Bruno Munari. I quadri quadrati, in Bruno Munari, catalogo, Valente Artecontemporanea a Forum, Düsseldorf, 1990

Occore una riflessione preliminare, per intendere nella giusta portata il lavoro che, soprattutto negli anni Cinquanta, ha fatto di Bruno Munari una figura insieme cruciale e divagante nel panorama della ricerca artistica d’avanguardia.

Munari è, dagli anni Trenta, figlio inconsueto della cultura futurista. D’un futurismo, però, va subito specificato, da non intendersi come sopravvivenza stilistica ormai svuotata di necessità, retoricamente vitalistica e in qualche modo formalizzabile, ma, ben intendeva nonostante la sua posizione ormai ufficializzata Marinetti, come prodromo germinale del nuovo, di un pensiero visivo capace di dispiegare la propria energia intellettuale, concettualmente agguerrita, negli spessori convenzionali del significare, e del comunicare: al di là d’una stringente stazzatura lessicale, come fatto purificato di pensiero, di atteggiamento verso il fare, verso le tecniche della visione e dello spazio.

Non dunque la dynamis boccioniana come ragione costruttiva del pittorico, e neppure la poggiatura sovranamente decorativa di Balla. Depero, piuttosto, e una declinazione nevroticamente moderna della “ricostruzione futurista dell’universo”, trascolorati ormai gli accenti utopici e palingenetici – sopravvenienze ancora del primario avanguardismo fideistico, testimoniale – e avvertiti per contro nella loro pienezza gli elementi laicamente metodologici, e di approccio critico al metodo, d’una ben più circolarmente orientata cultura del moderno.

Futurismo, nel cuore dei Trenta, per pionieri come Munari, e Max Bill, e pochi altri, è dire anche Weimar, e congiunture felicemente ambigue come Abstraction-Création: e Schwitters, Arp, Vantongerloo, ovvero le attitudini sincretistiche e mentalizzanti al di là delle ortodossie. Esperienza come pratica e invenzione metodologica, disincantata: fare non modale o enunciativo, ma di rigore interrogativo, e di trasparente ingegnosa levità. Ne deriva, a Munari, un ben avvertibile umore di dadaismo “costruttivo”, che nella sua personalità trova naturale possibilità d’innesco nella vocazione ludica, di non cinica indifferenza ai programmi totalizzanti e alle mistiche intellettuali, la quale era pure un retaggio delle prime avanguardie – per riferirci alla genia protofuturista, penso a Cangiullo, e Palazzeschi, agli esordi di Licini – ma era andata scemando sotto l’assedio dei purismi, e dei sostanzialmente omogenei ritorni all’ordine, e di un dibattito d’arte appiattito troppo sovente su scelte strategiche, d’eteronoma politicità.

Munari, Negativo-positivo, 1950-1989

Munari, Negativo-positivo, 1950-1989

La figura di Munari s’imparenta da subito a quella letteraria dl Perelà, “uomo di fumo”, di Palazzeschi. Egli sceglie di essere un nomade del rigore, di adottare la fluenza cangiante non come forma del far vedere, ma come modo di essere, di fare avanguardia, di sperimentare. E’, il suo, un understatement radicale, mobile, incoercibile: che tenta la qualità nel picco elettrico dell’intelletto insubordinato, non nell’esplicitazione stabile. Non crede nello spessore esemplare, nell’intensità dell’opera, dell’’artefatto. Essa è un continuo momento­pausa, d’una tensione brulicante: che è la sua vita, entro il pensiero della visione.

E’ nel 1950 che il lavorio di Munari approda ai Negativi-positivi. Le esposizioni che li pubblicano sono il Salon des Réalités Nouvelles, a Parigi, l’anno successivo, e una personale alla galleria Bergamini di Milano nel 1952.

Tempestivamente, ne dà notizia la rivista “Art d’aujourd’hui” con una copertina, nel gennaio dello stesso anno: a riprova, se ve ne fosse bisogno, che dall’immediato dopoguerra la figura anomala di Munari è tra quelle cui maggiormente fa riferimento chi, nelle concitate venture del moderno, cerca i segni dell’autentica spinta di un nuovo non d’epidermide.

Non si tratta, va subito specificato, di operazioni di carattere pittorico in senso classico, nonostante gli evidenti riferimenti ai paradigmi storici del costruttivismo, e il loro circolare all’interno di una situazione artistica, il Movimento Arte Concreta, fiancheggiato da artisti di stazzata vocazione astratta come Soldati e Reggiani, e animato da figure come Nigro, Monnet, Dorfles. Sono, più esattamente, operazioni sul pittorico, sul codice e l’apparato di rules and regulations che regge anche il fare d’avanguardia: la cui concettualità è lucida, ma la cui attuazione si pone deliberatamente in un “come se”, mediato, indifferente, che concentrandosi con ortodossia tutta esteriore alla norma del quadro (e “quadri quadrati” è la definizione, esplicitamente deviante e dissolutoria, che l’artista indilca per loro), ne sradica bruscamente il nodo cruciale di senso, di ragion d’essere.

Il principio percettivo su cui questa serie di opere si fonda è ovvio, e per nulla nuovo all’epoca in cui Munari l’adotta a soggetto problematico. L’aspettativa di figura/sfondo, l’assertività diversa delle zone colorate, il ritmo visivo. Un codice comunicativo, facendosi quadro, senza nulla perdere di sé assume veste di codice estetico. Le sue sagome geometriche – ma argutamente Munari esemplifica del pari l’operazione con elementi figurali – si fanno struttura, principio costruttivo d’immagine, forma “alta”. Inavvertibilmente, movendo da un meccanismo di pura aspettativa percettiva, Munari s’insinua in un ambito di assai maggior spessore, quello dell’aspettativa rivolta alla forma pittorica in quanto tale, al presentare/rappresentare del quadro, alla sua natura insieme oggettiva e metaforica.

Munari, Studio per Negativi-positivi, 1950

Munari, Studio per Negativi-positivi, 1950

Ciò che ne deriva, è una lettura in chiave astratto-costruttiva, come forme pittoriche garantite da una tradizione nobilitata, di immagini che non sono portatrici di alcuna intenzione formalistica, di alcuna configurazione compiuta del senso. Lo schema è puramente ottico, comunicativo. Fosse la copertina di un libro (e sono anni di attività intensa di Munari, in questo campo, dalla copertina del Poema del vestito di latte di Marinetti, 1937, alla serie strepitosa dei Libri illeggibili, coevi a questi quadri), sarebbe un puro motivo. L’epifania in forma deputata di pittura ne inferisce altri spessori, e livelli. Munari lavora, dunque, non sul “negativo-­positivo” come principio formale. Lavora sull’idea stessa di quadro, di “aura” preventiva, di alterità dell’opera d’arte come convenzione generatrice di altre convenzioni a catena, a cascata.

Ci offre, anche, un “what you see is what you see” – che avrà ben altre fortune in un decennio in cui l’arte di concetto sarà credo e moda – di straniante precocità: e un introibo necessario a ogni forma d’arte, da Vasarely in là, in cui sia eretto protagonista il “responsive eye”.

In fondo, questa operazione, condotta deliberatamente sul quadro come elemento di più tradizionale convenzionalizzazione artistica, non presenta differenze se non operative rispetto ad altre, dei medesimi anni. Le “proiezioni dlrette”, diapositive la cui immagine si modifica con la temperatura della luce che proietta, e le figure a luce polarizzata, e i “concavi-convessi”, le “macchine inutili” e le “macchine aritmiche”: tutto è assunzione di norme, applicazione ossessivamente letterale, e raggiungimento del punto critico, di rottura e ribaltamento: fino all’agnizione perfettamente ironica e sorridente, dell’insensatezza del codice, del metodo.

Cosa differenzia un’opera neoplastica da questi “negativi-positivi”? Che quella è un’icona, un’immagine identica e tendente alla perfezione, alla plenitudine, figlia di una affermatività che conosce e pretende all’universale. Questi invece, sono frammenti di un brivido ottico, dotati d’un principio certo, la cui funzione è tutta, laicamente, con disincanto definitivo, “aisthesis”, sensazione, fatto del vedere. Il resto, quadro, galleria, museo, prezzo, eccetera, è cornice, codice banale superfetato da un altro codice banale. Una conferma ulteriore proviene dal rapporto che Munari intrattiene, qui come altrove, con la fattura, con l’apparato operativo. Egli agisce senza la religione della padronanza, da manipolatore anziché da artefice. Tutto assume a materia d’arte, perché nulla può essere, in sé, materia d’arte, salvo il pensiero, l’idea, il brivido della mente e dell’invenzione. Gli è necessaria la precisione, il nitore, certo, ma come è necessaria a un orologiaio, non a un demiurgo. C’è più Duchamp che Mondrian, in questi lavori: e non sarebbe male che ne avesse chiara nozione anche chi, oggi, s’incanta a fronte degli onanismi degli Halley e dei Bickerton.

“Come fare moderno? Facendo astratto… II quadro astratto fa moderno e per questo si tratta di arte…”. Potrebbero essere parole di Munari, didascalie di questa serie di immagini. Le ha scritte invece Christian Besson, introducendo nell’‘86 la nuova apoteosi della stereotipizzazione astratta, in una celebre mostra a Villa Arson, a Nizza. L’ironia è la stessa, con in più un côté saporosamente warholiano.

Munari, Curva di Peano, 1974

Munari, Curva di Peano, 1974

II segnale dei “quadri quadrati”, Munari lo lancia però nel ‘52, quando impazzano i realismi d’ogni genere, e il nuovo, la moda, sono l’art autre e l’action-painting.

Alla pittura, astratta e non, si chiede spessore d’esistenza, segno forte dell’uomo, di un ethos. Munari risponde con uno scacco. Uno scacco non strategico, non polemico, ma alla ragione, alla sostanza stessa dell’oggetto del contendere, la natura e il destino dell’arte.

Nel suo stile non lancia proclami, né assume atteggiamenti profetici. Laico, lo è per davvero, fino in fondo. Colloca un inceppo nel meccanismo intellettuale, e passa ad altro: curiosità e meccanismi, per seminare altri dubbi. Anche per lui l’astrazione, la visività essenziale, è una scelta importante, ma non è una religione, né un’utopia palingenetica, come per gli altri. Rispetto ai compagni di strada, ha inoltre compreso una cosa fondamentale. Non può darsi, bauhausianamente, un’integrazione tra arti che si riconoscano diverse, ma solo una pluralità di manifestazioni, in vari ambiti e livelli e modi, di un unico atteggiamento, di un’attitudine preliminare e chiarita del pensiero: si tratti di una lampada come di un quadro.

Le traiettorie del lavoro di Munari sono svagate e nomadi come il suo pensiero, e la geografia delle sue esperienze.

Passa dal design al film sperimentale, dai libri alle xerografie, con pari lucida acribia critica, come un leonardesco guastatore.

Nei primi anni Settanta, riapproda alla questione dei quadri, dell’immagine artistica, della distonia tra immagine “alta” e immagine di comunicazione. Nel 1974 nascono, da un impulso assai simile a quello dei “negativi-­positivi”, le “proposte cromatiche per la curva di Peano”.

Il punto d’innesco è nuovamente l’identificazione ambigua tra una griglia visiva d’origine scientifica, dotata di un logos accertato e forte, con la nozione pittorica di struttura necessitata, di forma formata. E’ un assunto dolcemente perverso, che con lieve enunciato fa giustizia di due decenni di insopportabili alibi scientifici anteposti all’accademismo neocostruttivo. “La mia proposta, assolutamente superflua alla speculazione matematica…”, scrive Munari nella nota introduttiva alle tavole. E conclude: “non è necessario pensarci continuamente, basta una volta ogni tanto”.

E’ “ready-made”, dice con arguto understatement Munari, la stessa struttura grafica dell’immagine, l’astrazione più pura. Si può cavarne, con ingegno e fantasia, una serie di invenzioni dotate di un carattere estetico non disprezzabile: e, per chi ne abbia l’avvertenza, anche una serie di riflessioni lancinanti sullo statuto concettuale della pittura che si prende troppo sul serio.

L’indifferenza fabrile vi è, di nuovo, totale. Munari passa dalle tavole a stampa ai quadri. I quadri, in questo caso, implicano una divertente tautologia, rispetto ai “negativi­positivi”. La curva di Peano s’inscrive, per definizione, in un quadrato. L’immagine che se ne trae è per forza, allora, “un quadro­-quadrato”, in una sorta di patafisica evidenza, e di sberleffo a quel terrorismo del metodo che, lo diceva già Sklovskij, à un certo punto ha cominciato ad andare per i fatti suoi. Munari vi inscrive scansioni cromatiche semplici, fondate su bi-tricromie forti, che iterandosi si fanno ossessive, e percettivamente assumono un interno passo di caleidoscopio. Egli vi svolge anche, come sempre senza enunciati programmatici, un ulteriore capitolo del filo corrente che unifica tutto il suo percorso all’interno della visione, lo sviluppo di una nuova consapevolezza decorativa. Iterazione e varianti, all-over e alternanze, acentrismo e estensibilità indeterminata. Sotto l’uso asistematizzante e dolce che Munari fa delle figure matematiche, e di quelle della teoria della percezione, emerge continuamente un avvertimento dell’immagine come fenomeno incorporeo, di pura evidenza e sostanza visuale, in grado però di incarnarsi, nella sua elementare ma non insensata esteticità, nelle cose della vita.

L’articolazione sempre più fitta dei “negativi­-positivi”, così come le tarsie cromatiche nella curva di Peano, hanno la medesima fertile ambiguità apparenza/sostanza dei tessuti, dei tappeti, delle copertine di libri e riviste, delle xerografie.

Sono immagini che nascono dal mondo, e che al mondo ritornano, in fondo. Sempre. Ma vi ritornano più consapevoli, e, senza sicumere, più intelligenti. Almeno, dopo aver smesso di essere stupide.