Carmelo Cappello. Il corpo e lo spazio, catalogo, Palazzo Besta, Teglio, 15 luglio – 1 ottobre 2006, Charta, Milano 2006

Personale a Roma, da Bragaglia, 1938: Il freddoloso. Da qui, dal momento primo di maturità, s’avvia ogni ricostruzione organica del percorso di Carmelo Cappello. Da qui, e dalla lettura memorabile e profetica che ne offre Raffaello Giolli, dicendo di quel suo “sottomettere alla evidenza di una dominante linearità la semplicità estrema d’un tono raso, senza morbidezze chiaroscurali e ambigue, senza lussi plastici” (1).

Cappello, Transmaternità, 1961

Cappello, Transmaternità, 1961

Si tratta, certo, d’una scultura perfettamente inscrittibile nel clima milanese del tempo, ma in forza della sua già lucida comprensione dello scarto brusco rispetto alla lezione della generazione anteriore, e di un rasserenato – e non perciò non problematico – rapporto con l’idea di classico. Era d’altronde stato proprio Giolli, nel 1930, a indicare l’originalità e la forza innovativa della “generazione dei vent’anni” (2), indicandone il caposcuola in Manzù: e tale tensione trapelava lucidamente sulle pagine della rivista allora più avvertita, “Domus” (3).

Il rifiuto dei vezzi formalistici parimenti che della retorica, enfatica o patetica non importa; un senso del primitivo fatto non citazione bensì attitudine, e orientato allo scavo dell’intuizione plastica sino alla ragione sua prima; una sorta di severità pudica, ritrosa anche nei confronti della vexata quaestio dell’identità fabrile della scultura: argomento, questo, di momento assai maggiore di quanto oggi non possa apparire. Tutto ciò è ben chiaro al giovane Cappello, in grado anche di nutrirsi dei modelli allora più incombenti – il genio tormentato di Martini e l’aristocrazia formale di Messina su tutti: e Marino, che egli considera il maestro – senza farsene epigono.

Altra è la sua via, e concentratissimo è il suo auscultarsi. Lo dicono, nel Freddoloso, il prosciugamento cautelato dei volumi sino a farne scaturire le tensioni lineari primarie, il gioco attento dei bilanciamenti grafici, il prevalere, su tutto, del coinvolgimento d’una luce salda e nitida, decisiva di forma, orfana di spettacolo.

Giusto dieci anni dopo ecco Il folle, sagoma nello spazio, com’era già Contemplazione, 1940,  quasi un’eco lontana del Salomone di Martini, quasi un ripensamento introverso della ieraticità egizia e selinuntina, per via di sintetismo anticlassico e di sottrazione narrativa. Ancora i volumi sfilano nell’incidere fratto, come coagulato della luce, e si decanta un senso primario dell’architettura formale, della shape. E’ così che “le forme sentono ormai nitidamente il loro spazio e si chiudono in esso senza residui” (4); è così che la sensualità sorgiva dell’artista si distilla in movenza formale, non consentendosi scaturigini espressive d’epidermide.

Il dopoguerra italiano, è ben noto, è momento complesso e per molti versi contraddittorio, e un aggiornamento internazionale concitato (si pensi all’irrompere di esempi come quelli di Moore e di Arp) insiste su una radice accademica e tecnica ben consapevole di sé e del proprio potenziale, anche in assenza di nostalgie passatiste.

Il panorama nazionale raccolto dal “Premio di scultura Città di Varese” nel 1949 alla Villa Mirabello, confrontato con quello internazionale offerto nello stesso luogo di lì a quattro anni, indica bene lo stato dell’arte (5): né vanno dimenticati, oltre alle presenze di Moore alla Biennale del 1948 e di Arp a quella del 1950, i passaggi veneziani di Zadkine, Laurens, Hepworth nel 1950, e di Calder, Armitage, Butler, Chadwick, e ancora Moore nel 1952.

Da subito la posizione di Cappello si segnala per talune tipicità. La prima è il suo sistematico sottrarsi a logiche di aggregazione strategica o programmatica, in un tempo in cui pure la prassi contestuale del far gruppo e del redigere proclami riviste manifesti regna sovrana. La seconda è la fedeltà ai fondamenti di tradizione fabrile della scultura, il bronzo su tutti, che solo anni dopo si aprirà a soluzioni tecniche e materiali innovative: segno, questo, da leggere per un verso come orgoglio disciplinare, certo, ma anche e soprattutto come sospetto nel potere taumaturgico del nuovo, nel quale egli intravvede il rischio dello spettacolo delle modalità. Cappello sa bene che la scultura nuova nasce nel rovello lucido della mente, nell’esercizio paziente della forma, e solo lì; sa che la scultura non può evolvere e rinnovarsi tradendo la propria identità sorgiva, pena la perdita di se stessa.

La metà del decennio Cinquanta è quella dell’assunzione piena e consapevole di individualità espressiva da parte dell’artista. La pecora e l’agnello, 1954, e di lì a poco la versione più risolta degli Acrobati, cui s’affianca Cristo e i due ladroni, mostrano esemplarmente il corso nuovo di Cappello.

Da un canto, s’è detto, è la fedeltà disciplinare all’arte del bronzo, d’un plasticare macerato nel vaglio intellettuale sino a stringerlo alla necessità plastica prima: senza spettacolo di materia, senza pittoricismi e patetismi d’effetto, senza captazione di luminismi suadenti. Dall’altro, è l’intuizione della forma come disegno dello spazio, differenziale e, più, cadenza ritmica d’atmosfera, senza che ciò comporti, nel travaglio decennale del dibattito figurare/astrarre, abbandono o mimetizzazione intellettualistica del motivo: anche se, ben noterà Herta Wescher in un saggio fondamentale, “l’inclinazione delle soluzioni verso l’astrattismo è sempre più forte” (6).

Il decantarsi all’essenziale dell’innesco tematico, nel quale è evidente la lezione vicina dell’amato Marino dei Cavalieri e dei Miracoli, porta in primo piano l’intendimento della scultura non come fissazione, come stabilizzazione sub specie aeternitatis dell’immagine, e piuttosto come declinazione dell’esistenziale nella fluenza incoercibile spazio/tempo, della quale l’opera funga da coagulo primario e da stabilizzatore di linee/forza.

Cappello, Interruzione lineare, 1987

Cappello, Interruzione lineare, 1987

“Il suo scopo è rendere sensibili, soprattutto, spazio e tempo, quei fattori, cioè, che tolgono ogni importanza all’esistenza individuale dell’uomo”: così, ancora, Wescher. Nell’arte italiana, e in specie milanese, del tempo, ciò significa anche fare i conti con le suggestioni della nuova parlata spazialista, ma senza abdicare ai formulari retorici che l’ammantano, senza cedere, soprattutto, al rischio del mero stilismo.

Ecco, dunque, la stilizzazione anatomica degli Acrobati recuperare per vie interne una fluenza di suggestione vegetale, quasi che il “disegno interno” dell’opera, l’intuizione plastica sorgiva, accetti d’incarnarsi al minimo delle necessità volumetriche: i gangli della struttura curvilinea essendo anche, in sé, gli snodi anatomici delle figure, e gli arti momenti congeneri alla primazia delle tensioni lineari.

Ancor più evidente lo stemperarsi della mozione figurativa in disegno spaziale è nel Cristo e i due ladroni, in cui il tema dell’umano e dell’ascendere, del terreno e del celeste, che nutre di sé il mistero sacro per eccellenza, si fa forma plastica pura in assenza di preoccupazioni didascaliche.

La sicurezza di Cappello nello stabilire per sé in quantum di figuratività e di congruenza tematica, libero da preoccupazioni programmatiche e da necessità di schieramento sull’uno o sull’altro spalto del dibattito, rende ben evidente il rigore del suo straniarsi dal gioco delle conventicole mondane dell’arte, e, più, dall’enfatizzazione teoricistica allora avvertita dai più come necessaria. Rigore, il suo, s’è detto, non rigorismo.

Rigore, e pudore fabrile, nel quale la sensualità forte del suo avvertire e far crescere la ragione formativa non venga penalizzata, bensì indirizzata e asciugata in pensiero formale. Casto, e complice in modo non demiurgico, è il rapporto di Cappello con la propria opera: nella quale egli in pieno si riconosce e si ritrova, senza censure e abiure psicologiche, ma anche senza concessioni ad alcun meretricio sensibile.

L’inclinazione verso l’astrattismo intuita già nel 1958 da Wescher trova il proprio compimento al volger di decennio. Naturalmente, non si tratta di una Damasco intellettuale, ma del raggiungimento delle conseguenze ultime implicite nel processo di ricerca della ragione plastica sorgiva al quale da sempre l’artista attende.

Le figure del volo, quel tracciarsi per forte dinamica dei ritmi del movimento, che caratterizzano lo scorcio degli anni Cinquanta, trovano il loro compimento concettuale nel tema dell’Involuzione del cerchio, 1960. Liberatosi della convenzione incombente della base, del rapporto di qualità antropologica della scultura come montante dall’orizzonte perché in esso radicata, dunque come individuo comunque equivalente all’antropomorfo, Cappello può ora concentrarsi sulla pura qualità plastica del proprio disegnare lo spazio.

La shape di vocazione circolare, già indicata dai ritmi spaziali delle versioni di Acrobati e da opere come Icaro, riassorbe la traccia figurale che ne rimane come una memoria, un alito, e si fa protagonista e motivo dell’opera. Non la geometria dunque diviene soggetto, piuttosto il comportamento geometrico nello spazio della forma d’eco biomorfa. Il raddoppiarsi e l’involversi delle volute, quel loro tendere crescenze ed espansioni, introversioni e fughe possibili, ragiona su un’idea di geometrico sottratta ai rigorismi ulmiani allora prevalenti, e avvertita piuttosto come cadenza organica del formarsi, come distillato dramma della generazione allo spazio, alla luce.

Cappello non parte da una demateriazione volontaristica della forma, e piuttosto raggiunge, dopo un vaglio laborioso e caustico delle ragioni volumetriche, il volume essenziale alla qualità eminentemente spaziale dell’immagine.

Si è detto d’eco biomorfa. Essa è ribadita dal dominio incontrastato della movenza curvilinea, delle sinuosità nelle quali si rastrema, metamorficamente, la sostanza corporea tutta della forma. Transmaternità, 1960, con quel suo residuo tematico dilavato morenicamente nel titolo, dice esplicitamente di generazione della forma per tensioni curvilinee, nella contrapposizione/balance tra cavità intima e crescenza vettoriale.

Ecco ritrovarsi in consapevolezza ulteriore, in Cappello – e, va sottolineato, in quel tempo in Cappello pressoché solo – la radice futurista dello sviluppo spaziale della forma, liberato infine da troppo incombenti vincoli referenziali (e per ciò poggiato più sulla pittura e sulla grafica di Balla, e sull’esempio non banale di certa aeropittura di qualità, che sulla rara scultura futurista vera e propria (7)), e intorno a quella la riflessione sui modelli allora prevalenti, dalla riscoperta del Brancusi dell’Uccello nello spazio ad Arp, da Pevsner a Hepworth: con, ha ben notato Lara-Vinca Masini, un preciso recupero, proprio nel senso della stilizzazione dell’organico, “della linea avvolgente, spiraliforme, dell’Art Noveau” (8). In particolare, secondo la testimonianza dello stesso Cappello, cruciale è la riflessione su Pevsner e Gabo: “sono loro – dirà – che mi hanno spinto fin qui, sollecitandomi nell’interesse allo spazio e al movimento”(9).

Da questo momento, i titoli enunciano chiavi di lettura rivolte tutte al comportamento spaziale della linea, che è in se stessa matter dell’immagine. Anche la tecnica e i materiali, pur senza tradire la vocazione primaria del plasticatore, si aprono a soluzioni ulteriori.

Titolazioni come Ritmi chiusi, Continuità circolare, Interazione di curve ovali, Torsione lineare, indicano come la spinta problematica di Cappello sia uno schiarito lavorio sull’avvenire della formazione, la cui chiave geometrica è, in sé e per sé, comunque evocativa di una filigrana d’esistente. D’altro canto, il precoce – per l’Italia, precocissimo – accogliere nella propria processualità strumenti tecnici che consentano o producano il movimento fisico dell’opera ne stabilisce il necessitato rapporto con lo spazio fisico e con l’esperienza sensibile dello spettatore. Scrive Umbro Apollonio a questo proposito: “La sua strutturazione tridimensionale è così effettuata con animazione attuale, spaziale-temporale e, anche se i tempi dei ritmi sono in osservanza col quoziente spaziale, è implicita nelle proporzioni dei contorni modulati” (10).

In altri termini, tali concezioni plastiche non stabiliscono un metro formale autre rispetto all’esperienza fisica del mondo, e piuttosto vi fungono da inneschi, sensibili, poi concettuali, infine poetici. In contrappeso alla demateriazione plastica raggiunta, l’artista d’altronde ricorre ad altre scelte modali di segno affine. La trattazione lucentissima delle superfici, per via di lucidature oppure dorature del bronzo e dell’ottone, oppure in virtù del ricorso all’acciaio cromato, e parimenti il ricorso a inserti di plexiglas (esemplare è, in questa mostra, Semicerchi strutturati, 1975), a stabilire condizioni di diversa luminosità e trasparenza oltre che limiti ulteriori di decantazione materiale, agiscono nella medesima direzione: stabilire una presenza concretamente forte dell’opera nello spazio storico, in qualità di attivatrice di dinamiche spaziose, esse sì altre.

Nella stessa direzione opera la scelta di Cappello di far crescere dimensionalmente le proprie sculture sino a commisurarle con condizioni ambientali effettive, siano esse le naturali o le urbane. Nell’un caso e nell’altro,  la scultura non convoca a se stessa lo spazio, non ne altera assertivamente i connotati. Vi funge, piuttosto, da fattore di risonanza e di contraddizione ritmica, quasi che lo svelasse ambito solarmente sacrato di una danza: perché, ha osservato André Verdet, “Cappello rimane il coreografo di razza, spesso sorridente, di un balletto dedicato a Dioniso” (11).

Se nel decennio Sessanta è soprattutto lo schema circolare – con l’importante corollario dell’espansione dall’ovale, spia sicura di un’idea di crescenza dall’interno verso l’esterno, di sviluppo verso lo spazio, tipica di tutto il suo lavoro, e di precisata radice organica – a dominare l’invenzione di Cappello, dal decennio successivo nell’artista matura e si afferma un più ampio spettro di sperimentazioni formali.

Torna prepotente, sulla base delle consapevolezze e dei raggiungimenti nuovi, il motivo dello svolgimento verticale, della contraddizione dell’orizzonte e della crescenza teoricamente illimite: da Verticalizzazione sferica, 1974, a Verticalizzazione circolare, 1979, a Interazione di curve ovali, 1979. Evoluzioni evidenti del sorgivo Transmaternità, tali opere sono, nella lettura di Enrico Crispolti, “totem di testimonianza spaziale” (12): esse recuperano il motivo del crescere nella figura dell’ascendere, e serrano ancor più la propria qualità volumetrica sino a farsi meri differenziali di spazio, accenti del vuoto, la cui shape si consente umori esplicitamente simbolici.

Non oggetto esclusivo di esperienza, tuttavia tali svolgimenti plastici rappresentano, degli anni conclusivi del percorso di Cappello, certo la ragione dominante. Non altrimenti si potrebbero leggere Architettura lineare, 1981, e Torsione lineare, 1982, con quella scelta ultimativa di contraddire la gravità non radicandosi al suolo, e quel puntare vettorialmente l’infinito, l’una, e l’altra guizzare verso andamenti, cadenze di spirale.

Non altrimenti si comportano gli andamenti acuminati di Tensione lineare, 1990, proiettati verso un cielo ormai non più estraneo.

Note. 1. R. Giolli, Cappello, Editoriale Domus, Milano 1944.  2. Grossi Manzù Occhetti Pancheri Sassu Strada, testo di R. Giolli, catalogo della mostra, Galleria Milano, Milano, 1 – 13 aprile 1930.  3. Cfr. l’esemplare inchiesta di Lamberto Vitali Dove va l’arte italiana, uscita nei nn. 108-110, 1936-37.  4. Così Dino Formaggio, Cappello, Görlich Editore, Milano 1953, a proposito di questo tempo.  5. Premio di scultura “Città di Varese”, introduzione di G.C. Argan, catalogo della mostra, Azienda Autonoma di Soggiorno, Varese 1949 (vi espongono tra gli altri Broggini, Calò, Cappello, Cavaliere, Cherchi, Chighine, Conte, Drei, Fazzini, Fontana, Fabbri, Franchina, Greco, Lardera, Leoncillo, Manzù, Marini, Mastroianni, Mascherini, Mazzacurati,