Arnal
François Arnal. Opere su carta 1950 – 1960, catalogo, Galleria Peccolo, Livorno, 5 febbraio 1994
Sono mostre come “Signifiants de l’informel” e “Un art autre”, concepite da Michel Tapié da Facchetti a Parigi, 1952, e “Lyrisme et abstraction”, curata da Charles Estienne presso Craven, 1953, a segnalare la presenza autorevole, e la prima maturità, di François Arnal in seno alla vicenda pittorica francese ed europea dell’immediato dopoguerra.

Arnal, La digne, 1950
L’artista di Tolone, da poco approdato a Parigi, da subito vi si segnala per il “solide fond de panthéisme”, per l’energetica visionarietà totemica che gli riconosce Tapié, e soprattutto per la renitenza ad accogliere le ragioni pallide del formalismo astratto-gestuale che lo circonda, e al quale egli oppone una barbarica voglia di sostanza espressiva, di nuovo non modale: in una sorta di estraneità fondamentale cui con insistenza ci invita a guardare, in quegli anni, un esegeta anomalo come Raymond Queneau.
È, la sua, una declinazione non letterale d’art brut in cui Klee, e molteplici umori surreali tra i meno accademici, lievitano su una radice espressiva che si riconosce soprattutto nella mobilità, nell’ansia fastosa e irritata di restituire capacità autenticamente significanti al segno, al colore: che non a caso, nella seconda metà degli anni Cinquanta, farà leggere questa attitudine in parallelo a quella di Asger Jorn, in una memorabile mostra alla Rive Gauche.

Arnal, Se mouiller pour moi, 1958
Arnal vuol essere, senza infingimenti retorici, portatore d’una espressività sorgiva, primaria, capace di far affiorare nelle maglie struttive dell’immagine l’energetismo emotivo e fisico che l’ha generata: e la possibilità mitopoietica che, senza alcuna enfasi programmatica, è il suo scopo più circostanziato. La sua riottosità al bon ton avanguardistico s’esprime attraverso la sperimentazione continua, e una variabilità tecnica che – lo si avverte bene, oggi, alla lettura retrospettiva delle testimonianze critiche che ne accompagnano la vicenda, da Restany a Ashbery, da Jouffroy a Ragon – pone in difficoltà anche i fautori più convinti dell’astilismo e dell’antistilismo. In particolare, ciò che allora appariva difficile comprendere era il continuo aggirarsi di Arnal tra le ragioni storiche della concezione europea d’arte, e le incursioni reiterate nelle sospensioni della cultura orientale, nei primissimi Cinquanta non ancora oggetto delle mode segniche a venire, ma da taluni già intravista come portatrice di molte soluzioni allo stallo teorico del momento. Ed era, più, l’impertinenza sua non solo rispetto alla cerchia di più ortodossa astrazione di marca parigina, ma anche all’onda montante dello stilismo informel.
È una bella e rara serie di carte, datanti tra il 1950 e il 1952, a darci compiuta testimonianza del “foisonnement de signes” e del “semantisme généreux”, per riprendere Gassiot-Talabot, di cui Arnal è protagonista in quel momento. Siamo, è bene ricordarlo, all’alba dell’art autre, che Tapié teorizza proprio nel 1952, e in una fase in cui l’attrazione polemica con l’arte nuova statunitense non ha prodotto ancora gli strepitosi sincretismi che sappiamo.
Il depositarsi dilavato delle impronte, sindoni impadroneggiabili d’una realtà oggettiva in sé miscreduta, e il dipanarsi disorientato, cieco di destini, delle tracce grafiche, tese sul filo tra concentrazione zen e pura alea surreale, sprigionano un’imagerie sospesa e aerea, in cui ciò che importa veramente è il rapprendersi in uno spazio che non è il campo grafico europeo, proiezione in forte grado teorico d’una misura comunque fisica, bensì un vide – e quanto, le vide, conterà nell’arte francese di quel decennio… – attivato da rarefatte cadenze qualitative, da una sorta d’irrelata sismografia lirica.
È una pittura di frequenze, di tensioni, di mutazioni, in cui l’immagine non si dà come organismo formato, ma come mera possibilità di formazione, e accadimento essenziale. Scriverà su questo tempo Arnal: “Attendre jusqu’à sentir le besoin extremement précis d’un geste, d’une couleur… Une synthèse serait-elle possible entre l’expression occidentale et le calme apparent, le vide? Je cherche…”
La tache, allora, è monema originario d’un crescere dell’immagine allo spazio che si pretende fortemente necessitato, preciso, dotato d’un respiro e d’una fisiologia sensati, e non il grido della dismisura, del proclama irrazionale: non è, in altri termini, alternativa dissolutoria alla nozione ordinaria di forma, ma via non banale e non surrettiziamente accademica alla nascita possibile d’una forma in tutto autonoma, e linguisticamente autofondata.
Non è casuale che Arnal percorra tutta questa fase complessa, e la seguente di maggior tangenza con i soprassalti lirici ed espressivi del clima informale internazionale – alte paste, gesti frementi – in una sorta di continuo agonismo con l’oggetto: o meglio, con l’oggettivo: ovvero, la sensazione drammatica della separatezza definitiva tra possibile della pittura ed esperienza del mondo.
“Je désécris des histoires”, scrive ancora Arnal. E altrove: “L’objet s’est libéré peu à peu de mes signes, de mon écriture, de la couleur. Il se détache de moi. Je ne sers plus à rien…”. Restano, alla fine, tra le lunghe crisi e le pause che l’artista impone al suo lavoro – compreso un non esotico esilio a Tahiti – per non trasformarlo in mestiere, alcune certezze irriducibili, che riaffiorano ogni volta con ancora maggior urgenza intellettuale ed affettiva. La voglia di chiarezza, di essenzialità, nuovamente di incontrattabile necessità dell’immagine. E quel modo ancora stilisticamente indefinibile, mobile, energetico, teso talora al parossismo, di definire fuor di metafora, e con distillatissima economia di mezzi, lo spazio dell’atto pittorico; e quel dire senza parole sapute, quel procedere letteralmente a tentoni, cieco a ogni saputo pittorico, che fa ancor oggi del lavoro di Arnal uno dei casi più complessi, di ispida comprensione, del panorama artistico.