Arcangelo. Pagano, sacro, in Arcangelo. Misteri, edizione in 50 esemplari, Il Laboratorio / le edizioni, Nola, dicembre 1998

Sin dagli inizi della sua vicenda espressiva, Arcangelo ha mantenuto saldo, e anzi coltivato, un rapporto fondamentale, di identificazione profonda e risentita mai schiava di retoriche, con la cultura sorgiva della propria terra.

Non si trattava, allora, di mettere in scena un’imagerie popolaresca, nutrita di credenze magico-rituali, secondo i canoni ormai vieti dell’esotismo folklorico. Il tentativo ambizioso era, per Arcangelo, di distillare proprio delle scorie folkloriche gli umori di una identità culturale per la quale il rapporto magico, mitico, con il mondo – la natura, la morte, l’ombra… – ha ancora senso e valore, incarnando il côté irrazionalistico sopravvivente ad ogni lògos, e sopravveniente ogni volta si tenti di farne la sostanza di una esperienza espressiva.

Identificare, della forma, dell’immagine, gli spiragli di trascorrimento simbolico, l’umore metafisico, quasi rimontando, con gesto di inattualità piena e nevroticamente desiderata, a una sorta di reidentificazione dell’anima delle cose, delle situazioni. Questo lo schema che Arcangelo ha scelto di adottare, e di accelerare nel corso degli anni sino a fare della propria pittura, della scultura, a sua volta non l’illustrazione o la narrazione di quei valori, ma l’identità stilistica stessa, in virtù d’una corporalità del gesto, d’una fisiologia forte e aliena da mediazioni, d’una sprezzatura formale, che fa della fabrilità dell’artista una forma di rituale prelogico, radiante, di stupefatta capacità di senso.

Arcangelo, Grande altare del basso e alto rilievo, 1991

Arcangelo, Grande altare del basso e alto rilievo, 1991

La serie recentissima dei lavori di Arcangelo è identificazione perfetta di questo cursus. Anzitutto per la determinazione del tema: tema, s’intende, che nulla più vale che come motif espressivo, innesco inventivo e di frequenza emotiva: l’impasto sacro/profano della liturgia, la centralità del corpo nella pratica religiosa (che tocca le corde d’un sacro orrifico e sorgivo, da cui mistero greco e sacrificio cristiano parimenti procedono), la vena di ambiguo ma persistente erotismo, il farsi totem del corpo stesso, il sovrapporsi lento ma ineluttabile di notte/fuoco e morte: tutto ciò è nutrimento forte d’una tensione fisica del fare, che si fa primariamente rapporto agonico con la tela, con il foglio.

In secondo luogo, per la intensità digrignante, aspra, inamena di quei segni che scrivono la docta ignorantia di Arcangelo, che non spiega a sé e agli altri le implicazioni del rituale, ma ne esplora spessori ulteriori, sovrapponendo senso a senso, in una collisione che sfida il collasso significativo.

In terzo luogo, per la capacità di affrontare tale materiale con istinto di modernità leggera e veloce, procedendo per abbreviazioni sintetiche e decisive, per intuizioni fondamentali e dichiarate senza pesantezze concettuali: preservando l’integrità bruciante del senso, suscitandola e lasciandola espandere con violenta tensione, anziché incanalandola in apparati modali chiariti.

L’identità profonda che egli ritrova, in questa pratica, è fondamentale: tra la cecità e la manìa dei protagonisti della liturgia, e quella deliberata e delibata dell’artista che la ricrea, riportandola alla centralità del proprio corpo, delle scintille dei propri nervi, delle fluenze del proprio sangue, così come al gorgo della propria anima.

Nulla è, in questi lavori, della maniera irrazionalista cara a troppa dell’esperienza contemporanea: Arcangelo è discendente ultimo e autentico, autenticissimo, della stirpe dei primitivi autentici del nostro secolo (ma Henry Rousseau, si ricordi, riservava a se stesso il genere moderno, e a Picasso l’egizio…), quella che ci ha dato le cose forse meno banali dell’epoca nostra: e soprattutto una prospettiva di valore, risorgente sempre, del sacro.