Chagall scultore, e non solo, in Marc Chagall, catalogo, Museo d’Arte Moderna, Villa Malpensata, Lugano, 8 marzo – 1 luglio 2001, Skira, Milano 2001

Nell’estate 1952 Marc Chagall soggiorna a Chartres, le cui vetrate saranno il  motivo ispiratore primo della sua straordinaria esperienza in tale ambito disciplinare. Chartres è, tuttavia, anche il Portale dei Re e il Portale del Nuovo Testamento, partiture di scultura nelle quali narrare e figurare si compenetrano per congeneità indissolubile: parti, a loro volta, d’un edificio che, tutto, è opus dell’arte, frutto d’un pensiero che non distingue le tecniche ma le declina in funzione d’un pensiero complessivo della forma e del senso.

Saranno certo, di lì a poco, ragionamenti affini quelli che egli andrà conducendo tra la Grecia e Ravenna, a intonare una tarda maturità così fervida e, rispetto alla storia pur illustre dell’artista, innovativa.

Queste esperienze, le riflessioni che possiamo presumere le abbiano accompagnate, sono le stesse che hanno indotto Chagall ad affrontare in modo finalmente svincolato da remore la questione della scultura, avviando una produzione non ricca quantitativamente, ma di straordinario interesse.

Chagall è tornato nella “sua” Francia nell’agosto 1948, reduce dalla consacrazione definitiva conferitagli dalla retrospettiva del 1946 al Museum of Modern Art di New York. E’, con i colleghi d’una generazione inimitabile, uno dei grandi maestri del secolo. Potrebbe limitarsi a riscuotere i dividendi culturali d’una vicenda espressiva formidabile, a cominciare dal premio per la grafica di cui lo onora la Biennale di Venezia di quell’anno, e dalle mostre che qua e là nel mondo gli si preparano. Invece, la scelta di risiedere nel Sud della Francia, se da un lato lo fa sentire certo vicino – e, di nuovo, in sottile competizione – a Picasso e Matisse, dall’altro gli infonde la chiarezza e l’energia di tentare la via di una dimensione pubblica, civile, dell’arte, che non si limiti al crepitio poetico della pittura d’atelier ma misuri l’opera d’arte con il metro della sua stessa storicità, e d’una capacità di sacro fatta forma.

Il soggiorno del 1949 presso Saint-Jean-Cap-Ferrat, poi la residenza definitiva alla Colline di Vence, raccontano delle prime, per certi versi ineludibili prove in ceramica. Madame Bonneau a Antibes, Serge Ramel e la Poterie du Peyra a Vence, L’Hospital a Golfe Juan sono testimoni delle sue prime prove. Ma l’approdo, per certi versi  anch’esso inevitabile, è all’atelier Madoura di George e Suzanne Ramié, a Vallauris, nel cuore stesso della nuova fucina formale di Picasso.

Chagall, Due nudi, 1951, particolare

Chagall, Due nudi, 1951, particolare

L’aneddotica ci ha tramandato il fastidio manifestato dallo spagnolo per quella che avverte come un’intrusione, una sorta di “furto del fuoco”, che porterà al congelarsi dei rapporti tra i due. Ma è ben vero che, al di là della curiosità contingente per la sperimentazione tecnica, Chagall fa i conti, tra i forni di Vallauris, con un orizzonte problematico assai più ampio.

C’è, da un canto, la sua ricerca del momento di “couleurs fraîches et brutes” – così egli stesso si esprime – che si legge nella serie fitta di gouaches del tempo, nella scansione netta delle zone cromatiche di opere come Il circo azzurro, 1950 o Un mondo rosso e nero, 1951. C’è la tensione a una plasticità più marcata, meno affidata alla fascinazione smagliante e profonda, intrisa talora di disagi tonali, di acidità e dissonanze, del colore d’anteguerra. Già tempere come Sirene e La bestia e il bambino, 1949, indicano tale orientamento, che si esplicita ancor più chiaramente nei 26 lavis a inchiostro per i Contes de Boccace pubblicati a Parigi nel 1950, e culmina nella successive chine a pennello, da  Donna e animale, 1952, a Angelo, 1954, su su sino a Giona, 1960.

D’altro canto, il concentrarsi dell’artista sul meccanismo fantasticante della metamorfosi, della trasformazione della forma nella materia, gli fa avvertire quanto limitante sia lo schema metaforico della pittura. E’ “con lui soltanto, che la metafora fa il suo ingresso trionfale nella pittura moderna” ha scritto André Breton in  Le Surréalisme et la peinture, invitando a rileggere il ruolo anticipatore di Chagall negli sviluppi della modernità. L’artista, tuttavia, pur onorato dall’omaggio, non solo ha in sospetto la deriva iconografica surrealista, e tende semmai a chiarire con ancora maggior inflessibilità che lui ragiona d’organismi, non di figure della mente, d’una tutta sua naturalità “primitiva e materna” (così Mircea Eliade, 1963), d’una generazione e del suo fluire per organicità altre, per altre sensualità: non è ivresse visionaria: vuol essere terra che genera, genera forme e trasformazioni, il biblico “io sono l’argilla”.

Le mostre da Maeght del 1950 e 1952 presentano soprattutto quadri realizzati in ceramica a piastrelle, contigui comunque al codice pittorico. Se in essi si avverte, come testimonia Walter Erben, che “i colori sbocciavano come qualcosa di organico nella profondità della scena, delle immagini ivi sviluppatesi, divenuti un tutto unico con esse”, e la tensione alla dimensione architettonica, alla contaminazione con lo spazio storico della forma, è altrettanto vero che Chagall non può considerarle punti d’arrivo, bensì di partenza.

Quanto contino gli esempi prossimi, è detto dai plurimi confronti che possiamo incrociare tra le plastiche biomorfe del Max Ernst degli anni Trenta  e, più, della formidabile serie del 1944, in cui svettano opere come Moonmad, Il re gioca con la regina, La regina bianca, in parallelo al nuovo corso avviato da Arp con le Concrezioni umane; le fantasmagorie plastiche di Mirò, da Uccello, 1946, alla tettonica sensuosa contraddetta da graffiti di Donna, 1949; le pietre trattate a scabro rilievo inciso di Braque; e, certo, opere di Picasso come il Centauro e la Forma femminile del 1948, nate proprio a Vallauris a presto tradotte dalla ceramica al bronzo. Quanto incidano i retaggi lontani, ma per altri versi più amorevoli, come il duro lavoro di Gauguin sul “deformare” (“quando si vuole esprimere un po’ misteriosamente in parabole, quando si vogliono trovare delle forme”), sul rilievo e sull’utilizzo della forma ceramica come portante di decorazioni dipinte, è solo ipotizzabile, ma tutt’altro che accessorio.

E’ certo che, sin dal 1951, Chagall affianca alla docilità plastica della ceramica la stereometria brusca della pietra, prediligendo una materia calda, coloristica e non straniante come la pietra del Rodano, e solo talvolta, ma per analoghe possibilità di non snervato pittoricismo, il marmo. Egli tratta il blocco a rilievo basso, operando per soluzioni iconografiche deliberatamente ambigue. La sua attrazione storica per la compenetrazione e lo scambio tra elemento antropomorfo e zoomorfo – si pensi ad esempio a Il gallo, 1929, La cavallerizza, 1931, Il tempo è un fiume senza rive, 1930-1939, Il cavallo rosso, 1938-1944 – si rinsangua non solo con la nuova attenzione per il metamorfismo fantastico della scultura medievale e per la perdurante tradizione popolare del rilievo in pietra a destinazione architettonica, così evidente nella Francia meridionale, ma anche e soprattutto per l’intuizione di agire su plurimi livelli di trasmutazione formale. Il passaggio, il flusso metamorfico, avviene tra la persona e l’animale tanto quanto tra la forma codificata dell’oggetto ceramico e le figure, tra il blocco di pietra e le figure: in tutta evidenza, perché pare avvincere l’artista più il senso del passaggio, della trasformazione, di quel connaturarsi e dissolversi, insieme dicendosi, delle identità, tra forma e forma, e tra materia e forma. Ben lungi da bamboleggiamenti di non-finito, così come da primitivismi che sarebbero ormai epigonali, anche in scultura Chagall ritrova la sua tutta affatto particolare primarietà, l’antico meravigliato pronunciarsi del colore cum figuris così come, ora, della tattilissima materia. “La vita della figura rimane seminascosta nella profondità della materia e solo assai lentamente se ne svincola”, ha scritto acutamente Frantz Meyer, echeggiando una nozione di vie des formes di cruciale momento nella cultura novecentesca.

Queste forme cavate alla pietra sono anche, a un tempo, stele e capitelli, voglie di colonna, voglie d’architettonico: al pari del ragionare sul mosaico, sulla vetrata, sull’arazzo, ai quali Chagall dedica nello stesso volger d’anni pari entusiasmo.

E’ da ricordare il peso d’incentivo emulativo – ma, più, di spinta a osare – dell’opera di Matisse alla Cappella del Rosario di Vence, alla quale l’amico attende sin dal 1947, e che già nel 1950 può dirsi, dal punto di vista della concezione, compiuta. Quando, tra il 1955 e il 1957, Chagall affronta la partitura decorativa completa per Notre-Dame-de-Toute-Grâce di Assy, utilizza insieme il mosaico, il bassorilievo dalle deliberatamente forzate figure allungate, la ceramica, e la vetrata. Trovando nella plenitudine decorativa, nella complessità dei livelli inconografici e di senso, la misura, s’è detto, della storicità dell’arte e l’aroma insieme d’un valore del sacro sul quale, quasi perfetta sintonia, Weidlé ha intestato le sue Les abeilles d’Aristée. Trovando, insieme, possibilità ulteriori di moltiplicazione del suo flusso mutante di forme e di materie, che assume una sorta di stupefatta ansia cosmica, di dilatazione che da mentale si fa tutta fisica, per innescare ulteriori complessi trascendimenti intellettuali e affettivi.

Verranno, poi, le grandi vetrate con Charles Marq a Reims: per la cattedrale di Metz, 1962-1964, per la sinagoga della clinica dell’Hassadah-Hebrew University a Gerusalemme, 1960-1962, per le Nazioni Unite a New York, 1964. E il soffitto per l’Opéra di Parigi, 1962-64; e gli arazzi con Yvette Cauquil-Prince e con la manifattura Gobelin, di cui offre prova grandiosa nel Parlamento di Gerusalemme, 1964-68.

Le sue figure nascono davvero, ora, al mondo, sono materia e luce, visione e tatto, respiro dell’animo e sensualità dispiegata in definitiva felicità. Perfetto compimento d’una avventura espressiva, e a ben vedere autentica opera d’arte totale, modernissima e antica: vera, gioiosa, geniale tanto quanto non intellettualistica e programmatica. 

 

Nota

I testi cui si fa riferimento sono W. Erben, Marc Chagall, Milano 1957; F. Meyer, Marc Chagall. La vita e l’opera, Milano 1961 (con bibliografia); Hommage à Marc Chagall, prefazione di J. Leymarie, catalogo, Parigi 1969 (fondamentale per la presenza di 92 ceramiche e 26 sculture); Hommage à Marc Chagall, “XX siècle”, numero speciale, Parigi 1969; C. Sorlier, Les céramiques et les sculptures de Chagall, Monaco 1972; W. Haftmann, Marc Chagall, Milano 1973; W. Haftmann, Marc Chagall. Disegni, acquerelli, guazzi, Milano 1976; S. Forestier – R. Giusti (a cura), Marc Chagall. Vitraux et sculptures, catalogo, Nizza 1984; S. Compton (a cura), Chagall, catalogo, Londra 1985; S. Forestier – M. Meyer, Chagall e la ceramica, Milano 1990; S. Forestier, Chagall. Opera monumentale: le vetrate, Milano 1987 (con bibliografia; nuova edizione ampliata, Milano 1995); S. Forestier (a cura), Marc Chagall 1908-1985, catalogo, Firenze – Milano 1992 (con bibliografia); F. Paquet (a cura), Marc Chagall. Le années méditerranéennes 1949-1985, catalogo, Nizza – Vence 1994; J. Baal-Teshuva, Marc Chagall. 1887-1985, Colonia 1998. Inoltre C. Zervos, Georges Braque. Nouvelles sculptures et plaques gravées, Parigi 1960; H. Read, Arp, Londra 1968; W. Spies, Les sculptures de Picasso, Losanna 1971; F. Gualdoni, Pablo Picasso. Le Edizioni Madoura, catalogo, Cerro-Laveno Mombello 1981; P. Schneider, Matisse, Parigi 1984; W. Spies, Max Ernst, Monaco – Parigi 1991; C. Lanchner, Joan Mirò, New York 1993.