Amendola
Aurelio Amendola. Sacra immagine, catalogo, Ta Matete, Bologna, 22 febbraio – 31 marzo 2007
Aurelio Amendola ha cominciato a fotografare arte molti decenni fa.
Ha ritratto antiretoricamente, nel gusto della vita più che della monumentalizzazione implicita, molti grandi autori compagni di via, da Marino Marini ad Alberto Burri.
Ma degli artisti e dell’arte ha fotografato, soprattutto, le opere. E, si sa, il secolo ventesimo è stato soprattutto l’età dello sguardo mediato, della riproduzione che, scontando la perdita d’aura, ha agito come sostituto di conoscenza e come vero paradigma immaginativo di opere comunque assenti all’esperienza diretta. Dunque, ad Amendola – e con lui a pochi altri, oggi – dobbiamo una parte importante di ciò che la nostra mente pensa quando richiama un’opera, sia essa di Michelangelo o di Jannis Kounellis.
Molti anni fa mi accadde di concepire e purtroppo solo parzialmente progettare, con Federico Zeri, una ricerca che dimostrasse il ruolo cruciale avuto dalle fotografie Alinari, sulla rotta tracciata da Adolphe Goupil, nel modo moderno di pensare la scultura antica: ruolo, beninteso, esercitato non solo nei confronti del pubblico, ma anche degli artisti e degli studiosi, con intensità tale da nutrire di sé, ad esempio, l’immaginario stesso del novecentismo.
Dovessi aggiornare quel progetto oggi, Amendola sarebbe uno degli autori che collocherei in un capitolo successivo, problematicamente ricchissimo e tutto da scrivere.

Amendola, Canova, Le tre Grazie
E’ esistita la stagione della documentazione, in cui lo sguardo fotografico ha agito, nei confronti della scultura, nel senso della stereotipizzazione. Fissato il punto di vista, fissata la condizione luminosa, fissata l’inquadratura, stabilita, in una parola, la natura e la qualità documentaria dello sguardo, ecco l’opera prosciugarsi – e verrebbe da dire liofilizzarsi – in un’unica possibilità d’esperienza. Corretta, per carità, ma inevitabilmente appesantita dal gusto raggelato del riguardante (raggelato perché la stessa natura documentaria dell’immagine imponeva, così allora si pensava, la neutralità del fotografo), e soprattutto necessariamente orfana della tattilità dello sguardo, del cangiare rivelatore delle incidenze luminose e di clima, del piano sequenza soggettivissimo del flusso di lettura, nello spazio nel tempo. Corretta, appunto, e null’altro.
Con un autore come Amendola – e per citare la generazione sua e la successiva con autori come un Mario Carrieri e un Mimmo Jodice, ad esempio – siamo nella stagione della consapevolezza di quella stereotipizzazione, di quel gusto: e dunque d’un esercizio ulteriormente critico dell’immagine.
Tanto quanto la vecchia foto documentaria s’impone di rispettare l’aspettativa dello spettatore, e dunque di occultarsi dietro la centralità e le simmetrie, il punto di vista maggiore e una luce temperata e vagamente pierfrancescana, altrettanto la foto di Amendola nasce e si evolve intorno a un plurimo recupero di consapevolezze.

Amendola, Michelangelo, Pietà
In primis, egli sa che noi spettatori ci aspettiamo, dell’opera, che sia fotografata così, per averne la conferma confortevole della somiglianza a quanto la memoria già possiede – se si tratti si scultura storica e celebre, oppure per poterla accludere senza distonie – se nuova – al catalogo mentale di scultura che possediamo. Dunque, egli deve fare matter anche di tale aspettativa, agendo sul sottile confine tra l’attesa e lo sguardo nuovo: il quale, a sua volta, potrebbe essere a propria volta stereotipante, in quanto necessariamente sintetico.
In secondo luogo, egli sa però che la scultura è in sé luogo, e forma, e materia, e soprattutto anima. Sa che essa stessa non si somiglia mai, ove se ne possa aver consuetudine diretta. Dunque, facendo valore del limite possibile del proprio linguaggio, egli declina la fotografia come esercizio critico esemplare, che offre non la visione, ma una visione, deliberatamente, dichiaratamente individuata e senza pretese di onnicomprensività: a patto che sia in cambio, beninteso, visione autorevole, motivata, necessitata, concettualmente delucidata e non meramente estetizzante.
In altre parole Amendola s’è fatto, prima che fotografo, critico di fotografia, e d’arte: e solo attraverso ciò autore. Un autore la cui opera leggi come saggistica d’arte, alla quale non chiedi suggestioni di pelle, frissons letterari, ma auscultazione della qualità del proprio oggetto e restituzione in lingua appropriata, ineludibilmente bella di sostanza prima che di modo. Un autore che deve la propria qualità di sguardo alla frequentazione lunga, intensa, amorevole, delle opere che trascrive in fotografia, illuminandone il nucleo espressivo, la carica qualitativa dirompente, attraverso lo scrutinio feroce del processo descrittivo. Un autore, soprattutto, così eticamente rigoroso da sottrarsi anche alla tentazione del saprofitismo d’autorità, secondo cui la sua firma, il suo brand nella mondanità della cultura, valga tanto più quanto più forte sia la notorietà del fotografato: il suo Arnolfo non è, non vuole essere, l’ “Arnolfo secondo Amendola”: vuole essere un Arnolfo amato, letto, assaporato, attraverso l’atto critico umile e orgogliosissimo insieme del farne immagine, del guardarla. L’autorialità, dunque, come forma di rigore intellettuale, non di esibizionismo nella vulgata mediatica della cultura.

Amendola, Michelangelo, Tombe Medicee
Tutto ciò vuole indicare questa mostra in cui Amendola, giusto prima della grande esposizione delle sue foto di sculture michelangiolesche all’Hermitage di San Pietroburgo (caso interessante del circuito virtuoso per cui foto d’opere si misurano infine con opere originali, e di quel peso, entro il recinto autorevole del museo), ha raccolto una sintesi esemplare del proprio percorso in seno all’arte sacra.
Arte sacra che ha significato, per lui, interrogarsi insieme sulla scultura e sul sacro: dunque, spingere la fotografia a cogliere non solo la bellezza che vedono gli storici e gli amanti dell’arte, ma anche l’atto di fede che ha guidato la dotta mano dell’artista, fianco a fianco con la comunità che a quell’opera fede ha prestato.
Ecco allora che, si tratti d’antico o di contemporaneo, la fotografia, diversamente ma con pari intento rispetto all’opera, inzia nuovamente a far trapelare il proprio mistero, a far vivere ciò che Walter Guadagnini ha di recente definito con sintesi luminosa, e proprio a proposito della Pietà michelangiolesca di Amendola, “il tempo, sacro, della riflessione e dell’ascolto”.
Qui il souvenir turistico si è infine cancellato, l’opera si è purificata di tutti gli orpelli che la mediocrazia culturale vi ha stratificato, la storia artistica ha ripreso a fluire entro l’alveo di una ricerca di valore prima che di un’estetica algida e irrelata.
Anche per Amendola, in fondo, possono valere le parole che un grande del secolo trascorso, Vasilij Kandinskij, scrisse di un altro grande, Henri Matisse, in Lo spirituale nell’arte, e che in realtà parlano di molti: “anch’egli dipinge immagini, anch’egli cerca di riprodurre il divino”.