Enrico Della Torre. “Dire del silenzio la luce”. Dipinti 1958-1962, catalogo, Galleria Morone, Milano, 10 febbraio – 31 marzo 2011

Carattere morandiano del lavoro primo di Enrico Della Torre non è solo lo scrutinio feroce della forma nella luce, il risentimento emotivamente snudato del dato sensibile, ma anche – e forse soprattutto – quel suo volersi artista ritroso, quel vivere i tempi e i modi del dibattito artistico da un “a parte” critico che metabolizza le novità, i clamori delle istanze di stile e modo e ideologia, da una sorta di distanza definitiva: che non è anacronismo, ma consapevolezza di un voler essere della propria pittura fatto di pure necessità, di un cercare non definizioni e statuti ma ragioni inflessibili di poesia.

Della Torre, Coordinate, 1958

Della Torre, Coordinate, 1958

Dunque, nello scorcio del decennio ’50 egli si accosta alle mozioni dell’avanguardia avendo già posto in distanza definitiva quel figurare privo di destino in cui molti s’erano accampati, ma niente affatto disposto ad assunzioni fideistiche di posizione nel campo dell’art autre, in specie di rito padano.

Della Torre condivide certo, del naturalismo, quella che il Manifesto del realismo aveva proclamato “la cosciente emozione del reale divenuta organismo” e il valore dell’“emozione pura, si direbbe, e d’incontro, senza mediazioni” di cui scriveva Roberto Longhi.

Ma, lui pur padano, non può ammettere la retorica dell’implicazione totale del flusso affettivo nel sentire fisico, e quella centralità della materia che si fa talora mistica dell’organico, ed enfasi dell’esistenziale che vive il dramma del corpo. È, Della Torre, e sa bene sin da subito di essere, un artista che in altro secolo si sarebbe detto “pittore di luce” (e mi è sempre piaciuto pensare a lui come a un discendente lontano di Sassetta, per dolcezza luminosa e salda di toni, per clarté poetica, per la grandezza nella dimensione raccolta, per quel “dire del silenzio la luce” che Della Torre ha annotato in un punto dei suoi cahiers): dunque non disposto ad abdicazioni irrazionali del fare, e soprattutto a barattare l’idea di trasparenza mentale e fisica senza la quale, egli è ben certo, non può esistere poesia.

A raffermarlo sulla sua via ha Klee, e un Wols guardato sulle opere anziché attraverso le forzature critiche del tempo. Di entrambi, del primo soprattutto, egli intende declinare in modo ulteriore l’esperienza del dipingere come momento in cui l’invenzione espressiva maturi per selezione progressiva, per distillazione degli elementi visivi essenziali, nella più lucida indifferenza rispetto alla questione del figurare e dell’astrarre, ma con le radici affondanti nella qualità prima dei fondamenti formali.

Della Torre, Immagine rossa, 1962

Della Torre, Immagine rossa, 1962

In altri termini, ragiona Della Torre, se poesia dev’essere, dev’esser frutto di un labor e di una delucidazione senza remore, che restituisca lo stream prezioso del passo poetico in virtù di una lingua purificata, ragionatissima, tersa, di pudico splendore.

Lo soccorre in questa stagione, come sempre accadrà nei decenni a venire, quel suo istinto disegnativo sorgivo che nella monodia del segno essenziale si conosce e riconosce, capace di dipanarsi come per rabdomanzia emotiva ma forte del vaglio e del controllo che la disciplina – in senso morale prima ancora che fabrile – dell’incisione gli ha portato in dote.

Ecco dunque l’artista cimentarsi con l’emozione del naturale e restituirla per intuizioni primarie precisatissime, le fluenze lineari e i ritmi, le intonazioni e i caratteri cromatici, il senso della distanza che si fa sottilmente desiderante e il riverbero sottile di forme d’esatta intima ratio.

Potrebbe, Della Torre, e il transito breve del 1957 l’ha ben mostrato, affidarsi alla felicità naturale del suo segnare incidendo materie di sostanza comunque decantata, procedendo per brividi materiali sia pur rattenuti e intensi. In quel 1958 che segna l’autentico momento suo di svolta prevale invece, con felicità sovrana, l’identificazione degli elementi primi d’un fare pittura possibile – meglio, d’un fare poesia in pittura – e il dialogo cautelatissimo con ciascuno d’essi.

Di fatto, già si potrebbe dire d’una analitica della pittura spinta a un grado elevatissimo di vaglio intellettuale, in ciò anticipatrice di molte delle esperienze che anni dopo molti affronteranno: si potrebbe dire, ma avendo ben chiara l’avvertenza che la cosa che meno importa a Della Torre è l’apparato ideologico dell’arte, l’arroganza del metodo e l’oltranza dei modi: non affermare un dover essere della pittura, dunque, è in gioco nella sua scelta di vaglio ultimo, ma la concreta purezza di una pittura che sappia, e sappia dire, la forma nella luce e la luce della forma: com’è in Bianco, 1958, il cui stesso titolo vale annuncio.

Una pittura che possa porsi lì, sobria e casta, e nella sua evidenza umile e potente avvincere lo sguardo e l’animo del riguardante per sintonia di frequenza affettiva, per intimo riconoscimento.

Le sue linee sono nette non perché definiscono e strutturano, ma perché segnano un dove irrelato, la cui alterità è memoria del naturale trasfigurata in qualità tutta interna al fatto pittorico. Sia che esse si svolgano per larghi andamenti curvi, sia che si tendano rette a marcare orizzonti e diagonali, angoli e incroci divergenti; che il loro passo sia quello della filigrana geometrica oppure del crampo della mano che avverte e restituisce il tònos spirituale dell’autore, sempre esse linee sono consapevoli del proprio stesso carattere, della qualità visiva ultima, del loro decidere – non  affermare – un luogo fondamentale e irrelato del vedere pittorico.

Le linee sono passo e ritmo: questo dicono opere esemplari, da Coordinate a Ritmi, appunto, 1958. Che sempre più, di quadro in quadro e di anno in anno nella stagione che evolve sino al 1962, il colore si rende connaturate, operando per via di differenziali, di scarti e confini, introiettando nelle sue disposizioni qualificative dell’immagine la stessa facoltà struttiva.

Non sorprende, dunque, incontrare nel triennio 1960-1962 opere la cui titolazione indica le vie d’un intendimento primo che ha a che fare con l’esperienza sensibile, e parimenti altre in cui, sulla scorta d’un astrarre assunto in chiave non ideologica e comunque mai disgiunto dall’innesco esperienziale – per intendersi, più braquiano che doesburghiano – si dice nudamente di struttura e colore.

Della Torre, Composizione in azzurro e bianco, 1961

Della Torre, Composizione in azzurro e bianco, 1961

Alcune opere. Struttura, 1960, compone per zonature verticali forti d’immagine che paiono collidere e sovrapporsi, quasi in antagonismo spaziale: e l’andamento del gesto vi è mosso, aperto, in un “alla prima” nei cui recessi avverti però la saldezza e la concentrazione del gesto che sa la sua interna misura, né cerca dismisure. Ma già Nuvole, stesso anno, oltre al criticistico riferimento referenziale dice la misura di un gesto che si fa intensivo, e che determina l’immagine a partire dalla tonalità elaborante e mediatrice del fondo, tramato d’un lucore come lontano e straniato.

Già il variare minimo e attentissimo dei toni, introversi e atteggiati in una sorta di frequenza affettiva temperata, era del fatidico 1958: ora, in opere come Tavolo verde e Composizione in azzurro e bianco, 1961, ogni stesura ricerca una sorta di proprio emozionato canto mormorante che, svuotato d’ogni sensibilismo, stabilisca la mera sostanza di forme dimesse, la cui natura e il cui carattere sono nell’insinuarsi d’una zona nell’altra, come per piana complicità cromatica.

È, l’incedere di Della Torre, breve, leggero e insieme potente, agente per stacchi lun­ghi e ripensati delle pennellate, che intreccia­no non rapporti solidi di forma ma lente, rilassate cadenze tonali e brevi contrappunti luminosi, in cui le zone si fanno evidenze irresponsabili in sé d’un formare che tutto risiede in purificato accento melodico del colore, nel­la luce.

La stessa larghezza sobria e meditata d’im­pianto è in Tra muri, 1961, che dice quanto l’artista non intenda lo spazio come misura garantita dal pensiero e dalla geometria, e piuttosto come ambito irrelato e indefinito d’eventi che siano, pienamente e totalmente, di pittura, in grado di farsi di per se stessi immagine: e, immagine ad altro gradiente poetico.

È evidente che Della Torre tende deliberatamente a spossare l’asserzione prima del colore (esemplarmente in un’opera come Interno, 1962) sino a farne una sorta di pericolante condensazione luminosa. Ciò che egli ha ben chiaro – e che diverrà carattere costante della pittura sua tutta – è che la superficie della tela, fatta storicamente finestra e plesso e specchio, può divenire invece luogo assorbente, adimensionale, d’instabile misura e orientamento, in cui l’occhio non trovi certezze ma viva asciutte pulsazioni sentimentali, in cui non si dia visione che riconosce ma esperienza visiva che, distolta dalle aspettative ordinarie, s’interroghi e, se vuole, s’abbandoni allo scorrere del mood.

Immagine rossa, 1962, è, credo, il capolavoro di questa prima maturità di Della Torre. Il comporsi raggiunge una sorta di essenzialità monastica, i colori hanno forza e tenerezza, una sorta di impurità soave ch’è proprio quella della grande luce quattrocentesca, dopo che Rothko ha insegnato a tutti l’altro paesaggio, l’altro cielo.