Virgilio Guidi. I colori della luce, catalogo, Galleria d’arte Contini, Cortina d’Ampezzo, 27 dicembre 2002 – 21 aprile 2003

È una delle vicende più saporosamente anomale dei primi decenni del secolo, la formazione e la stagione prima della pittura di Virgilio Guidi. Nella Roma del primo decennio e dello schiudersi del secondo, ove, pur attutiti, giungono gli echi del grande dibattito internazionale, egli si muove con eccentricità curiosa, non cercando tanto collocazioni e rassemblements preventivi, i quali pur sarebbero di forte garanzia per un esordiente, bensì i nutrimenti di una vocazione e un’attitudine che, ancorché acerbe, egli impara a ben distinguere.

Guidi, Donna alla finestra, 1921

Guidi, Donna alla finestra, 1921

La fuoriuscita dall’Ottocento svolta in nome di un luminismo nuovo, fratto, sprezzato anche. La scoperta dell’Impressionismo e della generazione di Matisse e Braque; più, la riflessione, da subito cruciale, su Cézanne. Il clima delle Secessioni, con quel rivalutarsi della responsabilità e della capacità di captazione emotiva del colore, al di là delle servitù referenziali ma non ad esse contrapposte. Il rapporto problematico, soprattutto, con l’onda di piena futurista, alla quale non si può rimanere estranei, ma allo stesso tempo neppure aderire acriticamente, per puro air du temps. Questo, e molto altro, è nelle sue prime prove,  dall’Autoritratto del 1910 alla Natura morta con uova e brocca, 1914-1915: nella quale, con quel rosso riverberante in tono sulle terre addolcite, già si indica quanto di materia/luce, di apparenza còlta come per addensamento luminoso, sia nel modo d’intendere di Guidi, pur senza che ciò forzi, per atto d’arbitrio intellettuale, il codice della rappresentazione.

Tra anni Dieci e Venti Guidi si attiene tuttavia, dal punto di vista tematico, al repertorio di genere più cautelato. Natura morta, paesaggio, ritratto, assettano un’iconografia che esenta l’artista dall’obbligo dell’invenzione. Nulla gli importa, a ben vedere, del fattore spettacolare dell’iconografia, dell’asserzione per meraviglia, del sovratono visivo. Allo stesso tempo la sua scelta esplicita è per il motif, per un rapporto visivo e fisico, già climatico verrebbe da dire, tra il pittore e il suo modello, in cui lo schema saputo, il retaggio classico, il ben comporre secondo metodo, non fungano da fidejussione, ma da matter problematica. È, in altri termini, un intendimento dell’antico non come modello ma come eredità, cui solo l’esperienza vitale, sensuale, non mediata da un dover essere incombente, può restituire il valore di attualità e di necessità. Di classico, e di mestiere, d’altronde molto si discute, all’aprirsi del nuovo decennio, tra “Valori Plastici” del suo amico Mario Broglio e l’incubare del Novecento. E quasi programmaticamente Guidi vi porta il contributo, anomalo naturalmente e, come sempre sarà, sottratto a raggruppamenti e dichiarazioni programmatiche, di un ripensamento di Correggio – il suo d’après della Danae è del 1918-1919 – e, più, del Piero della Francesca riscoperto da poco.

È la stagione dei capolavori, per l’artista, dalla Madre che si leva, 1921, alla Visita e al Tram, 1923, al Pittore all’aperto, 1924, per non citarne che alcuni. La sdefinitezza atmosferica dei paesaggi e di certe figure, che si usa ascrivere all’influenza di Spadini (alquanto occasionale e non così qualificante, oserei postillare) tende a saldarsi in una visione  in cui avverti come l’esperienza potente di Cézanne si proietti su un Piero riletto per il tramite di Seurat: L’uomo che legge, 1927, ne fa chiaramente mostra, ad esempio. La luce cola, alta, uniforme, in una sua sorta di biancore trasognato, come di crepuscolo freddo, a intonare variazioni cromatiche sottili (penso alla geniale contaminazione di rosa e grigi nel Tram, ad esempio) prima ancora che a scandire volumi. E i volumi si danno, in questo momento, talora precisi allo spazio, in quelle pose che sanno d’antico, salde, come riportando la sensazione entro l’alveo di un ripensamento formativo consapevole ma non spadroneggiante; talaltra fermati al punto d’avvio di una ulteriore sdefinizione, che non è, impressionisticamente, percettiva, ma frutto di una sorta di compressione, ed erosione, esercitata dalla luce sulla forma.

Guidi, Uomo che legge, 1927

Guidi, Uomo che legge, 1927

I carabinieri a cavallo, 1920, è una sorta di bilico riflessivo perfetto tra i due momenti. Figure e paesaggio si determinano in essenziale chiarezza grafica, ma per effetto di un controluce, che innesca tra forma e forma differenziali di temperatura cromatica; ed è come un premere della luce sui volumi, che vediamo decidersi ma insieme iniziare a trascolorare al lavorio incessante, teso, della luce stessa.

Guidi non può, in questo tempo, non interrogarsi sull’idea di reinvenzione monumentale del motivo, quantomeno per debito climatico nei confronti del montante classicismo, a Roma più che altrove avvertibile. Ma non è questa la sua via maestra, ed egli lo sa bene.

Più che nei dipinti di figura, ove pure si avverte una semplificazione della forma in volume luminoso addensato, è nei paesaggi (Paesaggio romano, 1925, Riofreddo, 1926, Terracina, 1927), annunci già del tempo veneziano, che si coglie la voglia di lasciar scorrere il colpeggio in liquidità e trasparenze, non per ecolalia impressionista ma per necessità di stringere l’essenziale della qualità visiva, prima che si imballi in retorica della forma e dello spazio. E nelle figure già i volti, quei suoi volti poi inconfondibili, si fanno crampi grafici essenziali, volumi pericolanti all’incidenza della luce bianca, quasi apparizioni in cui avverti l’emozione della sensazione prima, ma anche insieme il filtro di una trasognata, domestica metafisica. Tutto ciò rende immediatamente estraneo Guidi – né è da sottovalutare quanto di precisa strategia egli ponga in ciò – dalla vicenda prevalente del Novecento, alla quale pure si tende, per un certo periodo, ad assimilarlo. In fondo, l’opus magnum del Tram, alla Biennale di Venezia, dovrebbe già indicare quanto di anticlassico egli insinui nel proprio monumentalismo antieroico. E che alla prima mostra milanese del Novecento egli porti il Pittore all’aperto, con quelle sue figure saporosamente artificiose e rastremate già a plessi di tono luminoso, e con quella sua immagine che gioca dentro/fuori la retorica del plein air e dell’atelier, non può che leggersi come scelta di distanza, di alterità da subito rivendicata. Non tanto il “far casata” teme Guidi, non la politica dei gruppi. Poco gli importa di ciò, certamente. Ma, più, egli sa bene che la sua via va volgendo definitivamente altrove, lontano dai “muri ai pittori”, piuttosto verso una avventura silenziosa, soffusa, umile e potente tanto quanto privatissima.

Un destino favorevole conduce Guidi nel 1927, cioè al culmine della definitiva assunzione di consapevolezza del proprio modo pittorico, a Venezia. La serie impressionante di vedute che segnano gli anni operosissimi sino al 1929, quasi riprese di ciò che già la spiaggia di Terracina gli andava facendo intuire, spingono definitivamente Guidi verso una pittura che ha il coraggio di perdere i residui di saldezza nei confronti di questa luce naturalmente altera e altra, e di dar corso a un pennelleggiare sempre più mosso, fratto, di franca corsività talora, ove la pittura si faccia di per se stessa canto, necessità, spazio, luce. Importa considerare, al di là di più ovvii ragionamenti, quale sia la consapevolezza di Guidi di porsi di fronte a Venezia, al motif  forse quintessenziale, alla veduta per definizione e retorica conclamata, al soggetto che tutto unifica, storia e attualità, mestiere e invenzione; all’iconografia, anche, che tuttavia proprio per tale eccesso retorico in fondo consente, può consentire, non il massimo del confronto ma il massimo di libertà: e la scommessa estrema di vedere, di nuovo, con occhi spogli, ciò cui l’assedio del luogo comune rende ciechi. Eccoli, in serie sempre più fitte, la Giudecca e il Redentore, il Mulino Stucky e San Giorgio… E la pittura pare ora crepitare piena nei colpeggi sempre meno intessuti, con quei toni a intridersi vicendevolmente sino a candori lontani di cielo; ora, invece, slontanarsi in un punto di vista aereo e vagamente trasognato, ove lo skyline si faccia epifania minima entro il baluginare (il dilucolo strano, avrebbe detto Manganelli) di mare e cielo ridotti ad aliti temperati. In parallelo, Guidi saggia anche le verzure di terra, il Brenta, i campi e gli orti, scavando con fondo di pennello sino a trovare, del colore, la mera impronta, l’esalazione ultima di tono: padre, consapevole o no, e assai più di Semeghini, delle chiarità di tutta la vicenda pittorica di Burano e dintorni, in questi anni. E ancora sono, di questo tempo, del quale scorrendo le opere avverti l’intensità, l’entusiasmo dell’aver trovato, la golosità anche di fronte a una realtà che è, si per sé, sensazione e storia, emozione individuale e coscienza collettiva, nuove figure.

Guidi, Tumulti, 1961

Guidi, Tumulti, 1961

Adriana che legge, Adriana che dorme, Ritratto di Adriana, Ritratto della moglie, per stare al solo 1928, indicano anche in tale ambito d’esperienza un passaggio che si vuole definitivo. Impostato ancora su una saldezza apparente di volumi è il grande Ritratto di Adriana, con quella nitida luce incidente a segnare i volumi corporei, la dimessa ma ben presente sostanza delle cose attorno, con quella parete/quinta che sa d’antico ma anche con il blu della veste cangiante, come per interna crescenza, al violetto. È l’omaggio ultimo di Guidi ai suoi rapporto “a parte” con il Novecento, alla cui seconda esposizione l’opera è destinata. Nelle opere affini ben altri climi egli va catturando. Il senso trepido della visione “da camera”, in perfetta ma non zuccherosa intimità, trascorre dalla più marcata plasticità di Adriana che dorme a una sorta di continuo temperato in cui i differenziali di forma – una forma stretta alle ragioni referenziali sorgive, null’altro – sono in realtà variazioni di tono cromatico, nell’unità definitiva della luce. ”Perché quello che noi chiamiamo chiaro sia luce, bisogna che quella che noi chiamiamo ombra sia splendente”: così lo stesso Guidi, a significare il possesso di un valore definitivo di pittura, capace di trascendere ogni residua preoccupazione in ordine a spazio e forma, in nome di una unità sorgiva tra sensazione e idea inverata nella sostanza luminosa che, in quegli anni, ben pochi sono in grado di comprendere appieno. Le due versioni del Ritratto del pittore Prudenziato, 1934, segnano concettualmente l’epilogo di questi anni veneziani. L’uno, più legato al rapporto luce/tono di questo tempo, trova una sorta di verità fondativa nel rapprendersi di quei toni come demateriati; l’altro, azzardo che dice già del tempo ulteriore, ritrova spessore e fluenza di materia, e nel suo secco arcaismo – si dice d’echi, non di riferimenti cólti – annuncia la materia lucente, piena, fastosa anche, che sarà del dopoguerra, capace di figure pensate in schema d’essenza.

Un’altra partenza. Bologna, questa volta. Ove sarà pittura, ma anche un magistero che ancora si ricorda, ed è vivo in artisti tuttora operosi, in quell’Accademia che fa da fucina al nuovo naturalismo e all’informale, sotto le larghe ali di Guidi e il magistero ombroso di Morandi. Sono anni di transizione definitiva, questi, per l’artista. Le tematiche predilette, la figura e la veduta, prendono a sfaldarsi, a farsi sedimenti ventosi di colore dell’essenziale visivo rastremato in emotivo: trovando, soprattutto, del chiaro non la maniera, non un repertorio di stilemi, bensì una forma gentile di quello che verrebbe da dire, per osmosi climatica, primitivismo. Molto s’è scritto, e giustamente, sugli sguardi rivolti dal Guidi di questi anni alle abbreviazioni fastose di Matisse e alle sintesi in odor di metafisica di uno Schlemmer. Resta forse ancora da indagare appieno, e certo il futuro ne offrirà il destro, il dialogo, da lontano come sempre, e ora da una posizione di certezza espressiva matura, con le vicende di sintesi formale che han fatto nascere a Roma la scuola di via Cavour, e a Milano, sono parole di Raffaello Giolli “questa generazione dei vent’anni guarda più in là, anche a Parigi, in un problema della pittura che non sia ignaro della pittura d’oggi: e aggiunge, a Giotto, Modigliani”.

Guidi, Giudizio, 1957

Guidi, Giudizio, 1957

Non si tratta, ovviamente, per il nostro, di riduzione formale preventiva, men che meno di schematizzazione e stilizzazione. Ma certo, queste riflessioni su stimoli lontani e più vicini lo inducono a forzare il residuo di bon ton plastico in favore di una scrittura situazionale della forma come per presa diretta sensibile, che si fa scrittura pittorica orgogliosa d’una sua intima, concettuale immediatezza, ed essenza.

È proprio di questo tempo, d’altronde, il crescere in peso riflessivo di grumi tematici come La visita e Incontro, il quale conduce l’artista alla svolta per molti sorprendente degli anni Quaranta. Pretesti antichi, sono, che proprio nel decennio Trenta esplorano lo spettro tutto delle possibilità di soluzione pittorica, da un bozzettismo di trepida concentrazione emotiva a declinazioni più esteriormente assettate come la versione grande di Incontro, 1930, e quella della Visita, 1935-1936. È un senso di sospeso, temporalmente straniato, epos domestico, a guidare le serie, sino al rapprendersi di una “storia” che è snudata fluenza dinamica delle figure allo spazio, per via d’un pennelleggiare teso e asciutto, anch’esso emozionato, sintetico per via di concentrare non di levare, fatto ritmo e rapporti di dinamiche tonali. Ciò accade anche nella ripresa del modello del Tram nella sequenza La littorina, tema corale d’ancor più accentuato antieroismo. Certo, Matisse è il faro espressivo di questo tempo, come ammettono senza remore soprattutto talune prove del 1945, dalle versioni di Figura di donna a un atipico Nudo disteso. Ma altrettanto, a ben vedere, si potrebbe dire dell’odore di Albert Marquet in certe riduzioni di paesaggio a prosciugati e ariosi scambi luminosi, o di ripensamenti di sicuro impostati sull’antigrazioso, fatto ormai tradizione nuova, nelle Figure nello spazio che aprono il dopoguerra. Il fatto è che Guidi ha alle viste la sua tutta propria pittura di luce, e sceglie punti di triangolazione ogni volta strumentalmente utili, più che autorizzazioni storiche e teoriche.

Nello scorcio dei Quaranta si pone la questione d’un Guidi “astratto”, che è frutto più del montare delle grida da opposte barricate – così le diceva Arcangeli – che d’una effettiva posizione problematica dell’artista. Certo, lo svariare dalla ritmica strutturale delle versioni di Palazzo Ducale, 1949, alla serie Marina con griglia dello stesso tempo, e soprattutto quel ridursi dei volti, e dei profili della chiesa di San Giorgio, e delle figure sbozzate in profilo fluente, a sorte di sindoni di tono, aliti, pronunce minime della spazio nel colore/luce, potrebbe autorizzare anche una lettura siffatta, posto che ad essa si possa altresì attribuire qualche peso nella riflessione dell’artista. Ma non è così, fatti salvi taluni ovvii, fisiologici debiti climatici. Per i pittori della sua generazione e formazione (penso anche, per puro parallelo, a un Campigli) non è mai questione di compound ideologico o teorico, e men che meno di garanzia strategica del lavoro. Mai, soprattutto, questione di fede. La pittura si ama e serve perché si pratica, con fervore laicissimo, e amore spinto all’eros. Nessun altare mentale può contenerla.

Questo certo Guidi deve anche pensare quando si ritrova, un po’ alla maniera dell’ospite carismatico, a far parte della vicenda spazialista. Alla quale egli offre il portato della propria riflessione chiave, “che l’idea dello spazio s’identifica con l’idea della luce e che la luce sia l’elemento attivo dello spazio” (quanto ciò influisca su figure come Tancredi, è fatto ormai noto), anche se sempre da un punto di vista singolarissimo, riottoso ora più che mai, visto l’accendersi dei fervori polemici, a tradurre l’adesione in militanza, in proclama. Resta tuttavia la spinta, in Guidi, a forzare ancor più nettamente gli ormai labili parametri del comporre per referenza, lasciando che le movenze cromatiche giochino di per se stesse la partita con lo spazio e l’immagine: che esse poi abbiano titolo Figurazione emblematica, oppure Angoscia, oppure Architettura umana, e che si moltiplichino in esplorazioni contigue al ridursi dello stesso motif prioritario, una chiesa di San Giorgio prosciugata essa stessa a lemure entro una sorta di fasto luminoso sospeso, è indicativo di quanto poco l’artista si ponga la questione strategica di un ubi consistam mondano e definitorio.

Ritrova una sorta di grazia, di levità tiepolesca, in queste pitture e in questi anni, Guidi. Né, da quel momento, più le abbandona. I fiori, i grandi volti, gli occhi smisurati in una sorta di blow-up dell’emozione e della mente che agisce per combustione della forma verso una sorta di luce assoluta, da fisica capace di trascendersi a tutta affettiva, questo dicono.

Sono i decenni ultimi dell’artista. Operosi, operosissimi, per via d’una sorta di fragrante e tesa felicità del fare, d’una visionarietà che si rinnova in questi guizzi, in queste apparizioni brevi e demateriate, ogni volta rinnovate, ogni volta godute. Una volta a Matisse fu chiesto in che direzione andasse l’arte moderna, e il vecchio maestro rispose lapidariamente: “La luce”. Su quella via, certo, erede perfetto gli è stato Guidi.