratico eretto in rappresentanza dei luoghi comuni per eccellenza, Christo non può non rilanciare, concependo progetti ancora più ambiziosi tanto in termini dimensionali, quanto complessivamente imprenditoriali. Se, da un lato, egli può far conto sul capitale simbolico accumulato, una notorietà internazionale che gli guadagna solidarietà e per certi versi può facilitarne le operazioni, d’altro canto egli opera subito un aumento della posta concettuale in gioco, tale da ritrovarsi, nuovamente, a percorrere una frontiera collettivamente nevralgica.

E’ il caso, ad esempio, delle Surrounded Islands cui lavora tra il 1980 e il 1983 a Biscayne Bay, Florida, circondando le isolette con polipropilene rosa galleggiante[13], secondo modalità non dissimili da quelle adottate in seguito per l’ancor più ipertrofico The Umbrellas[14]. E’ il caso, soprattutto, del lavoro sul Reichstag berlinese, che implica una serie di valori e di segni di identità che provocano una effettiva irradiazione circolare di reazioni, tra consenso e dissenso radicali, e dell’impacchettamento del parigino Pont Neuf, compiuto nel 1985[15].

Il fatto che si passi dal livello del monumento di qualità artistica, oppure dal contesto naturale – che l’immaginario collettivo può convenzionalizzare “in distanza” – a quello di un luogo urbano fortemente connotato, che compensa l’indifferenza estetica con l’essere segno riconosciuto e sedimentato di una identità collettiva – nazionale, nel bene e nel male, il Reichstag, cittadina, ma del mito di Parigi, nel caso del Pont Neuf – comporta, infine, ulteriori sostanziosi momenti critici. Del caso parigino è testimonianza preziosa un lavoro sociologico condotto da Nathalie Heinich, che dimostra come, al di là della identificazione o meno dell’intervento di Christo come artistico, esso ha comportato in primo luogo una costrizione del pubblico a ogni livello, l’amministrazione come i passanti, i bouquinistes come la pubblicità dei grandi magazzini, a non mantenersi in uno stato di prudente neutralità, nel timore di essere ascritti, come diceva il grande Daniel Henry Kahnweiler, agli “sciocchezzai del 2000”, bensì ad appropriarsi concettualmente, a elaborare, l’evento; in secondo luogo, ha innescato una pluralità di meccanismi di risimbolizzazione, di ingaggio culturale, indipendenti dall’approvazione o dal rifiuto e concentrati ad un alto grado di intensità sulla coscienza del rapporto con i segni della propria identità territoriale[16].

Entrano in gioco, in modo conflittuale ma non puramente antagonistico, quelle che Durkheim indicava come gerarchie di valore. Ebbene, Christo di queste gerarchie di valore non si è fatto interprete, le ha semplicemente attraversate con i suoi gesti macroscopici e lievissimi, facendo spettacolo delle nostre assunzioni di consapevolezza. E il suo guado, lavoro dopo lavoro, prosegue.

 

 


[1] L’immagine figura ora sulla copertina di F. Gualdoni – S. Mascheroni (a cura), Miracoli a Milano. 1955/1965. Artisti Gallerie Tendenze, catalogo, Museo della Permanente, Milano 2000, ove si legge una rievocazione del clima del tempo, oltre che della vicenda specifica della galleria Apollinaire.

[2] T. Adorno, Minima moralia, Einaudi, Torino 1991.

[3] Una ricostruzione partita della vicenda in P. Restany (a cura), Nouveaux Réalistes. Anni ’60. La memoria viva di Milano, catalogo, Mazzotta, Milano 1997; Idem, Nuovo Realismo, Prearo, Milano 1973. Un inquadramento storico complessivo in F. Gualdoni, Arte in Italia 1943-1999, Neri Pozza, Vicenza 2000. A Milano nel 1970 si tiene un festival di nouveaux réalistes nel decennale del gruppo: sono di questo momento le operazioni milanesi di Christo come l’impacchettamento del monumento a Vittorio Emanuele in piazza Duomo, e del monumento a Leonardo da Vinci in piazza Scala.

[4] Sulla prima fase del lavoro dell’artista, cfr. Christo, testi di D. Bourdon, O. Hahn, P. Restany, Edizioni Apollinaire, Milano 1965. Va segnalato che Restany introduce il primo catalogo dell’artista, per la personale alla galleria Haro Lauhus di Colonia, 1961. Inoltre, L. Alloway, Christo, Harry N. Abrams, New York 1969; D. Bourdon, Christo, Harry N. Abrams, New York 1970.

[5] Christo: 5600 Cubic Meter Package, foto di K. Baum, Verlag Vort und Bild, Baierbrun 1968; Christo, testo di L. Alloway, catalogo, Stedelijk van Abbemuseum, Eindhoven 1966.

[6] Christo. 12 Environments, testo di P. Restany, catalogo, Kunsthalle, Bern 1968; Christo. Wrap In Wrap Out, testo di J. Van der Marck, catalogo, MoCA, Chicago 1969. E’ notevole osservare che non sempre gli intenti operativi dell’artista trovano condivisione: W. Rubin (a cura), Christo Wraps the Museum: Scale Models, Photomontages, and Drawings for a Non-Event, catalogo, MoMA, New York 1968.

[7] R. Smithson,

[8] Della vasta letteratura sull’operazione, cfr. almeno Christo. Project for Wrapped Reichstag, Berlin, testi di W. Schmied e T. Buddensieg, catalogo, Annely Juda Fine Art, London 1977; M. Cullen – W. Volz (a cura), Christo. Der Reichstag, Suhrkamp Verlag, Franfurt/Main 1984; J. Baal-Teshuva (a cura), Christo. The Reichstag and Urban Projects, foto di W. Volz, Prestel Verlag, Munich – New York 1993; S. Philippi (a cura), Christo & Jeanne-Claude. Verhullten/Wrapped Reichstag, Berlin, 1971-1995, foto di W. Volz, Benedikt Taschen, Köln 1995.

[9] Christo: Wrapped Coast, One Million Square Feet, foto di Shunk-Kender, Contemporary Art Lithographers, Minneapolis 1969. Cfr. per affinità S. Yard – S. Hunter, Christo: Ocean Front, foto di G. Gorgoni, Princeton University Press, Princeton 1975.

[10] Christo: Valley Curtain, foto di H. Shunk, Verlag Gert Hatje, Stuttgart 1973. Un’ampia analisi anche in D. Laporte, Christo, Art Press/Flammarion, Paris 1985.

[11] W. Spies, Christo: The Running Fence, foto di W. Volz, Verlag Gert Hatje, Stuttgart 1977; Christo: Running Fence, testi di C. Thomkins e D. Bourdon, foto di G. Gorgoni, Harry N. Abrams, New York 1978.

[12] Un resoconto vagamente epico dell’operazione, ma che affronta lucidamente tali aspetti, è C. Thomkins, Running Fence, in “The New Yorker”, New York, 28 marzo 1977, ora in Vite d’avanguardia, Costa & Nolan, Genova 1983. Fondamentale lettura è inoltre B. Chernow, XTO + J-C. Christo und Jeanne-Claude, Eine Biografie, Verlag Kiepenheuer & Witsch, Köln 2000.

[13] Christo: Surrounded Islands, Biscayne Bay, Greater Miami, Florida, 1980-83, testo di W. Spies, foto di W. Volz, Dumont, Köln 1984; Christo: Surrounded Islands, Biscayne Bay, Greater Miami, Florida, 1980-83, testi di D. Bourdon, J. Fineburg, J. Mulholland, foto di W. Volz, Harry N. Abrams, New York 1985; cfr. inoltre Y. Nakahara, Christo: Works 1958-83, Sogetsu Shuppan, Tokyo 1984.

[14] Christo and Jeanne-Claude, The Umbrellas, Japan-USA, 1984-1991, testi di Jeanne-Claude e M. Yanagi, foto di W. Volz, Benedikt Taschen, Köln 1998.

[15] Christo: The Pont Neuf Wrapped, Paris, 1975-85, testi di D. Bourdon e B. de Montgolfier, Harry N. Abrams, New York 1990.

[16] N. Heinich, Christo à Paris: emballé, pas emballé?, in L’art contemporain exposé aux rejets, Jacqueline Chambon, Nîmes 1998. Una lettura complessiva recente è M. Vaizey, Christo, Poligrafa, Barcelona 1990.