Pogliaghi
Lodovico Pogliaghi. L’accademia e l’invenzione, catalogo, Musei Civici, Varese, 9 febbraio-31 marzo 1997, Lativa, Varese 1997
“Acuto e curioso ricercatore, dallo studio dei capolavori, degli oggetti e pezzi rari che andava scoprendo, affinava la sua tecnica decorativa anche in forme d’arte applicata: pittura di vetrate, decorazioni, stucchi, scenografie, incisioni, stoffe, rilegature, vetri, oreficerie, sempre perfette ed esemplari, preziose di smalti e d’incastonature.
Per lui l’arte fu sempre la subordinazione di tecniche scrupolose e approfondite a una fantasia ispirata e guidata da ideali di bellezza stilistica, sempre nell’umile religioso rispetto della forma sensibile e della naturale armonia”.
Così Ottavio Alberti, in un ricordo di Lodovico Pogliaghi (1) che figura tra le scarne, avare a ben vedere, testimonianze bibliografiche sul “serio coscienzioso lavoratore d’arte” che ebbe in vita onori e commesse illustri, ma che i mutamenti furiosi del gusto, sommandosi al suo carattere schivo sino all’appartatezza, hanno reso ben presto figura sin troppo marginale del passaggio tra Otto e Novecento.

Pogliaghi, Studio di nudo femminile
Questioni di gusto, certo. Ma, più ancora, la concezione stessa che Pogliaghi sempre coltiva della fisionomia dell’artista: professionista prima che genio, e soprattutto professionista capace d’intervenire a ogni livello, e in ogni ambito specialistico, della pratica d’arte, secondo un’accezione della decorazione che eredita dalla storia il valore di totalità dell’organismo artistico, e di unità inventiva e stilistica nelle sue differenti esplicitazioni. Una concezione che, ben conosciuta, condivisa, praticata nelle aule della Brera ottocentesca e nel milieu milanese, è stata resa d’un tratto anacronistica, ma insieme si è vista in altri modi rideclinare, negli anni Trenta – guarda caso nella stessa Milano ancora nutrita d’una possibile “idea della magnificenza civile” – dal clima fervidamente contaminato delle Triennali, del quale incarnazione perfetta sono state figure come quelle di Giò Ponti, Lucio Fontana e Fausto Melotti.
Pogliaghi, nativo di via Manzoni, attivo tra lo studio in Palazzo Crivelli di via Pontaccio e le aule di Brera (oltre che nella casa della vita al Sacro Monte varesino, vera opera d’arte totale e compiuto autoritratto), è personalità centrale della cultura artistica milanese del secondo Ottocento.
Nella cerchia dei suoi maestri d’accademia fanno spicco Pietro Magni, Giovanni Strazza, e in particolare Giuseppe Bertini. Magni, a lungo attivo nella Fabbrica del Duomo, è autore di monumenti come il Gioacchino Rossini del Teatro alla Scala, 1871, e il Leonardo da Vinci in piazza Scala, 1872. Strazza, allievo di Pompeo Marchesi e autore del Gaetano Donizetti del Teatro alla Scala, è interprete esemplare della mediazione classico-romantica che molti maestri di Brera tentano all’ombra incombente ma fondamentale di Francesco Hayez. Ma è Bertini a influenzare maggiormente il giovane Pogliaghi, la cui formazione primaria è pittorica, di pittura per decorazione.
Autore di una delle più attente e qualitativamente consistenti interpretazioni della pittura di storia di filigrana civile, oltre che notevole ritrattista, Bertini incarna ben più che una semplice posizione stilistica, nell’orizzonte che da Hayez trascorre ai Diotti, agli Arienti, agli Strazza. Egli si assume in toto la responsabilità d’un gusto, la fisionomia – mutuata dalla mitologizzazione dell’intellettuale rinascimentale che ha largo corso nel secolo scorso: a far cominciamento dal primato stesso della cultura in sede civile – di una attitudine d’arte che tende a mediare tra forme di cultura contigue – in specie la letteratura e la musica – e a distillarne i portati in una concezione complessiva della visione che si fa architettura e partitura decorativa, pittura e scultura: décor, ma come arredo dell’intelligenza.
Stretti sono i rapporti di Bertini con due figure esemplari della Milano intellettuale e civile di quel tempo, Andrea Maffei e Gian Giacomo Poldi Pezzoli (2) : per quest’ultimo lavora alla casa-museo lussureggiante di decori e di opere, impresa alla quale chiama a collaborare il giovane allievo (sarà lo stesso Pogliaghi, allo scorcio della sua lunghissima vita, a far da guida a Ferdinando Reggiori nel restauro di casa Poldi Pezzoli dopo i disastri della seconda guerra mondiale; il restauro avrà compimento nel 1951, dopo la morte dell’artista), come avviene anche per Palazzo Turati in via Meravigli.

Pogliaghi, Studio di drappeggio
E’ in questo clima, e con esperienze come questa, che Pogliaghi matura la nozione di storia come repertorio di modi e modelli, e di pratica artistica come amorevole “scegliere e ricomporre”, che ne caratterizzerà per sempre la vocazione, e che si nutrirà di una curiosità aperta e acuta, unita a uno studio intenso e coscienzioso, consapevole di una sua propria incoercibile moralità.
Altri allievi prendono le mosse dalla scuola di Bertini, da Mosè Bianchi a Tranquillo Cremona. A differenza di questi, per Pogliaghi la lezione romantico-accademica nutrita di storia, che si distilla sino a farsi ritrovamento dell’idea di classicità, è di per se stessa garanzia di modernità, ma di una modernità cautelata, pensosa, che matura per evoluzioni e non per fratture di gusto, per amplificazioni e non per contraddizioni della tecnica, come autofondato luogo buono.
Del resto, nell’incubante clima dell’avanguardia, la sua posizione incarna quella prevalente nell’orientamento del tempo, in nome di un eclettismo in cui posizioni neorinascimentali e neogotiche informano di sé la cultura della committenza ufficiale e di quella nuova, tanto da far da brodo di coltura alla partecipazione nostrana al liberty, nella versione aggraziata del floreale.
Le opere con le quali prende ad affermarsi, dopo l’apprendistato prevalentemente pittorico, sono il Prometeo per Palazzo Turati, 1884, e il crocefisso e i candelabri per il Duomo di Como, 1886. Si tratta di opere che dichiarano apertamente la predilezione per la classicità ingentilita di maniera che nutre tutta la sua attività di ornatista: modello ideale ne è la figura di Benvenuto Cellini – amatissimo artista, benché lontanissimo per temperamento – e poggiature concrete ne sono primariamente il Giambologna, al quale fa riferimento aperto non solo il Prometeo, ma anche una deliziata Venere al bagno, giovanile, ora conservata nella casa-museo al Sacro Monte, svolta preziosamente tra patinatura nera del bronzo, doratura, e inserzione di pietre dure; così come in seguito, nella prova massima della porta centrale del Duomo milanese, sarà la triade Jacopo – Ghiberti – Donatello, con trascorrimenti barocchi.
“Dal tardo neoclassicismo, ancor vivo nella seconda metà dell’ottocento, per la tradizione conservatrice delle Accademie, l’artista passò ad una familiarità quasi connaturale con l’arte della Rinascenza e barocca; per approdare a un medievalismo fantastico, fra bizantino e barbaro, accompagnato, nelle parti figurative, dal verismo corretto di gotica eleganza, quale si vede nella valve del Duomo di Milano”: così Eva Tea (3) , a tracciare un orizzonte di scelte che è, può ben dirsi, quello d’un eclettismo alto e sapiente.
A fianco, ecco le tavole per la Storia d’Italia di Francesco Bertolini, che prende a uscire nel 1886 da Treves (il I volume è Dalle origini italiane alla caduta dello Impero d’Occidente, il III, 1897, sarà Il Rinascimento e le Signorie Italiane) il cui piglio è tutto aderente alle ragioni e ai modi della pittura di storia, soprattutto per ciò che concerne lo scrupolo documentario della narrazione e delle ambientazioni, paritetico alla evidenza primaria del racconto. Non solo queste tavole, trattate a monocromo, che in varie stagioni lo occuperanno a lungo, sono figlie non banali del modello di Hayez e della lezione bertinesca (4) , ma rappresentano, assai più di quanto non si sia riconosciuto, uno dei paradigmi sui quali s’intesta l’illustrazione popolare dei primi decenni del Novecento (al pari delle tavole più tarde di Pogliaghi che narreranno, durante la prima guerra mondiale, le vicende del fronte), attraverso il passaggio a un basso tematico che già s’intravede nelle tavole di Edoardo Matania, che s’alterna al Pogliaghi nel lavoro per Treves, e una maggior arditezza nel competere con l’affermarsi del racconto fotografico, com’è per l’amico Achille Beltrame dalle prime tavole per la “Domenica del Corriere”, 1898.

Pogliaghi, Studio di figura
La cerchia di riferimento di Pogliaghi, lontana da ogni abbassamento popolaresco, rimane quella della cultura più sobriamente engagée, in seno all’ufficialità del suo tempo. E’ sodale di Giovanni Morelli, di Camillo Boito (per il quale progetta, tra l’altro, le decorazioni della cappella Verdi della Casa di riposo dei Musicisti, 1903) e di Arrigo Boito (sua la scenografia del Nerone scaligero, 1924, diretto da Toscanini, alla quale attende dal 1901; sua è anche la tomba Boito al Cimitero Monumentale milanese), di Alfredo D’Andrade, di Corrado Ricci…
E che di ufficialità si tratti, è detto dalla vittoria nel concorso per la porta centrale del Duomo milanese, 1894, attribuitagli da una commissione in cui figurano Leonardo Bistolfi, Domenico Trentacoste, Camillo Boito, Luigi Conconi; vittoria che segue di poco l’assunzione della cattedra di ornato all’Accademia di Brera.
La facciata per cui è prevista la porta di Pogliaghi è quella di Giuseppe Brentano (5), nel momento di massima tensione verso la riunificazione stilistica del monumento alla matrice gotica. La mediazione di Pogliaghi, che gli consente anche di superare il successivo ripensamento dei responsabili della Fabbrica in favore della facciata composita ereditata dalla storia, è di dare del gotico una versione linearmente addolcita, sinuosa, sensuosa, in grado di inquadrare e connettere delle scene a rilievo il cui riferimento primo è un Rinascimento sobrio e ben equilibrato tra consistenze plastiche e pittoricismi di trattazione, con fremiti barocchi nelle nervose sprezzature superficiali, nelle abbreviazioni delle masse.
La porta è compiuta nel 1906; la chiusura superiore nel 1908. Giova ricordare che il 1906 è l’anno della grande Esposizione milanese che segna il trionfo e insieme il tramonto del liberty, con documenti come il padiglione, ora Acquario Civico, di Locati, 1905: quasi a summa di un’attività di rinnovamento estetico della città che offre testimonianze come Palazzo Castiglioni in corso Venezia di Sommaruga, 1901-04, schiusura floreale del neorinascimento, Casa Campanini in via Bellini di Campanini, 1904-05, Casa Galimberti in via Malpighi di Bossi, 1905, su su sino all’inquieto Castello Cova in via Carducci di Coppedé, 1910. E che il 1906 è data di presentazione di due pietre miliari della scultura d’inizio secolo a Milano: il monumento a Giovanni Segantini di Leonardo Bistolfi, poi a St. Moritz, e il monumento a Felice Cavallotti di Ernesto Bazzaro (6).
Ebbene, non certo “passatista” è il lavoro di Pogliaghi per il Duomo, rispetto al clima del tempo, ove si consideri l’impegno della commessa, certo non adatto alle sperimentazioni, e la vena antimodernista della Chiesa ufficiale d’allora, della quale pur si deve far conto: è, semmai, palestra perfetta del suo rapporto amorevole con l’antico, del suo senso non infastidito – ma neppure complessato, ancorché umile – della tradizione, che pure gli consente di spendere grani non banali di modernità.
Parallela ai primi bozzetti per la porta del Duomo milanese è la decisione di edificare la propria casa-studio al Sacro Monte varesino, un edificio dai tratti ecletticamente nobili, che per decenni impegnerà Pogliaghi in un’opera di connessione minuziosa, da decoratore sovrano, tra i pezzi collezionistici ai quali ispira la sua stessa visione dell’arte, dalla scultura egizia e romana alla calligrafia orientale, da Giambologna al barocco, dall’oreficeria ai tessuti, dalle medaglie (attività continua e amata di Pogliaghi, è quella di medaglista) alle ceramiche (7), per non dire della mole immensa di stampe d’iconografia: con taluni episodi di restauro e di integrazione dei materiali antichi che ben spiega un altro tratto del suo intendimento dell’arte, quella continuità “michelangiolesca” tra antico e moderno che autorizzerebbe il secondo, ove consapevole e rispettoso, a dialogare alla pari con il primo: come è accaduto in Duomo, e come Pogliaghi immagina possa accadere in progetti come quello per la risistemazione dei Fori Imperiali , o per quella della piazza Duomo milanese, cui attende per qualche tempo.
E’ da questo spirito che deriva la sua attività intensissima tra anni Dieci e Trenta. Realizza una dolente e classicheggiante Pietà per la Cappella Espiatoria di Monza, 1910, e di lì a poco una Concordia per il Vittoriano: se in tali lavori scultorei si avverte il passaggio a un più rasserenato e idealizzante classicismo, rispetto ai fremiti luministici e lineari della porta del Duomo milanese, è a modelli di più fastosa sensiblerie che fanno capo i decori per il Castello del Valentino di Torino, e la realizzazione del Museo alla Scala, inaugurato nel 1913, ai quali attende pressoché contemporaneamente.
Analogo discorso vale per le opere genovesi che lo impegnano nella Cappella Cybo in San Lorenzo, al Palazzo San Giorgio (ove riesuma la tradizione delle pitture di facciata), e al Duomo di Chiavari, per il quale concepisce anche le vetrate: qui è la pittura storica esemplata sul Cinquecento e sul Settecento veneziano, sapientemente scandita da tarsie a stucco, a far da riferimento primario, pur in una ormai definitiva allure classica che rafferma la plasticità delle forme e la cadenza compositiva.
Ormai, è come se la storia artistica, tutta la storia artistica, alla quale egli partecipa forte di una stupefacente cultura visiva e di una padronanza en souplesse delle tecniche, fosse materia di una sorta di viaggio definitivo alla ricerca d’un assoluto ideale, impregnato di moralità intransigente e insieme di ansia religiosa: non è più, forse, citazione e omaggio, ma un vero e proprio rivivere quel mondo stilistico e inventivo, atto di comprensione profonda e di reinvenzione a partire dalle stesse frequenze espressive e dagli stessi fondamenti fabrili.
Ecco, ancora, i lavori per la tomba di Dante a Ravenna, il tripode bronzeo in onore di Canova per Possagno, e la serie cospicua di committenze ecclesiastiche attraverso le quali egli, in una sospensione storica irrevocabile, attende a una conversazione tutta privata con l’essenza stessa dell’arte religiosa.
Sono il grande tabernacolo e gli stucchi per San Vittore a Varese, dal 1925, che stratificano sulla severità originaria dell’edificio un sapore di confidente scenografia; le sculture giambolognesche e la collaborazione alla ricomposizione del pergamo di Giovanni Pisano per il Duomo di Pisa, come a pareggiare erudizione e capacità di invenzione secondo un affine passo formale; ancora, i lavori per San Babila a Milano, suppellettili argentee e decori nei quali la pittura viene ripresa in chiave di forte tensione plastica; e il monumento funebre di Ludovico Antonio Muratori in Santa Maria della Pomposa a Modena, di severo echeggiamento classico.
La stagione ultima è segnata da due collaborazioni alle quali Pogliaghi attribuisce il valore di esperienze estreme. La prima è la realizzazione del portale centrale per Santa Maria Maggiore a Roma, che gli consente una riflessione sulla vicenda giovanile del portale milanese nei termini di una formatività asciutta e scarna, in cui l’ansia di classicità si fa meditazione severa anche se stilisticamente meno vigorosa: troppo avanti nell’età è l’artista per padroneggiare un’opera così impegnativa, e troppo lunghi i tempi di realizzazione, che traversie diverse fanno concludere solo nel 1949, alle soglie della morte.
La seconda è quella sorta di “opera d’arte totale”, da artista rinascimentale, che Pogliaghi ha sempre inseguito e sognato, e che solo nella casa al Sacro Monte ha potuto pianamente sperimentare. Chiamato a lavorare alla Cappella del Sacramento della Basilica del Santo a Padova, egli vi agisce dalla metà degli anni Venti “non solo come scultore, bronzista, pittore, decoratore, arredatore, ma anche come architetto” (8): è, al di là della realizzazione di singole suppellettili, sculture, restauri, una vera e propria regia totale dello spazio della visione, in cui ogni singolo minimo elemento contribuisce a un turgore di segnali e di forme che vale come riedizione del trionfo stilistico Cinque-Seicentesco, dall’artista inseguito tutta la vita.
A tale formazione e vocazione il disegno non può che contribuire con un ruolo fondativo. Rare sono state le occasioni di conoscenza del disegno di Pogliaghi (9), che pure per quantità e qualità s’impone come ambito a sé stante di grande ricchezza problematica.
Della tradizione accademica del primato del disegno Pogliaghi eredita e riedita la consuetudine continua con il foglio. Viaggiatore infaticabile, nutre il proprio repertorio iconografico di schizzi d’après di sapore settecentesco, affidati a taccuini e a paginette volanti, così come fa per i nuclei primi d’invenzione delle opere nuove.
E’ notevole l’indistinzione, nella fase germinale del lavoro, tra invenzione autonoma e citazione: ciò cui Pogliaghi mira non è tanto appropriarsi d’una forma, d’un crampo stilistico, quanto entrare in sintonia con il clima intellettuale e affettivo dal quale l’opera antica germina, e ritrovarne il passo formativo.
E’ a una fase successiva, d’officina della forma, che egli affida l’elaborazione più prettamente formale. A fianco della evoluzione degli assetti compositivi, che procede per gradi e aggiustamenti in seriazione, egli sviluppa lo studio analitico, di scrupolosa proprietà, degli elementi singoli della visione: sono studi di anatomie e di pose, ove si assapora un lavoro sul vero filtrato dai modelli dell’antico, come nella tradizione migliore, e particolari d’anatomia e di panneggio, esercizi documentari su dettagli architettonici, oppure di vestiario, oppure d’arredo.
Il segno, man mano che l’attitudine analitica e il raffermarsi dell’invenzione prendono piede, tende a consolidarsi in una maniera salda, plasticamente coagulata, della quale conta non tanto la qualità grafica, quanto il nitore formale.
E’, questo, un lavoro di vera e propria bottega, di acquisizione ed elaborazione d’un repertorio che valga alle viste dell’opera maggiore, ma insieme ne contenga e ne ausculti già tutte le implicazioni, così da assegnarle solo un ruolo di traduzione tecnica, di passo altoartigianale: e verrebbe da dire, con forzatura anacronistica, da “artigiano ispirato”.
E’ qui, dunque, che con maggior trasparenza e freschezza si coglie l’ansia di Pogliaghi di riunificare accademia (nell’accezione sua più nobile) e invenzione, storia e modernità possibile, modello e originalità, in un unitario e intellettualmente schiarito intendimento dell’arte. Qualcosa in più della nozione ordinaria di stile, qualcosa in meno, deliberatamente in meno, del primato del nuovo che innerva di sé la cultura dell’avanguardia: ma a ben vedere, il carattere più onesto e alto della cultura artistica italiana tra Ottocento e Novecento.
Note
1. La vita – le opere – la casa – le raccolte di Lodovico Pogliaghi, Santa Maria del Sacro Monte, a cura della Fondazione Lodovico Pogliaghi, Milano, 1955, pp. 12-13. Pubblicazione fondamentale sull’artista è Lodovico Pogliaghi, a cura del Comitato per le onoranze, note critiche e biografiche di U. Nebbia, Milano, 1959. Sintetiche biografie in A. Panzetta, Dizionario degli scultori italiani dell’Ottocento, Torino, 1989, e V. Vicario, Gli scultori italiani dal neoclassicismo al liberty, 2 voll., Lodi, 1994.
2. Su Andrea Maffei cfr. L’Ottocento di Andrea Maffei, catalogo, Riva del Garda, 1987, e in particolare il saggio di F. Mazzocca, Andrea Maffei patrono delle arti e collezionista. Su Poldi Pezzoli, A. Mottola Molfino (a cura), Gian Giacomo Poldi Pezzoli (1822-1879), catalogo, Milano, 1979. Il clima del tempo ben si assapora nella deliziosa testimonianza d’epoca di C. Barbiano di Belgiojoso, Brera. Studi e bozzetti artistici, Milano, 1881. Sul ruolo di Bertini, A. Ottino Della Chiesa, Giuseppe Bertini, ad vocem, in Dizionario biografico degli Italiani, IX vol., Roma, 1968.
3. E. Tea, Gli arredi sacri, in Lodovico Pogliaghi, cit., p.127; per il clima culturale, Idem, Le arti minori dell’Ottocento e del primo Novecento, in Storia di Milano, XV vol., Milano, 1962, pp. 662 sg.
4. Un quadro generale della pittura di impronta storica in E. Piceni – M. Monteverdi, Pittura lombarda dell’ ‘800, Milano, 1969; un’analisi più partita in M.C. Gozzoli, Invenzioni fantastiche e istanze storicistiche nella pittura lombarda dell’età della restaurazione, in Il Neogotico nel XIX e XX secolo, a cura di R. Bossaglia e V. Terraroli, I vol., Milano, 1989, pp. 212-223; F. Mazzocca, La pittura dell’Ottocento in Lombardia, in AA.VV., La pittura in Italia. L’Ottocento, I vol., Milano 1991, pp. 87-155; Idem, Il modello accademico e la pittura di storia, ibidem, II vol., pp. 602-628. Il rapporto diretto con Hayez e l’ammirazione di Pogliaghi per la sua pittura di storia è testimoniato dal dono che il maestro fa al giovane collega di alcuni studi per La distruzione del Tempio di Gerusalemme: F. Mazzocca, Francesco Hayez. Catalogo ragionato, Milano, 1994, p. 348.
5. Sulla facciata, cfr. G.B. Sannazzaro, Il Concorso internazionale per la facciata del Duomo di Milano (1886-88): gli antecedenti e la prima fase, e E. Brivio, L’epilogo del Concorso del 1888, in Il Neogotico…, cit., II vol., pp. 105-126. Sulle vicende della Fabbrica in quel tempo, E. Piceni – M. Cinotti, La scultura a Milano dal 1815 al1915, in Storia di Milano, XV vol., Milano, 1962; R. Bossaglia – M. Di Giovanni, Scultura romantica e floreale nel Duomo di Milano, Milano, 1977: ove Bossaglia indica il portale di Pogliaghi “al passo con i prodotti del Modernismo internazionale”, ben avvertendone gli elementi di novità. Sull’iconografia, M.L. Rizzardi, Le Glorie e i Dolori della Madonna nella Porta Maggiore, in “Diocesi di Milano”, III, 9, Milano, 1962, pp. 12-23.
6. Un repertorio completo della fisionomia cittadina del tempo è O.P. Melano – R. Veronesi, Milano Liberty. Il decorativismo eclettico, Milano, 1991. Cfr. inoltre il classico R. Bossaglia, Il Liberty in Italia, Milano 1968, e Milano 70/70. Un secolo d’arte, catalogo, Milano, 1970.
7. La vita – le opere – …, cit.; C.L. Ragghianti, La casa Pogliaghi, in “Critica d’arte”, 109, pp. 8-16; 110, pp. 3-12; 112, pp. 62-70, Firenze, 1970; S. Colombo, Tesori d’arte nel territorio della provincia di Varese, Milano, 1971; Dalla casa al museo. Capolavori da fondazioni artistiche italiane, catalogo, Milano, 1982. In ambito varesino, va ricordato l’affine e coevo episodio di eccellente collezionismo eclettico di Guido Cagnola a Gazzada: R.P. Ciardi, La raccolta Cagnola, Milano, 1965; S. Colombo, Tesordi d’arte…, cit.
8. U. Nebbia, in Lodovico Pogliaghi, cit., p.58.
9. E. Ghiggini (a cura), Lodovico Pogliaghi (1857-1950), catalogo, Varese, 1975: la mostra presenta in 152 numeri di catalogo un folto gruppo di disegni, studi preliminari e di iconografia per opere come la porta del Duomo di Milano, i decori di San Vittore a Varese e del Duomo di Pisa, e altre opere. Di E. Ghiggini cfr. anche I disegni e i cartoni di Lodovico Pogliaghi nel museo di Santa Maria del Monte sopra Varese, tesi di laurea all’Università degli Studi di Milano, relatore P.L. De Vecchi, anno 1977-78, che scheda 2464 fogli, ad esclusione dei cartoni e degli spolveri.