Marco Tirelli, catalogo, Galleria d’arte moderna, Modena, settembre-ottobre 1990, Corraini, Mantova 1990

Ha una straniata, minuziosa qualità metafisica, il lavoro di Marco Tirelli. Cresce su gesti brevi, di rattratta distillazione, di agguerrito scrutinio in­tellettuale, a trovare una qualità fabrile alta e pie­na, di matura compiutezza, ma nel ritegno ferreo all’evidenza spettacolare, alla retorica del far ap­parire affermativo.

Su una retorica, certo, si basa. Meglio, su un apparato formale di aulica stratificazione. L’auto­determinazione plastica della forma geometrica, la sua semplificata e forte capacità strutturante, quel valore architettonico lasciato trapelare per mille indizi; tutto riporta a un valore storico della forma essenziale di lungo corso, e di segreta continuità: segreta, perché scandita al di fuori delle nominazioni storiche, delle necessità conclamate del discorso sull’arte.

E’ una genealogia di chiarezze visionarie, quel­la che avvince Tirelli. E’ il Goethe dell’Altare della Buona Fortuna e Piranesi, Soane e Boullée. Il far­si spazio d’una rêverie tutta mentale, dai pudichi mormorii formali ma capace d’una stillante manie­ra grande. E’ il sogno catafratto di Oud e Terra­gni, risognato nella luce del Pantheon: che dialo­ga, dalla sua distanza inattuale, con altre figure di luce, con altre apparizioni meditative di forma: e il pensiero, per analogie sotterranee, va alle at­mosfere spaziose di Ando.

E’ forma-spazio, il motif intrigante di Tirelli, riportata a una sorta di doppio discontinuo rispetto all’esperire fisico, alle metriche ottuse del corpo: ma a quelle addossata, in una sorta di contamina­zione contraddittoria, differenziale che ne postu­la diverse certezze, e schiude piuttosto un varco che inghiotte e lievita, uno scacco continuo alla certezza di luogo.

Il suo porsi in una situazione liminale, d’asiste­matico umore architettonico (che è un modo, a ben vedere, di rimontare sinteticamente al nucleo germinante di forma-spazio: e alle implicazioni che ne deriveranno in sostanza decorativa), vale an­che su un piano di non meno sorvegliata attitudi­ne disciplinare. E’ questione, per Tirelli, anche di pittura, e pittorico, come certifica il suo talora osti­co percorso dagli inizi degli Ottanta. Questione di fare pittura: identificando nel processo, nella catena avvertita degli atti, uno statuto di necessi­tà oggettiva della forma, di qualità specificata dello spazio.

Tirelli, Senza titolo, 1990

Tirelli, Senza titolo, 1990

Tende a un fare accertato, consapevole, concen­trato soprattutto; e trasparente. Un fare, però, che non s’involva nelle arguzie sensibilistiche, nel tea­tro fantomatico delle captazioni epidermiche prime.

Esso deve essere coerente e rispondente, in mo­do definitivo, alle movenze dell’idea, d’un pen­siero a sua volta sottratto agli ingombri della cor­poreità, della fisiologia delle materie. Il corso lungo dei concettualismi, di cui l’artista ha vissuto par­tecipe degli ultimi barbagli neoavanguardistici, non d’un repertorio accademico lo ha lasciato erede, ma d’una determinazione ormai incontrattabile, che arte sia un fare, esperienza specifica, ma in quanto aggallamento e fissazione – coagulata o provvlisoria non importa – del “probabile umore dell’idea” (così Villa, a proposito di Lo Savio: non a caso interprete eminente d’una visionarietà strut­turante), in metamorfizzata e non ordinaria fisi­cità.

Pittura, allora, per Tirelli è processo e atto di finzione in senso originario –  “io nel pensier mi fingo” – nel paradosso purificato, non più disci­plinarmente canonico, della “continua alterità” (Olivieri). Altri, in questo stesso ordine d’orien­tamento, hanno scelto la via della collisione, dell’enfatizzazione sottrattiva della condizione di luo­go: penso a Mucha, a Garutti, per diverse vie. Egli, per contro, con altro rischio ha assunto e accolto la convenzione del quadro, specchio finestra scher­mo…, per mantenere su un piano se possibile an­cor più rarefatto e distante il valore soprattutto mentale del suo rimuginio plastico.

D’altronde, su un’altra condizione limite Tirelli ha scelto di assestarsi, quella tra processo pittori­co e processo disegnativo. Come in un laico, tut­to nordico esorcismo del talento, egli ha scelto di fare a meno degli artifizi del gesto, della dechiri­chiana “materia tinta”. Lavora su sedimentazioni magre, ossose, introverse, d’un carbone che allo stesso tempo sa la propria memoria storica, la pro­pria facoltà severa di bellezza, e la propria teori­cità, l’ambigua costituzione insieme progettuale ed espressiva. E ha scelto la carta, la sua verecondia scabra, la sua mancanza d’un già segnato destino alto.

Ancora una volta, Tirelli ha adottato un appa­rato retorico di forte connotazione, ma avendone ben chiaro il momento di poggiatura tutta ester­na, rispetto alla crescita del senso. L’artificio del­la mano vi si può dispiegare in antica confidenza, in perfetta identità con il moto mentale. Rimugi­nante ma insieme en souplesse, per padronanza naturale.

Cresce allora l’immagine come l’avvenire pro­prio d’una forma, d’uno spazio destinato, che nelle movenze sottili del nero trova una condizione sen­sibile. E’ il nero netto e architettonico del pro­getto, e insieme quello delle grazie sottili, dei fre­miti d’una emozione tutta cerebrale, d’un eros, verrebbe da dire, rinserrato in un corso fantasti­cante, che alita appena tattilità. Un nero a sua volta di lunga radice, impastato d’ombre barocche, di liciniane archipitture, di album ottocenteschi. Ne­ro di luce, direbbe Braque a questo lucido, pudi­co nipote.