La cravatta e Joyce, in L’eroe borghese. Temi e figure da Schiele a Warhol, catalogo, Rocca di Vignola, Palazzina dei Giardini di Modena, 9 aprile-16 luglio 2000

“Siamo gli eredi legittimi della cultura borghese; un erede può detestare i suoi genitori, ucciderli, se crede, ma non è mai indifferente alla sua eredità”: MacDonald, Masscult & Midcult, 1960 (1)

1.  Elogio di Cesare Fantelli

Cesare Fantelli è onesto e operoso. Crede in Dio, ama l’Italia neonata e la propria famiglia. Nella sua bottega di Porta Ticinese ogni giorno scende decine di volte in cantina: spilla vino nobile per l’avvocato e per l’ingegnere: forse, qualche volta, aggiunge vino di Salento aspro e forte a ravvivare un Oltrepo un po’ spento, o ingentilisce con l’acqua una barbera troppo corpacciuta. Tant’è. Il denaro però lo suda, a bottega dall’alba al tramonto, severo ma giusto con i salariati, e niente distrazioni (all’osteria, proprio lui, non di certo!).

E i soldi lì, a garantirgli la benedizione per la sua condotta commendevole: soldi che vanno a far solida la casa e la vita, ma anche in giusta e non occhiuta elemosina. Perché si deve, perché è giusto: che si sappia pure.

Da vinàtt a mercante di vini, è una storia, e  la carità la fa chi può a chi non può. Col parroco è d’accordo su tutto. Al suo funerale – lui vedovo e senza prole – i pleurants saranno mille poveri, ciascuno assegnatario d’un cero e di due lire (le due lire alla fine delle esequie, però). La sua tomba sarà un’urna al Monumentale, con colonne e leoni, e i suoi averi andranno a far ricca la Ca’ Granda, l’ospedale, “il glorioso albergo de’ poveri di Dio sotto Francesco Sforza, duca quarto di Milano”.

La Ca’ Granda commissiona, come d’uso, un ritratto del benefattore: di “effigies et imagines naturalissime viveque representationis” dice il Capitolo del 1464. Eleuterio Pagliano, ingegno tra i più brillanti della città, decide per il “naturalissime”: siamo nel 1877: maniche di camicia  e panciotto marcato dalla catena dell’orologio, in cantina, Cesare Fantelli appare ciò che è stato, tra una botte e una brocca, in mano una mezzetta di rosso.

Puntuto è lo scandalo di chi ben pensa. Il Cusani scrive a caldo: “I fautori del realismo in pittura, certo approveranno d’aver rappresentato il defunto nel pieno esercizio del suo mestiere: all’opposto quelli che sostengono doversi nobilitare i concetti e non ripudiare l’ideale fonte di bellezza per tutte le arti, saranno d’avviso contrario” (2).

“Quel Claes che era morto per la causa della libertà gandense, quell’artigiano di cui ci si farebbe un’idea troppo modesta se lo storico trascurasse di dire che possedeva all’incirca quarantamila marchi d’argento guadagnati fabbricando le vele necessarie alla potentissima marina veneziana, aveva avuto per amico il famoso scultore in legno Van Huysium di Bruges. Parecchie volte l’artista aveva attinto alla borsa dell’industriale. Qualche tempo prima della rivolta dei Gandensi, Van Huysium, divenuto ricco, aveva segretamente scolpito per il suo amico un rivestimento in ebano massiccio, in cui erano rappresentate le scene principali della vita di Artewelde, il birraio che era stato per un momento re delle Fiandre”: Balzac, La ricerca dell’assoluto,  1834 (3).

Rembrandt, Jan Six, 1647

Rembrandt, Jan Six, 1647

2.   Nobilitare i concetti

Filippo Melantone, sapiente e figlio di un armaiolo, è, a ben vedere, antenato illustre del nostro mercante di vini: così in Dürer. E con lui l’Erasmo del Cavaliere, la morte e il diavolo.  Nobile, poi mercante di sete, è lo Jan Six di Rembrandt; aristocratici del puro intelletto sono Abraham Francen, farmacista, filosofo, collezionista, e l’avvocato Jacob Haaringh. Più pragmatico e non meno intraprendente è Clement De Jonghe, mercante di stampe (quanta differenza con il Martin Folkes di Hogarth, delineato un po’ rapace con istinto già dissolutorio).

Uomini di virtù, sono, ma d’un’altra virtù. Ingegno, capacità, coraggio: e consapevolezza di libertà. La virtù di dentro, opposta a quella d’apparato, e di parata, che la storia va svelando ormai non congenita.

C’è chi ambisce alla nobiltà: i salotti si vogliono gallerie di palazzo: e talora, davvero, l’arte nobilita.

Esposizione 1829: 1) Filippo Maria Visconti che restituisce la libertà a due re di Aragona e di Navarra prigionieri dei genovesi, per il M.se Antonio Visconti Ajmi; 2), 3), 4), 5) Ritratti mezze figure, grandi al vero per Seufferheld, Bussi, C.ssa Borgia, D.ssa Mariella Bassi; 6) Ritratto mezza figura della Sig.ra Mylius; 7) Ecce homo, mezza figura, grande al vero, per il Sig.r Radaelli; 8) Beata Vergine Immacolata mezza figura per il Sig.r Rusconi; 9) Ritratto di Donna mezzo al vero per la Sig.ra Cristina Piazzoni; 10) Ritratto per il Sig.r ingegnere Delmati”: Hayez, Le mie memorie, 1869-1875 (4).

Ma c’è chi fa vanto della propria diversità. E chiede un’arte che questa diversità racconti. Nei modi, nelle pose; nelle fattezze, addirittura, dei volti. Certo, la tradizione è più nordica che nostra. Diversa è la nozione stessa di vero, la capacità dell’occhio di far concussione non solo dei dati del vedere, ma anche dello spirito della visione (5).

Diverso, però, è soprattutto l’ethos. Si possono scomodare Max Weber e Norbert Elias e scaffali interi di letteratura sull’esser nobile e l’esser borghese. Non tien conto, qui.

Sta il fatto che rari e diseredati sono i casi di taluni pittori, dal Moroni al Ghislandi, che come Goya e Hogarth sprezzano e infine insolentiscono il modello rappresentativo nobiliare: “nobili e nobilucci bergamaschi (sempre gran bevitori e cacciatori!); giudici parrucconi; servitori fedeli; dame ‘di maneggio’; spiantatissimi letterati (come lo straordinario Bruntino!); ecclesiastici d’ogni ordine e grado; e fino artigiani, barbieri; e l’allegro ‘spazzacamino’. […] Peccato che Voltaire o Diderot non venissero a sapere, oltre che del Goldoni, anche del Ghislandi” (6).

L’honnête homme, alle latitudini cattoliche – e per tradizione spagnola, certo – s’ammanta di presunzioni aristocratiche, enfia il proprio status insieme, pare,  pentendosene. Come se, davvero, la “bellezza ideale” di cui troppo si dice fosse, tout court, il retaggio d’una classe la quale, per concessione solidale della Chiesa, detenga la formula bello/vero/bene.

“Temperate, o giovani studiosi, temperate a religion e virtù i vostri compassi, i vostri pennelli, i scalpelli vostri”, ammonisce i virgulti bolognesi, ancora nel 1847, Amico Ricci. Qui, religione e virtù, la virtù degli altri. Al Nord, gli homines novi. Quelli che si sanno classe, e comunità, che riconoscono la propria identità attraverso un ridefinito tessuto di virtù civiche, incorniciato e amplificato dagli apparati esteriori che sono machinae spettacolari anch’esse: ma fatte per convincersi e convincere, non per stupire. Il retaggio di Spagna lascia, anche qui, un senso alto del visivo, ma reso infine perfettamente domestico, privato soprattutto.

“FIGARO, barbiere di Siviglia: abito da majo spagnolo. Il capo è avvolto da una reticella; cappello bianco con nastro colorato intorno alla cupola; fazzoletto di seta molto allentato intorno al collo; panciotto e brache di raso, con bottoni e asole frangiate d’argento; una grande cintola di seta; giarrettiere annodate con nappe che pendono sui polpacci; giacca di colore sgargiante, con grandi risvolti della stessa tinta del panciotto; calze bianche e scarpe grigie”: Beaumarchais, Il barbiere di Siviglia, 1775 (7).

Quanto Manet, ma quanto poco pittoresco (“Ci piace ritrovare l’uomo accanto o al posto dell’eroe”, ricorda Eugène Delacroix a cavallo di metà Ottocento) (8).

L’abito dice, soprattutto, ciò che non è l’acuto arguto intrepido Figaro: acuto arguto intrepido, beninteso, “all’idea di quel metallo / portentoso, onnipossente”, come cadenza Cesare Sterbini per Gioacchino Rossini. Non è circonfuso di pomposa inanità, soprattutto. In fondo è il suo interlocutore, il conte, quello costretto al disguise.

Confrontare Figaro con le figure di Rembrandt. La sobrietà del vestire, la confidenza con la misura della stanza, gli oggetti tutti toccati dalla mano e tutti a portata della mano, e dello spirito. E quella luce che non esalta, non fa mise en scène, ma bagna lieve le cose, le patina come d’un velo d’affetti  emanante dal personaggio. Certo non è la luce alta di Siviglia, non è la “facciata bianca, / cinque parrucche nella vetrina, / sopra un cartello “Pomata fina”, / mostra in azzurro alla moderna / v’è per insegna una lanterna” – ancora Sterbini – ma il senso delle cose, degli oggetti che non valgono attributi, è lo stesso.

Hayez, Ritratto della contessa Luigia Douglas Scotti d'Adda, 1830

Hayez, Ritratto della contessa Luigia Douglas Scotti d'Adda, 1830

3.  Quasi ogni assurdo

“Il costume, e la moda con tutto questo col tempo riconcilieranno quasi ogni assurdo qualunque siasi all’occhio, o faran che non vi si abbadi”: William Hogarth, L’analisi della bellezza, 1753 (9).

Nella traduzione italiana settecentesca, d’un’Italia sempre meno provincia di quanto la vogliamo, quando tale la vogliamo, Hogarth annuncia l’altra via rispetto all’idealità alta del modello aristocratico.

E’ la via della mimesi che si fa discrepanza, e inevitabilmente giudizio. Borghese è erigere altari alle virtù degli honnêtes hommes; ma borghese, in senso radicale, è anche leggere da subito l’assurdo della pretesa di stabilire valori, e sistemi codificati ad essi riferiti, che si vogliano imperituri. Virtù borghese è la mobilità contro la staticità, il cambiamento contro la permanenza, il vivere rispetto al monumento.

E non si edifica un monumento aere perennius ai discendenti di Hermes: dio di molte cose, si sa.

A meno che non sia l’atto consapevole – e tutto interno – di rivolta al veleno feroce che il modello aristicratico ha insinuato non negli apparati, ma nello stesso pensarsi borghese: il veleno della visione verticale, stabile, che in quanto tale intende se stessa come inveramento di valori superiori, dall’alto discendenti a far grazia agli eletti.

Aristocratici si nasce, borghesi si è, si vive. Ma la differenza va trascolorando.

“Nel tempo precedente la crisi, la mente dell’uomo era tutta rivolta alla verticalità come a un ideale. Dall’orizzontale della vita terrestre e mortale, si mirava alla verticalità della vita immortale, come a una meta da raggiungere. Il Bene, il Bello, i Modelli erano tutti verticali. Imitando i modelli, l’uomo cercava di dare alle proprie opere il senso della verticalità: architettura, pittura, scultura, opere di poesia e di pensiero, istituzioni: tutto tendeva alla verticalità. La musica stessa riuniva i suoni in armoniose costruzioni verticali”: Alberto Savinio, Fine dei modelli, 1947 (10).

4.  Lo sguardo radente

Savinio dice che Renoir, e Proust, e Debussy, sono maestri di sguardo radente. Ovvero, cercano valore sul filo dell’orizzonte terreno, sgombrato il cielo dei simulacri che vi si proiettano.

E nitido, diretto, d’una sincerità che imbarazza lo sguardo, è il calore della luce che cade sulle Due amiche di Umberto Boccioni. Quadro antico, antichissimo, nella cordialità e nella circolazione di simpatia delle cose, quadro moderno per la sottrazione d’ogni statuto che alteri l’identità più elementare delle figure.

In compenso Wagner e Nietzsche incarnano il tentativo demiurgico di ricreare il mondo a partire da una simpatia per l’uomo trasmutata in disdetta feroce: “Soltanto un pazzo, soltanto un poeta…” (11). 

Lo sguardo radente diventa, nella cultura nordica ancora, sguardo scarnificante. Non accetta il gioco impressionista dell’apparenza a ridosso del vuoto, del ritrarre le figure – così farà la Francia – a partire dal dentro dell’artista, riducendo anche l’identità forte del ritratto – penso all’Iturrino di André Derain, per non dire di Pablo Picasso – a motif.

Là dove società è una parola più densa, e borghesia è termine più “verticale”, come in Germania, la pittura domanda alla comunità degli uomini, con disincanto incalzante, di esistere.

“Biascicano a memoria / tutto questo, / principianti dell’amore. / Sono lontani dal / mondo e la / loro esistenza è la più marginale. / Collera, cupidigia e / ambizione, la spinta ad accumulare / il denaro / si manifestano generalmente per gradi. / Si pavoneggiano / per tutta la vita / e non cercano mai di / conoscere a fondo la natura, / fischiettano facili motivi da operette / popolari e leggono / per diletto / romanzi”: Egon Schiele, 1910 (12)

James Ensor come Cristo guarda Bruxelles dall’alto, da lontano. La febbre è quella del veggente che si sa orfano, non nemico, della trama brulicante dei rapporti mondani: ma non ne accetta le liturgie, i simulacri verticali. E mette in scena una Totentanz la cui crudeltà, grottesco e bestemmia, è atto d’amore.

“Sì, noi pittori, noi, disponiamo di un potere immenso e i nostri mezzi sono potenti, noi smascheriamo agli occhi del primo venuto il gaudente paonazzo iniettato di imbecillità, il carmelitano e la sua fede dilettata dal foie gras, il vandalo imprevidente, il magistrato senza legge, il vivisettore senza cuore, il soldataccio millantatore, il medicastro arrogante, le nostre condanne durano nel tempo”: James Ensor, Mes écrits (13). 

Ritrarre è dar forma al giudizio. In fondo sono, questi, come i “ritratti rubati” di Alessandro Tiarini (14), i cui soggetti appartengono al theatrum mundi e non alla servitù monumentale.

L’idealità ne è introversa e simmetrica: non innalzano il modello a un paradigma ideale, ma con un ideale – e un’utopia, forse – impietosamente lo confrontano. Troppo s’è detto dell’istinto rivoluzionario di questi autori, giocando il gioco meccanico delle classi e delle ideologie e delle contrapposizioni da campo di soldatini. Piace, più, leggere una chiave di radicalismo borghese, tipicamente borghese e perciò acido o indignato, che ne fa degli esasperati ritratti “affezionati” (15), ovvero venati d’un sovratono di caratterizzazione e d’espressione. Piace pensarlo a proposito di Oskar Kokoschka come di George Grosz, di Christian Schad come di Franz Radziwill: e del Wilhelm Hergt di Otto Dix, che pare un Cranach senza fede, senza comunità.

Sander, Anton Raederscheidt, 1927

Sander, Anton Raederscheidt, 1927

E’ una vecchia querelle, quella con la fotografia. La quale diventa, non può non diventare, altrettanto “affezionata”. August Sander fotografa la Germania, vuole fotografare tutta la Germania. Forse è sociologia, forse perversione. Certo che il suo Anton Räderscheidt, 1927, ambiguo e ostensivo, dice molte pagine di Mann e molti disegni di Grosz; e anche un po’ di Kafka.

“Ho visto una serie di fotografie che una fotografa di eccezionale talento ha fatto a Heidegger con quella sua aria di pingue ufficiale di stato maggiore in pensione che ha sempre avuto, diceva Reger, e un giorno gliele mostrerò; in quelle fotografie Heidegger scende dal letto, si rimette a letto, Heidegger dorme, si risveglia, indossa i mutandoni, infila i pedalini, beve un sorso di mosto, esce dalla casamatta e contempla l’orizzonte, intaglia il bastone,  si mette un berretto, si toglie il berretto dalla testa, tiene il berretto in mano, divarica le gambe, alza la testa, china la testa, mette la mano destra nella sinistra di sua moglie, sua moglie mette la mano sinistra nella sua destra, cammina davanti a casa, cammina dietro la casa, si allontana da casa, legge, mangia, prende qualche cucchiaiata di minestra, si taglia una fetta di pane (fatto in casa), apre un libro (scritto in casa), chiude un libro (scritto in casa), si china, si stiracchia, e così via, diceva Reger”: Thomas Bernhard, Antichi Maestri. Commedia, 1985 (16).

In fondo, ricorda Nipperdey, “anche il destino borghese aspira al tragico”, e non solo perché inventa il melodramma; e la fotografia, riprendendo un’antica geniale intuizione di Gottfried Benn a proposito di Nietzsche, sceglie di “far scintillare le superfici di frattura senza riguardo ai rischi e ai risultati” (17): non diversamente, se non per i protocolli d’immagine, che nei cannibali Masnadieri di George Grosz.

5.  Sembrare persone per bene

“Oggigiorno, dunque, il primo studio sarà quello di sembrare persone per bene. Ciò si otterrà, è naturale, guardandosi con molta attenzione dai modi e dal tipo proprio degli ultimi arrivati, degli homines novi, come dicevano i romani, degli arricchiti, dei pescecani, dei 305, come diciamo noi”: Filippo De Pisis, 17.V.1920 (18).

Diversa è la tradizione nostrana. Per ragioni diverse. Di condizione, di religione: d’una latitanza storica della borghesia stessa, in fondo. Anche di saggezza degli artisti, ci ricorda ancora Savinio. Più facile far epopea tragica con uno che si chiama Buddenbrook: se si chiama Biraghi o Besozzi o Puricelli o Scaccabarozzi – cito dal repertorio dei benefattori colleghi del Fantelli – tutto congiura a far lievitare strati ancestrali d’ironia socratica, e il veleno prende l’aroma del rosolio.

“I Caviggioni, per lo piú, nascevano con il bernoccolo dell’ingegnere. Anche il nobile Gian Maria, benché i casi della vita lo avessero sospinto verso il cioccolatte, si vantava ingegnere. Ingegnere tendenziale, ingegnere onorario. Difatti aveva costruito a Costa Masnaga, presso Lambrugo, un po’ dopo Inverigo, una solida e scombinata casa che, a idea, nessun tornado o ciclone riescirà mai a debellare: ‘non imber edax, non aquilo impotens’: e nemmeno un cataclisma geofisico. E nessun nato di donna gli verrà fatto di abitarci l’inverno. C’è poi anche da dire che il su’ babbo, ragazzo, era stato compagno di giochi del compianto senatore ingegner Giuseppe Colombo, Gran Cordone dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro: l’immortale autore del manuale Colombo.  E Giuseppe Colombo fu maestro a delle generazioni di ingegneri, e uno de’ piú autentici pilastri del nòster Politèknik. Da adulto e da vecchio, poi, mi assicurano che il Caviggioni padre aveva indefessamente giocato a domino con un altro gran cordone, del quale purtroppo mi sfuggono le generalità: (e’ son gli scherzi del tempo spappolatore). Un virginia infilato nell’ambra rotonda dei baffi, ch’erano rotondi e stupendi, lungo interi pomeriggi: in simbiosi coi divani e cadrèghe di velluto rosso della Società Patriòtica, che la sta lì desora del Coa, con un t solo. E si rese anche benemerito, mi dicono, “nel campo della cultura e dell’arte”, in qualità di promotore, poi socio fondatore, poi presidente, della Famiglia Artistica Meneghina: altro sodalizio nostro dotato di una impareggiabile collezione di cadrègh”: Carlo Emilio Gadda, L’Adalgisa, 1944 (19).

Oppure acuminare lo sguardo sino alla visionarietà, a una sorta di tralignamento lucido. Non più l’affetto magico e cautelato d’un Ubaldo Oppi o d’un Antonio Donghi, d’un Carlo Levi o d’un Massimo Campigli, ma il plus que réel, lo sguardo del sapiente, di Giorgio De Chirico – che è anche sguardo assai più violento, nelle sostanze, di qualsiasi affine tedesco – e di Alberto Savinio. 

“Una sera del gennaio 1910 cenavo a Parigi in casa di un alto magistrato.  Questi aveva un cognome doppio, da reazionario del tempo dell’affare Dreyfus: si chiamava Binot de Villiers.  Era sordo e pomposo.  Sua moglie, la présidente, era sbozzata nel legno.  La cena andava a rilento.  Erano più gli sbadigli che le cucchiaiate di potage impératrice. I commensali appartenevano quasi tutti alla magistratura.  Le loro facce da mastini posavano su enormi solini inamidati.  Con voce cavernosa formulavano pensierini infantili.  Le loro dames partecipavano della specie delle galline faraone, ma erano vestite da sera, e si facevano vento con le piume del loro fratello maggiore lo struzzo.  Unico giovanotto mi avevano collocato accanto a una fanciulla vestita da libellula, la quale traversava una crisi di rinite spastica.  Appena mi voltavo dalla sua parte per sussurrarle qualche frase innocente, “le piacciono i fiori?” oppure “è stata a sentire l’Uccello di Fuoco?”, essa s’arroventava in faccia, cacciava la testa sotto la tavola, soffocava nel tovagliolo una sequela di starnuti.  Si arrivò al dolce”: Alberto Savinio, Jules Verne, 1942 (20).

Ecco la fotografia e il simulacro classico, la memoria come matter e i leoni che son simboli e citazioni straniate. Senti, in questi quadri, l’odore stagnante del caffè la domenica pomeriggio, il sentore di polvere delle tende e dei tappeti di febbraio, vedi le passamanerie un po’ sdrucite e il ripostiglio delle scope. Si agita, dietro quell’abbigliamento che fa sembrare persone per bene, il “catrame” di Lucio Mastronardi: ma lasciato sotto sotto, a far crepitare mussole e vigogne.

“Ci sarebbero il bianco od il rosso; ma questi colori, lo vede anche lei, non tengono di quella serietà dalla quale non mi vorrei scostare, serietà che il nero mi rappresenterebbe appuntino, se non peccasse poi dall’estremo opposto, se non fosse cioè troppo cupo”: Giuseppe Giacosa, Chi lascia la via vecchia per la nuova, sa quel che lascia, e non sa quel che trova, atto I, scena 5, 1870 (21).

Si può anche diventare una cravatta, infine: enfatica, lussureggiante, kafkianamente teatrale, come quella odorosa di lusso ambiguo di Domenico Gnoli.

Grosz, Frau Plietzsch, 1928

Grosz, Frau Plietzsch, 1928

6.  Attributi: la signora e l’amido

L’abbigliamento, la moda, è però naturalmente, nel codice, più faccenda muliebre. Essendo beninteso la mulier a sua volta figura d’apparato, la donna dell’uomo: così, icasticamente, Fraz Radziwill.

Hestia per Hermes si diventa, anche facendosi chiamare, mito per mito, Sigfrido e Siglinde come in Karl Hubbuch (“Ma Hestia non costituisce soltanto il centro dello spazio domestico […] E’ simbolo e pegno di fissità, d’immutabilità, di permanenza”; è ta endon tispetto a ta exo erga di Hermes, che è Agoraios, Agonios – e anche un po’ Leister, brigante: così Jean-Pierre Vernant, che non parla mai solo d’antico (22): e in fondo in fondo anche il Bookmaker vale I chirurghi, dal punto di vista dello status): fianco massiccio e filoperle.

Che ella sia Frau Plietzsch di George Grosz o la più casta Sposa di Antonio Donghi – ove il teatro degli attributi, in grazia di quel velo, si fa esponenziale – o la solare Donna di Pozzuoli del solitamente caustico lunare Christian Schad,  fino all’apoteosi d’algore della Signora Madinelli di Felice Casorati, riverberante gli stessi orgogli del marito Dottor Antonio Veronesi: tutte le immaginiamo – ben potrebbe essere – sedute al tavolo del rituale dell’Ora del tè, così come, con la saporosa sua vena di ironia addolcita racconta Massimo Campigli.

Perfetta è la Donna in poltrona di Albert Heinrich, con quella posa disarticolata da poupée bellmeriana inamidata (inamidata: amido o catrame) e il lucore livido della potrona – la pelle, le borchie – a dire d’un passato, d’una storia, d’altri sogni, d’un destino. Sarà Gnoli a comprendere, anch’egli geniale, che in fondo è la figura a far da apparato retorico, da attributo delle cose: e di esse sole ci dirà, trepido allucinato.

“Mr Bloom guardava dall’altra parte della strada, la carrozza ferma alla porta del Grosvenor. Il facchino issò la valigia sul poggiapiedi della vettura. Lei stava ferma, aspettava, mentre l’uomo, marito, fratello, le somiglia, cercava gli spiccioli in tasca.  Soprabito elegante, con quel bavero arrotondato, pesante per una giornata come oggi, sembra una stoffa da coperte. Posa noncurante di lei ferma lì con le mani in quelle tasche appliquées. Come quell’altezzosa creatura alla partita di polo. Le donne tengono alla classe, finché non si tocca il punto. L’abito non fa il monaco. Contegnosa, ma sta per cedere.  L’onorevole Signora e Bruto è un uomo onorevole. Possederla una volta le toglie l’amido”: James Joyce, Ulisse, 1922 (23).

Il cursus honorum è controverso, ci spiegano Otto Weininger e le amanti senza mutande di Paolo Conte.

Tutto si riassume nel gioco di pose della Claudia di Franz Radziwill, velenosa congelata meditatio tanto quanto distaccata e mediterranea è la visionarietà di Savinio. E nella simbologia estrema, raggelata anch’essa – champagne compreso –  dietro il gioco sensuoso, di René Magritte.

Irène, sur un ton de commisération.  Alors, vous êtes devenue… / Amélie, très naturellement.  Cocotte, oui, madame. / Irène.  Oh! …mais comment avez-vous pu tomber à … ?  / Amélie, geste vague de la main, puis: L’ambition!”: Georges Feydeau, Occupe-toi d’Amélie, atto I, scena 7, 1908 (24).

Borghesi si nasce, e si può diventare, più o meno.

7.  Attributi 2: il pianoforte e un grande orologio a pendolo

Anche Claudia potrebbe sparire dalla poltrona; e i pupazzi umani là al fondo, i vecchi mezzani che paiono per bene. Il gelo, il disincanto, non muterebbe.

“La sala da pranzo. Nel fondo, la stufa; a sinistra la porta aperta del tinello; a destra una porta aperta sull’anticamera. Alla parete di sinistra, la credenza e il telefono; a destra, il pianoforte e un grande orologio a pendolo; a destra e a sinistra una porta”: August Strindberg, Temporale, atto I, scena 2, 1907 (25).

Altre smanie, d’altronde, infinite, multiple, sin comiche – rileggersi il Gadda di “ville e villette” – sono quelle d’un essere che si scambia per protocollo di possesso, e che brama di mettersi in scena, perso il lume della “magnificenza civile” di cui era vox clamans il solitario Carlo Cattaneo, in una sorta di rastremata e deidentificata Puppenstube.

 “Sgualdo. Ve compatisso, gh’avè rason. Ma gnanca i mi omeni no i gh’ha torto.  Averessimo fenìo che sarave un pezzo. Ma sior Anzoletto, el vostro patron, ogni zorno el se mua de opinion. L’ascolta tutti. Chi ghe dise una cossa, chi ghe ne dise un’altra.  Ancuo se fa, e doman bisogna desfar. Ghe giera tre camere col camin; perché uno gh’ha ditto che i camini in te le camere no i sta ben, el li ha fatti stropar. Dopo xe vegnù un altro a dirghe che una camera senza un camin da scaldarse xe una minchioneria, e lu: presto, averzì sto camin; e po: no più questo, st’altro; e po: femo el tinelo arente la cusina; e po: sior no, la cusina fa fumo, portemo el tinelo da un’altra banda. Tramezzemo el portego, perché el xe longo. Desfemo la tramezaura, perché la fa scuro. Fatture sora fatture; spese sora spese; e po, co ghe domando bezzi, el strepita, el cria, el pesta i pi per terra, el maledisse la casa, e anca chi ghe l’ha fatta tor”: Carlo Goldoni, La casa nova, atto I, scena 1, 1760 (26).

Luigi Pirandello – doverosamente effigiato in un percorso come questo, lui maestro del teatro delle identità – racconta cose per dire di persone, appunto, in un gioco di specchiamenti che involve, tocco superbo, anche l’amour de l’art, o almeno quello che il borghese piccolo crede del borghese “vero”.

  “La casa era modesta; ma già tra i vecchi mobili si notavano parecchi nuovi venuti, pretensiosi e goffi nell’ostentazione della loro novità troppo appariscente: due grandi lumi di majolica, per esempio, ancora intatti, dai globi di vetro smerigliato, di strana foggia, su un’umilissima mensola dal piano di marmo ingiallito, che reggeva uno specchio tetro in una cornice tonda, qua e là scrostata, la quale pareva si aprisse nella stanza come uno sbadiglio d’affamato. C’era poi, davanti al divanuccio sgangherato, un tavolinetto con le quattro zampe dorate e il piano di porcellana dipinto di vivacissimi colori; poi uno stipetto a muro, di lacca giapponese ecc., ecc., e su questi oggetti nuovi gli occhi di Malagna si fermavano con evidente compiacenza, come già su la rosoliera recata in trionfo dalla cugina vedova Pescatore.

Le pareti della stanza eran quasi tutte tappezzate di vecchie e non brutte stampe, di cui il Maiagna volle farmi ammirare qualcuna, dicendomi ch’erano opera di Francesco Antonio Pescatore, suo cugino, valentissimo incisore (morto pazzo, a Torino, – aggiunse piano), del quale volle anche mostrarmi il ritratto”: Luigi Pirandello, Il fu Mattia Pascal, 1904 (27).

Come in postilla e omaggio, omaggio alla “roba”:

“Domenica sono stato a Bergamo, a casa sua. Io non ne avevo nessuna voglia, conoscere i familiari, e magari si mettono in mente delle idee, ma insisteva da tanto tempo; uffa, sono andato.  L’Accademia Carrara era chiusa. La casa è piuttosto bella, ma niente di speciale, messa su da poco; livello di professionista medio, pareti buccia d’arancio; credevo di più, da discorsi fatti (Roberto critica facilmente le case altrui). I mobili li classifichi come niente in due categorie: quelli di prima, un po’ troppo modesti, quelli di adesso, un po’ troppo nuovi. Vasi, paralumi, portagiornali, un po’ del bric-à-brac moderno-Impero dei negozi alla moda di San Babila. La madre è una di quelle donne sempre un po’ troppo ben vestite e ben pettinate rispetto a quel che la circostanza comporta: parecchi gioielli fantasia, parla molto, esagera nel “tono gaio”, disinvolto, brillante; ride moltissimo di testa e di gola”: Alberto Arbasino, L’Anonimo lombardo, 1996 (28).

8.  Monumenti

Si può essere grande chirurgo come quelli ritratti da Oppi, certo evoluto in identità e status rispetto al feroce dentista di Luca di Leida. O grande architetto come il Mies van der Rohe di Marino Marini. O sindaco di Roma come l’Ernesto Nathan di Balla, palpitante ancora di virtù civile come lo Hieronymus Schurstab, antico sindaco di Norimberga, di Lautensack, o lo Jan Six che diventa borgomastro. Addirittura presidente d’uno Stato come il Theodor Körner di Oskar Kokoschka, committente indignato – va sans dire – della propria effigie non encomiastica: questione non è più “l’uomo accanto all’eroe”, ma di verificare sempre e comunque, in questo secolo di ombre lunghe e di teatri d’ombre, che anche la virtus è solo gioco di simulacri e convenzioni.

“Per quanto mi concerne, non ho più l’intenzione di celebrare la vittoria di un eroe. Vorrei esprimere qualche cosa di tragico, una sorta di crepuscolo dell’unità, piuttosto una disfatta che una vittoria. Se voi considerate le mie statue di cavalieri di questi ultimi dodici anni, una dopo l’altra, vedrete che il cavaliere diventa ogni volta meno abile nel dominare il suo cavallo e che l’animale si irrigidisce in una paura sempre più selvaggia, invece di impennarsi. Credo molto seriamente che stiamo andando verso la fine di un mondo. Io cerco dunque di simboleggiare la fase ultima della decomposizione con un mito, il mito dell’uomo eroico e vittorioso, dell’uomo di virtù, degli umanisti”: Marino Marini (29)

“Basta chiedere la ricetta al grande Sam Goldwyn, padre della Metro Goldwyn Mayer e inventore dello star-system. La sua teoria era molto semplice: per rendere straordinaria una persona ordinaria, basta rendere straordinarie le tre componenti della sua personalità: il suo fisico, il suo carattere e il suo stile. Il fisico per convincere, il carattere per durare, lo stile per sedurre”: Jacques Séguéla, Hollywood lava più bianco, 1982 (30).

 

Note 

1. D. MacDonald, Masscult & Midcult, Roma 1997.

2. F. Cusani, I ritratti dei benefattori dell’Ospitale Maggiore di Milano. Illustrazione storico-artistica, Milano 1879. In generale, cfr. AA. VV. (a cura), La Ca’ Granda, catalogo, Milano 1981. E’ notevole che ancora negli anni cinquanta del nostro secolo si tengano mostre sui ritratti dei benefattori dell’Ospedale Maggiore: nel 1957 ne è prefatore Leonardo Borgese.

3. H. de Balzac, La ricerca dell’assoluto, Milano 1975.

4. F. Hayez, Le mie memorie, Vicenza 1995.

5. S. Alpers, Arte del descrivere. Scienza e pittura nel Seicento olandese, Torino 1999.

6. Merita d’essere riletta, la pagina memorabile di Roberto Longhi sul Ghislandi, ove dice delle “sue  têtes de caractère (come già si chiamavano in Francia) con la stessa fedeltà del vecchio Moroni (ch’egli copiò più d’una volta per utile esercizio); ma con nuovo estro e sapore perché ora le asperge di cristalli di sale rembrandtiano (sapeva scegliersi i suoi eroi, il Ghislandi!); e con nuovi miracoli di ‘ottiche’ invenzioni”: Dal Moroni al Ceruti, in I pittori della realtà in Lombardia, catalogo, Milano 1953.

7. Beaumarchais, Il barbiere di Siviglia, in La trilogia di Figaro, Milano 1981.

8. E. Delacroix, Diario, Torino 1954.

9. W. Hogarth, L’analisi della bellezza, Milano 1989.

10. A. Savinio, Fine dei modelli, in Opere. Scritti dispersi. Tra guerra e dopoguerra, Milano 1989.

11. F. Nietzsche, I ditirambi di Dioniso, Parma 1967.

12. E. Schiele, Schizzo per un autoritratto, Bologna 1984.

13. J. Ensor, Mes écrits, Liegi 1974.

14. G.C. Malvasia, Felsina pittrice. Vite de’ Pittori Bolognesi (1678), Bologna 1841.

15. Di ritratti “affezionati” dice Giovanni Baglione nelle Vite de’ Pittori Scultori et Architetti, 1642, a proposito di Ottavio Lioni. Qui se ne forza ovviamente, in certa misura, l’intendimento.

16. T. Bernhard, Antichi Maestri. Commedia. Milano 1992.

17. T. Nipperdey, Come la borghesia ha inventato il moderno, Roma 1994; G. Benn, Nietzsche, cinquant’anni dopo (1950), in Saggi, Milano 1963..

18. F. De Pisis, Adamo o dell’eleganza, Bologna 1981.

19. C.E. Gadda, I ritagli di tempo, in L’Adalgisa. Disegni milanesi, Torino 1955.

20. A. Savinio, Jules Verne, in Narrate, uomini, la vostra storia, Milano 1942.

21. G. Giacosa, Chi lascia la via vecchia per la nuova, sa quel che lascia, e non sa quel che trova, in Teatro, I, Milano 1948.

22. J.P. Vernant, Hestia-Hermes. Sull’espressione religiosa dello spazio e del movimento presso i Greci, in Mito e pensiero presso i Greci. Studi di psicologia storica, Torino 1970.

23. J. Joyce, Ulisse, Milano 1988.

24. G. Feydeau, Occupe-toi d’Amélie, Paris 1995.

25. A. Strindberg, Temporale, in Teatro da camera, Milano 1968.

26. C. Goldoni, La casa nova, in Commedie, II, Milano 1958.

27. L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal, Milano 1988.

28. A. Arbasino, L’Anonimo lombardo, Milano 1996.

29. M. Marini in AA. VV., L’opera completa di Marino Marini, Milano 1970.

30. J. Séguéla, Hollywood lave plus blanc, Paris 1982