Naturalismo padano nella collezione Boschi – Di Stefano, catalogo, Civica Galleria d’arte contemporanea, Lissone, 28 settembre – 7 dicembre 2003

“In arte, la realtà non è  il reale, non è la visibilità, ma la cosciente emozione del reale divenuta organismo” (Manifesto del realismo, 1946). Occorre muovere da lontano, dal dibattito pittorico più avvertito tra le due guerre, per comprendere le ragioni della vicenda che negli anni Cinquanta, tra entusiasmi polemiche fraintendimenti, fu indicata come naturalismo padano. Che non fu gruppo, va subito detto, e neppure alla fin fine tendenza: ma lievito profondo, problematicamente vivido, in una stagione in cui troppo si procedeva per formulazioni tattiche e fideismi ideologici, certo sì.

Morlotti, Paesaggio lombardo, 1955

Morlotti, Paesaggio lombardo, 1955

Occorre muovere da lontano, soprattutto per ridefinire un contesto che le schematizzazioni storico-artistiche, con la litania stabilita di formulazioni chiuse e ormai stereotipe (Mac, Forma, nucleari, spaziali, realisti, astratto-concreti, informali, eccetera), hanno ridotto a mero gioco delle parti, o poco più. Ma anche per dar conto di una continuità inevitabile, di un trascorrere d’esperienza e suggestioni tra generazioni, che fu forte e attiva soprattutto laddove, dico in particolare delle aule di Brera e dintorni, le polemiche fisiologiche tra padri e figli non si riducevano a teatro di negazioni, ma operavano nel senso di una continuità per superamento avvertita come inevitabile.

Brera, dunque, e la Milano circostante. La Brera di Carlo Carrà e di Aldo Carpi, di Achille Funi e del suo assistente Gino Ghiringhelli, che era anche gallerista giusto dirimpetto, nel già autorevole Milione di Morandi e degli astratti. Tra guerra e dopoguerra immediato, il patrocinio di quei maestri va a studenti come Giuseppe Ajmone, Cesare Peverelli, Piero Giunni, Ennio Morlotti, Alfredo Chighine, Franco Francese, Roberto Crippa, Gianni Dova, Alik Cavaliere, tra gli altri. Sono quei maestri, Carrà in specie, a mostrare che una pittura novissima, moderna, è possibile anche riflettendo sul retaggio, lontano e prossimo, dell’arte: con amore senza rispetto, e anche ripartendo da un esercizio criticistico dei generi, paesaggio ritratto natura morta.

Carrà è pittore nato, linguisticamente, nell’Ottocento, che da quelle secche retoriche s’è liberato, che dell’avanguardia è stato protagonista riconosciuto e ormai leggendario, e allo stesso tempo si è sottratto in tempi non sospetti dall’avanguardismo ridotto a comportamento. Da là, da antichi ragionamenti di Carrà, certo rimuginati a lungo non solo nelle tele, e offerti come matter problematica ai giovani voraci, parte il nostro percorso. Carrà pubblica nel 1920, in “Valori Plastici”, un testo memorabile, dal titolo Misticità ed ironia nella pittura contemporanea (1): vi si legge di una ‘misticità’ che è rapporto fondativamente emozionale con il paesaggio, perché nel paesaggio, soprattutto, può viversi un’esperienza introspettiva fatta di tensione affettiva e lirismo. Che sul tema egli torni di lì a poco in altri testi memorabili, dedicati non a caso ad autori come Cosomati e Fontanesi e ai Pittori romantici lombardi, è indice dello spessore del ragionamento, e del suo indirizzo, a rileggere la tradizione ottocentesca in chiave non riduttivamente liquidatoria (2). E’, si potrebbe dire, un modo di ridefinire, contemporaneamente, il valore stesso di tradizione: non eredità passiva, ma identità per certi versi ineludibile, dalla cui auscultazione e distillazione far emergere parole sempre nuove, nella propria genetica antica. Non diversamente, d’altronde, agiscono coloro che – penso a un Mafai, a un Birolli, a un Cassinari, a un Afro – vanno saggiando strade differenti dal traslocare meccanico dalle vecchie tradizioni alle nuove.

Parallelo e meno direttamente incidente sul dibattito nuovo, ma non meno sostanzioso, è un altro corso critico, quello di Roberto Longhi, grand seigneur della storia dell’arte: il quale, nei propri studi storici, va delineando una identità nordica, padana, con un passaggio cruciale proprio in uno scritto su Carrà, il cui dipinto di snodo, il Cinquale, è definito sintomaticamente “carico, minaccioso, deflagrante di colore; emozione pura, si direbbe, e d’incontro, senza mediazioni” (3). Mai veramente militante del contemporaneo, Longhi tuttavia stabilisce pietre miliari del dibattito del tempo, aprendo gli anni Cinquanta con due mostre di problematicità ineludibile: è del 1952, in seno alla Biennale veneziana dello “scontro” tra astrattisti e realisti guttusiani,  la mostra Paesisti piemontesi dell’Ottocento, dove ancora si dice di Fontanesi, e del Reycend il cui motto era “la natura è sempre delicata” (4); è del 1953, proprio a Milano, I pittori della realtà in Lombardia (5), consacrazione di una traccia interpretativa che svaria dal passato al presente. E’ un caso, a questo punto, che Giovanni Testori, allievo e collaboratore di Longhi nella grande mostra del 1953, proprio in quella XXVI Biennale, 1952, presentando le cose nuove di Morlotti, sottolinei “quanta (e quale) verità di tradizione riappare: la catena grandissima dei lombardi: qualche tono, vedendolo, parrà addirittura carpito in luce d’ebbrietudine, al Moretto” (6)?  E’ un caso che un altro longhiano, Francesco Arcangeli, ancora a proposito di Morlotti, di lì a pochi mesi ribadisca che “se è ancora, dove è ancora ‘impressione’, dunque, sùbito è anche larghezza di sentimento, ampio patos, secondo il vecchio modo di Lombardia” (7)? per esplicitare in seguito: “che in Italia del Nord sia esistita una tradizione (e tradizione è sempre storia) di senso fondamentalmente naturalistico dovrebbe esser meno sorprendente, almeno fra noi, soprattutto dopo i prolungati studi padani del grande clerc Roberto Longhi” (8).

Bergolli, Meriggio, 1953

Bergolli, Meriggio, 1953

Certo, Morlotti. Il quale, con pochi altri pionieri, sin dal dopoguerra aveva preso a ragionare di Cézanne più che della leggenda di Picasso (“Numero Pittura”, la rivista ove esce il Manifesto del realismo che si vuole di superamento del picassismo ridotto a stile ch’è, nonostante le ingenuità e i volontarismi, sintomo di un’area possibile: Ajmone, Bergolli, Bonfante, Dova, Morlotti, Paganin, Peverelli, Tavernari, Testori, Vedova –  pubblica il 15 dicembre 1946 la tavolozza di Cézanne) e soprattutto a tentare una via di immedesimazione affettiva nel paesaggio risentita pittoricamente, che farà da paradigma per tutto questo variegato orizzonte, soprattutto sul piano delle ipotesi critiche che vanno formulandosi. Morlotti, la cui prima maturità, precoce rispetto agli altri Jungen, è lo snodo che da Corrente porta a questa temperie, è tra l’altro fra coloro che, in quel cruciale schiudersi di decennio, vengono annoverati anche in un altro orizzonte problematico criticamente delineato, l’astratto-concreto perorato da Lionello Venturi.

Nel 1952 Venturi pubblica il libro Otto pittori italiani (9), nel quale identifica una posizione linguistica sottratta alla contrapposizione polemica tra realismo e astrattismo in nome di una coscienza meno schematica della pratica artistica. Afro, Renato Birolli, Antonio Corpora, Mattia Moreni, Ennio Morlotti, Giuseppe Santomaso, Giulio Turcato, Emilio Vedova, già presenti alla Biennale di Venezia del 1950 come aggregazione dell’ala non realistica del Fronte nuovo delle arti, vengono indicati come coloro che intendono superare l’antagonismo ideologico corrente richiamandosi alla “tradizione iniziatasi intorno al 1910 e [che] comprende l’esperienza dei cubisti, degli espressionisti e degli astrattisti”. Nelle parole dello studioso è evidente la preoccupazione di ristabilire, primariamente, uno statuto di dibattito effettivamente internazionale, in forza del quale svuotare di senso la contrapposizione tra un Mac volontaristicamente cosmopolita, ma dagli esiti espressivi assai modesti e soprattutto tendente a privilegiare l’idea che un linguaggio innovativo sia in sé portatore di valore, e l’orizzonte realista che appare totalmente appiattito sull’obbedienza politica pretesa dal Partito comunista. A essere rivendicata in opposizione allo schema narrativo ed esistenziale del neorealismo e al formalismo algido dei concretisti è una componente di ascendenza impressionista, la fedeltà al dato naturale, mirante all’analisi della visione sulla scorta della tradizione costruttiva e tettonica della visione fondata da Cézanne e dal cubismo.

E’, in fondamento, una posizione visibilista, e soprattutto un’aggregazione tra maestri per lo più già presenti da tempo sulla scena, a cominciare dall’intellettualmente carismatico Birolli, la quale intende indicare un atteggiamento, un’area di coincidenza, più che un vero e proprio aggruppamento.

Il gruppo degli Otto è, dal punto di vista del progetto intellettuale, fondato su un più esplicito radicamento nella tradizione del nuovo – che fa dell’impressionismo il padre da uccidere – e più internazionalisticamente “moderno”, svincolato da ragioni esplicitate di identità culturale. Ed è, per questi artisti, a sua volta un transito, nel crescere e determinarsi di personalità forti e divaricate. Il suo impatto nell’epicentro milanese funge da reagente definitivo alla formulazione di una lettura che, di posizioni artistiche affini, offra una chiave diversa. Conta, qui, un sospetto più accentuato verso lo stilismo dei gruppi astratto-geometrici, e in generale verso la teatralizzazione dei comportamenti avanguardistici che va delineandosi, e che le cronache del tempo evidenziano in vicende come il nuclearismo e lo spazialismo. Conta, più, il dialogo intellettuale intavolato con l’aggregazione realista, dalle implicazioni ideologiche inaccettabili, ma che va recuperando parimenti, per le sue gracili vie espressive, un rapporto identitario e totalizzante con il reale, il che non può essere liquidato senza interrogazioni radicali.

Birolli, Paese all'Adda, 1944

Birolli, Paese all'Adda, 1944

Dire di realtà e dire di natura diviene, in questo momento, lo snodo critico fondamentale di molti, anche se si tratta di spalti filosofici sui quali avventurarsi davvero risulterebbe arduo. Sarebbe interessante un’indagine specifica sulle oscillazioni semantiche che i due termini vanno vestendo, in questo torno d’anni, da una quasi completa identificazione all’estremizzazione più cruda. Non è un caso che Testori, una delle intelligenze più lucide del tempo, s’impegni nelle aspre pagine del saggio Realtà e natura, che esce agli inizi del 1957 (10), cioè nel cuore della vicenda. E sarebbe interessante confrontare l’intersecarsi e contrapporsi di genealogie possibili ora proposte ora rivendicate ora interrogate, la scelta di Braque piuttosto che quella di Picasso, e soprattutto quella di Courbet, assunto come padre nobile del realismo (11) ma anche diversamente letto come colui che penetra carne e intelletto della visione, lontano da ogni visibilismo illanguidito. Sintomatica è la testimonianza generosa, vivida proprio perché ansiosamente confusa, di Morlotti, che scrivendo ad Arcangeli, 1956 (12), par mettere d’un tratto tutta la carne al fuoco: “È comunque una questione in cui c’è implicata tutta la pittura moderna dopo il cubismo, Klee, Sutherland, Wols ecc. … e tutta la cultura moderna da Thomas a Freud all’esistenzialismo, e che mi piacerebbe chiarire e superare lo schermo di ripulsione e di disagio che mi dà. Ma mi pare che si tratti di incarnare, di rendere vitale, e non mortuaria, e non pornografica, questa percezione come hanno fatto del resto certi greci, e Viligelmo e Caravaggio e Courbet (ed è la cosa che li distingue). E la natura sarà ancora linfa, germe, brivido e sesso, e non solo luce e penombra e sentimento, non solo Cézanne Corot e Fontanesi. Rifare Poussin sur nature ecco il problema, se a natura si dà il senso vero e non quello snaturato. Scusami la confusione ma più chiaro non so essere, altrimenti non avrei più niente da chiarire e non sarebbe neanche bello. Mi piace di più l’homme revolté che è diverso anche dall’anarchia, perché la rivolta non è contro la società (espressionismo) o contro Dio; ma contro se stesso, (e non mira a nessun paradiso) ma solo a esser vivi”. Farà tesoro, Arcangeli, di queste indicazioni, di lì a qualche anno (13): “Quanto a Morlotti, l’essenza della sua arte ha a che fare con Wiligelmo, e soprattutto con i grandi animalisti e vegetalisti che hanno formato, fatto crescere e strisciare la vita sulla pietra delle grandi chiese romaniche di Pavia e di Como, assai più che ai Ranzoni e ai Gola”.

E’ il Milione di Ghiringhelli, con intuito precoce, a iniziare un’operazione di aggregazione e prospezione critica che, pur non intendendo valere come formazione di un vero e proprio gruppo, mira a delineare i contorni di una pittura che, sotto le spoglie diverse delle personalità, sia da intendere naturalistica – e in tal senso contrapposta alla realistica – e a un tempo, con sereno intendimento del “pousser sa chaleur”, padana: ovvero, legata a un clima espressivo che faccia da transito non abitudinario e non arbitrario con la tradizione, pur guardando al vivo del dibattito internazionale sull’art autre (14), su Pollock, su Wols… Nel marzo 1953 si inaugura al Milione la mostra, intitolata non casualmente Dodici pittori italiani (quasi un pendant degli Otto venturiani) e allineante Afro, Giuseppe Ajmone, Renato Birolli, Arturo Carmassi, Bruno Cassinari, Gino Meloni, Mattia Moreni, Ennio Morlotti, Sergio Romiti, Giuseppe Santomaso, Sergio Vacchi, Emilio Vedova (15). Curata da Marco Valsecchi sulla scia delle indicazioni venturiane, delle quali riprende più d’un autore, la mostra guarda a un’area della quale rivendicare la continuità storica dell’idea stessa di naturalismo, con un’accentuazione di caratteri lirici più che stilistici in grado di garantire che la deroga al dato sensibile avviene in nome di una partecipazione emotiva più intimamente avvertita. Anche il tono della prefazione echeggia per certi versi la posizione venturiana: “Prima di tutto è necessario dire subito che i pittori presenti a questa mostra non sono legati da nessun vincolo di gruppo o di manifesto, bastando, per questo incontro, il loro comune tendere a un’interpretazione del tempo presente che immediatamente chiama in causa anche valori d’ordine assoluto ed essenziale”.

Conta, dunque, la qualità dell’adesione affettiva al dato sensibile, la capacità di trascendere da essa a una formulazione pittorica che si avverta libera da ogni condizionamento estraneo, e che si concreti come organismo visivo equivalente dell’esperienza sensibile, anziché da essa derivato: un organismo dotato di carattere autonomo che, come un testo poetico, non fondi la propria aspettativa di qualità sull’avvedutezza della struttura formale, bensì sulla tensione generatrice, sovente impreveduta, dei suoi elementi. Mutano, da questo punto di vista, le regole stesse del fare artistico. Il pittore non progetta, preventivamente, il complesso formale, procedendo poi a un’esecuzione per via di padronanza tecnica e stilistica, secondo un ordine operativo conosciuto. La misura artigianale del processo, così fondamentale anche nell’orizzonte neocubista, lascia ora il campo all’ intuizione primaria di un nucleo formale del quale l’artista non controlla né la ragione né gli svolgimenti possibili. Da tale nucleo, che ha il carattere della rivelazione inventiva, matura un processo nel quale l’artista scevera, con rigorosa e ininterrotta analisi, le scelte avvertite come necessarie da quelle che il mestiere e la tradizione di parte figurativa indicherebbe come più plausibili sul piano della composizione e del gusto.

Moreni, L'uomo dietro la staccionata, 1954

Moreni, L'uomo dietro la staccionata, 1954

L’esito dell’opera, nella quale ogni elemento visivo è frutto di un’analisi agguerrita e insieme di una spinta alla scoperta di soluzioni non conosciute, è un’immagine che non corrisponde al parametro tradizionale di forma: anzi, appare piuttosto come un organismo “informe”, ovvero non corrispondente all’aspettativa ordinaria di forma, il cui disordine e la cui estraneità dai codici del gusto – sino all’inesteticità – sono  in grado di attivare anche nello spettatore percorsi emotivi autentici e a loro volta impreveduti. Muta anche, alla stessa stregua, l’idea di quadro. Esso non viene più inteso come un oggetto estetico in sé concluso, bensì come il frammento spazialmente rappresentato di un processo psicologico complesso che ha un prima e un dopo, nell’ordine dello scavo lucido e crudele di una humanitas sottratta a ogni retorica.

Sono, questi, termini che, intuìti ma soprattutto oggettivati in una serie di opere che fotografano ciò che nasce negli ateliers tra 1952 e 1953, com’è in Dodici pittori, danno vita a un vero e proprio percorso espositivo che si dipanerà negli anni: esemplarmente, la mostra immediatamente successiva è proprio la memorabile Paesaggi di Morlotti 1939 – 1953 (16). Ed è in questa occasione che Testori offre lo spunto determinante, capace di innestare la più partecipata riflessione di Arcangeli. Dice Testori della “stratificazione medesima della terra di cui il paese si compone: prati disossati dalla vanga, aperti nelle loro viscere e toccati nella loro consistenza più segreta e brutale. La spina che ora appare non è più una costruzione sovrammessa al quadro perché regga, in qualche modo, un equilibrio, ma il dorso di quei pochi metri di prato che, a furia di ravvicinamento e di necessità di toccare, sono diventati il tema unico, forse sarebbe meglio dire la zona unica di contatto, del pittore. Dal visto degli impressionisti, attraverso il toccato di Cézanne, siamo dunque giunti a una sorta di partecipato? E siccome il termine di questo percorso è stata e continua a essere chiaramente la natura, siamo dunque a una nuova reviviscenza della poetica naturalista? E’ chiaro che sì: e aggiungiamo che, anzi di un naturalismo d’osservazione, si tratta qui di un passo ulteriore, cioè di un naturalismo di partecipazione” (17).

Partecipare della natura, significa accelerare e affinare a tal punto il rapporto con il soggetto sensibile da guadagnare un’effettiva immedesimazione, così che l’artista sia in grado di riprodurre, nella fisiologia autonoma della pittura, i suoi stessi processi di generazione e di morte. Naturalismo di partecipazione implica un retaggio d’aroma romantico, che è proprio Arcangeli, muovendo da tale spunto, ad articolare nel saggio Gli ultimi naturalisti (18). Deliberatamente asistematico nell’impostazione teorica ma attento a cogliere, in seno alla schiera composita degli autori informali, le posizioni più connesse a ciò che indicherà come il “contatto, non soltanto dell’occhio, ma di tutto l’essere, con la consistenza della natura”, lo studioso bolognese indica una posizione implicante un primato totale della componente affettiva rispetto agli elementi di controllo razionale e a ogni preoccupazione teorica, e per questo assai distante da quella di Venturi. Essa ha il pregio di valorizzare gli aspetti di continuità tra concezione moderna dell’arte e grande tradizione, in specie ottocentesca, e da queste premesse valorizzare figure come Ennio Morlotti, Mattia Moreni, Pompilio Mandelli, Sergio Romiti, Alfredo Chighine, Piero Giunni, Aldo Bergolli, Sergio Vacchi, Vasco Bendini: è un’area di espressione dai contorni deliberatamente non definiti, alla quale fanno riferimento molti giovani artisti, tra Torino e Venezia.“Natura è la cosa immensa che non vi dà tregua, perché la sentite vivere tremando fuori, entro di voi: strato profondo di passione e di sensi, felicità, tormento”, scrive Arcangeli, il quale, a proposito del valore identitario di tale attitudine, esplicita: “La nostra provincia italiana di settentrione: terra amata. Ce ne prende il desiderio, presto, quando ne siamo lontani. E’ ancora un vasto respiro, una potenza, si può immaginare che qui sia una potenza che dalla provincia salga a qualche termine universale. ‘Lo dolce piano’, le prime colline, i monti: sangue caldo, acque gelide e ricche a nord del Po, disperate e magre nei torrenti che scendono d’Appennino. Qui si può immaginare, ancora, una passione, dalle pietre verdi della Sagra di San Michele alla pineta di Classe, dalla brughiera di Lombardia alle pallide case del Friuli, sulle strade vaste e malinconiche, prima delle terre ‘schiave’. Un artista può ancora avere il gesto largo e 1’illusione profonda, risentire la memoria, quasi senza saperlo, di qualche cosa che, in questa pianura, sotto lo sguardo lontano dei monti, nacque, si consumò, si rinnovò nei secoli: fu Catullo, Virgilio, Lanfranco, Wiligelmo, Vitale da Bologna, Foppa, Boiardo, Giorgione, Lotto, Folengo, Moretto da Brescia, Ruzzante, Ludovico Carracci, Caravaggio, Frescobaldi, Fra Galgario, Crespi, Vivaldi, Ceruti, Canaletto, Porta, Fontanesi, Nievo, Verdi. In tutti questi lo stile fu implicito, anche quando fu più evidente: prima fu la passione, 1’elegia, 1’oratoria persino; prima i sensi profondissimi e certi, o la loro solenne malinconia”.

E’ un umore che s’avverte altrove, anche. Penso soprattutto, per attrazione, ai versi luminosi di Andrea Zanzotto e di Vittorio Sereni, il cui percorso avrà modo d’incrociarsi sovente con la pittura (19). Proprio un poeta d’altronde, Raffaele Carrieri, spende in veste di critico questa considerazione su Chighine: “Macchie grandi macchie dentro le quali un paesaggio in letargo sta per svegliarsi e farsi riconoscere. Penso ai lunghi inverni di Lombardia, a stratificazioni di nebbie, a campi che marciscono, a risaie ridotte in cenere. Lombardia e non altra regione”(20).  Ma è la pittura, ora, a premere. Al Milione soprattutto, e altrove, si allineano numerose personali dei naturalisti, e l’area del dibattito si estende. Tra rifiuti espliciti per una posizione di cui si sottolineano i momenti rétro e provinciali, e una sostanziale inattualità (lo stesso Arcangeli tenterà di rideclinare la propria posizione parlando di pittori astratto-lirici, e di “intimismo naturale”), e corsi espressivi individuali degli artisti, che tendono in più d’un caso a sottrarre la propria posizione da quest’epoca di schieramenti e nominazioni (“A suo tempo il saggio di Arcangeli ha creato un vivo interesse, ma anche un certo turbamento in quanto non è che tutti si fosse d’accordo con le sue tesi. Il naturalismo da lui proposto era in definitiva troppo di tipo locale, troppo legato ai pittori dell’ambiente padano”: così Ajmone, retrospettivamente (21)), vanno registrati alcuni contributi non secondari. E’ il caso di Franco Russoli, il quale ad esempio in occasione della mostra a quattro di Ajmone, Carmassi, Chighine, Romiti, al Milione, marzo 1955, scrive: “qui è il flusso stesso dell’esistere che è prepotentemente affrontato, in un acceso gremito precipitarsi sulla tela di colori scoperti immediatamente nella natura. Il quadro cresce e si forma dal profondo, sulla base di un accordo spontaneo tra sentimento e visione, tra cuore e occhio […] Questa fiducia nell’immanente, nell’energia e nella materia operante, è naturalismo” (22); è il caso di Roberto Tassi, che scrive di “desiderio di frugare la natura, di ascoltare l’interno cosmico pulsare per accoglierne l’essenza in ogni pennellata, in ogni forma creata e disposta secondo una tessitura intimamente necessaria” (23).  E postilla Emilio Tadini, scrivendo di Chighine l’anno successivo, per la mostra di Ajmone, Bendini, Chighine, Vacchi: “fermare il movimento intimo, il continuo inesauribile farsi e vivere e subito corrompersi e rifarsi – non di un paesaggio – di una materia naturale riconoscibile volta per volta nelle sue mille apparizioni nei paesaggi in mezzo ai quali viviamo. La materia naturale vivente come può distinguerla in un certo clima in una certa aria in una certa durata del tempo, un pittore: in colore e luce e toni, nella sua essenza più intima” (24). Ancora, ecco Renato Birolli, a proposito delle nuove opere di Fasce, nell’ulteriore mostra a quattro di Carmassi Fasce Ferrari Pulga: “Se non mi sbaglio, qui è stato respinto l’equivoco d’una natura apostatica ed esente da problemi di realtà” (25).

Ed è detto, altrimenti, dalla fitta presenza di opere di tale ambito in seno alla collezione Boschi, che di quegli anni è testimonianza preziosa, ora passata alle Civiche Raccolte d’Arte milanesi. Preziosa per l’attenzione del collezionista alle avanguardie d’anteguerra, e a quelle successive, in un’ottica di largo spettro – da Martini a Manzoni, per intenderci. Ciò significa, soprattutto, la conferma che nonostante numerose letture, d’allora e del tempo successivo, dicano del naturalismo come di fenomeno “di ritorno” rispetto alle punte del dibattito, ben se ne leggeva la carica innovativa, la generosità intellettuale e poetica: soprattutto la qualità. Quanto vasta, e incidente anche presso la generazione nuova (penso anche agli esponenti del nascente “realismo esistenziale”, i Romagnoni, Ceretti, Vaglieri, Aricò, Bellandi e compagni), sia l’attenzione naturalistica, è detto dalla pubblicazione da parte di Valsecchi, nel 1958, del libro Trentaquattro opere della giovane pittura italiana (26), che si assume anche il compito di riunire personalità maturate entro le numerose “scuole” e aggregazioni locali che i secondi anni Cinquanta vedono proliferare: vi sono presentati Giuseppe Ajmone, Enzo Brunori, Giovanni Giuliani, Hiero Prampolini, Sergio Romiti, Piero Sadun, Arturo Carmassi, Alfredo Chighine, Giuseppe Ferrari, Bruno Pulga, Piero Ruggeri, Sergio Saroni, Giacomo Soffiantino, Sergio Vacchi, Vasco Bendini, Mario Bionda, Gianfranco Fasce.

Di lì a poco, altre traiettorie avrebbe assunto la via di molti di questi artisti, alle viste di maturità autonome e spesso autorevoli. Ed altre ancora il dibattito. Resta, quasi come un’epigrafe, ancora una frase di Arcangeli, ben consapevole che “la natura, comunque, si presentava nuova, e ultima. Autre, si direbbe più facilmente ora. Fu inevitabile, anche se rischioso, richiamarsi a una situazione lombarda, che frastornò molti: il discorso fu sùbito più o meno volutamente, frainteso, e naturalmente tanto più da chi non sa, o non suppone, che cosa sia, e sia. stata, lombardia” (27). Una “situazione non improbabile”, appunto, una situazione quanto viva, quanto vera.

Note

1. C. Carrà, Misticità ed ironia nella pittura contemporanea, in “Valori Plastici”, II, 7-8, Roma, luglio-agosto 1920. 2. C. Carrà, Fontanesi, Valori Plastici, Roma 1924; Idem, Ettore Cosomati, Edizioni Bottega di Poesia, Milano 1923; Idem, Pittori romantici lombardi, Istituto Nazionale Luce, Roma 1932. Fondamentale è la lettura di  P. Fossati, “Valori Plastici” 1918 – 22, Einaudi, Torino 1981. Ancora Fossati, in “Amate sponde”. Pittura di paesaggio in Italia dal 1910 al 1984, catalogo della mostra, Palazzo Liceo Saracco, Acqui Terme, 1984, così sintetizza questa posizione di Carrà: “il dipingere paesi tira dal lato di un dipingere autoritraendosi”. 3. R. Longhi, Carlo Carrà, Hoepli, Milano 1937. 4. R. Longhi, Paesisti piemontesi dell’Ottocento, in XXVI Biennale Internazionale d’Arte, catalogo della mostra, Venezia, 1952. Fondamentale è ora la lettura di M.C. Bandera, Il carteggio Longhi – Pallucchini. Le prime Biennali del dopoguerra 1948 – 1956, Charta, Milano 1999, dal quale si evince l’attenzione di Longhi al dibattito contemporaneo, mediata tra l’altro dal rapporto con l’allievo Francesco Arcangeli: come si vedrà, il più impegnato nella definizione di un orizzonte naturalistico. Anche Arcangeli d’altronde è autore di un saggio su Fontanesi: Antonio Fontanesi, in Mostra dei pittori italiani dell’Ottocento, Accademia Clementina, Palazzo Salina-Amorini, Bologna, 1955. 5. I pittori della realtà in Lombardia, saggio di R. Longhi, a cura di R. Cipriani e G. Testori, catalogo della mostra, Palazzo Reale, Milano, 1953, Amilcare Pizzi, Milano 1953. Giovanni Testori è tra i critici più attivi nell’art vivant del tempo, proprio in seno alla definizione di un’area naturalistica. Altri critici  impegnatissimi sul fronte del dibattito del dopoguerra danno testimonianze eloquenti in tal senso: Marco Valsecchi cura la Mostra di G. Carnovali, detto il Piccio, ai Musei Civici, Varese, 1952; pochi anni dopo anche Alessandro Cruciani curerà Pittori lombardi della realtà, Vallardi, Milano 1962. 6. G. Testori, Ennio Morlotti, in XXVI Biennale Internazionale d’Arte, cit. 7. F. Arcangeli, Morlotti, catalogo della mostra, Galleria del Circolo di Cultura, Bologna, 1954. 8. F. Arcangeli, Una situazione non improbabile, in “Paragone”, 85, Firenze, gennaio 1957. 9. L. Venturi, Otto pittori italiani, De Luca, Roma 1952. Cfr. inoltre Idem, Pittori italiani d’oggi, De Luca, Roma 1958. 10. G. Testori, Realtà e natura, in “Paragone”, 85, Firenze, gennaio 1957. 11. Sintomaticamente il libro G. Courbet, Il realismo, esce per Universale Economica, Milano 1954, a cura di Ernesto Treccani. 12. E. Morlotti, Lettera a Francesco Arcangeli, 22 settembre 1956, in Questa mia dolcissima terra. Scritti 1943 – 1992, Le Lettere, Firenze 1997. 13. F. Arcangeli, Morlotti, Edizioni del Milione, Milano 1962. 14. Va ricordato che nel 1952 esce M. Tapié, Un art autre, Gabriel-Giraud et Fils, Parigi. 15. Dodici pittori italiani. Afro Ajmone Birolli Carmassi Cassinari Meloni Moreni Morlotti Romiti Santomaso Vacchi Vedova, testo di M. Valsecchi, “Il Milione”, 2 n.s., Milano, marzo 1953. 16. Paesaggi di Morlotti 1939 – 1953, testo di G. Testori, “Il Milione”, 3 n.s., Milano, ottobre 1953. 17. Paesaggi di Morlotti 1939 – 1953, cit. 18. F. Arcangeli, Gli ultimi naturalisti, in “Paragone”, 59, Firenze, novembre 1954. Impostazione affine avrà Una situazione non improbabile, cit. Entrambi i saggi si leggono ora in Dal Romanticismo all’Informale. Il secondo dopoguerra, Einaudi, Torino 1977, così come Astrattismo e Realismo, uscito in “La Fiera Letteraria”, Roma, 12 dicembre 1948, già indicante la presa di distanza dell’autore da tale contrapposizione polemica. Utile anche, per comprendere lo spettro delle attenzioni di Arcangeli e il suo metodo “sentimentale” di approccio, la lettera a Longhi, datata 26 marzo 1956, in cui si traccia un quadro complessivo della giovane arte italiana: ora in M. C. Bandera, Il carteggio Longhi – Pallucchini, cit., ove si legge: “a Milano, manderanno Ajmone e Carmassi, Chighine e Peverelli e Bergolli, Dova e magari anche il Crippa?”. Cfr. inoltre F. Arcageli, Arte e vita. Pagine di galleria 1941- 1973, 2 voll., Accademia Clementina – Boni, Bologna 1994. 19. Ad esempio A. Zanzotto, Dietro il paesaggio, Mondadori, Milano 1951; V. Sereni, Stella variabile, Garzanti, Milano 1981. 20. R. Carrieri, Alfredo Chighine dentro l’Atmosfera, in “Epoca”, 322, Milano, 2 dicembre 1956. 21. In Giuseppe Ajmone, a cura di G. Bonini, catalogo della mostra, Galleria Civica d’Arte Moderna, Palazzo dei Diamanti, Ferrara, 1984, Grafis, Bologna 1984. 22. Quattro pittori. Ajmone Carmassi Chighine Romiti,  a cura di F. Russoli, “Il Milione”, 13 n.s., Milano, marzo 1955. Di  “colore denso e umido come erbe” scrive M. Valsecchi, Quattro pittori al Milione, in “Tempo”, XVII, 16, Milano, 21 aprile 1955. 23. R. Tassi, La pittura dei giovani, in “Criteri”, 3 – 4, Parma, novembre – dicembre 1955. 24. E. Tadini, Alfredo Chighine, in Quattro pittori dell’ultima generazione. Ajmone Bendini Chighine Vacchi, “Il Milione”, 16 n.s., Milano, febbraio 1956. 25. R. Birolli, Gianfranco Fasce, in Quattro pittori dell’ultima generazione. Carmassi Fasce Ferrari Pulga, “Il Milione”, 18 n.s., Milano, aprile 1956. 26. M. Valsecchi, Trentaquattro opere della giovane pittura italiana, Edizioni del Milione, Milano 1958. L’autore vi insiste esplicitamente sull’ “inclinazione romantica” e su “sottili coincidenze tra vita, sentimento e immagine al confine più dibattuto della nostra conoscenza”, richiamando la ricerca iniziata con la mostra del 1953. 27. F. Arcangeli, Vasco Bendini, “Il Milione”, 30 n.s., Milano, gennaio 1958.