Angelico, geometrico
Angelico, geometrico, catalogo, Centro d’arte contemporanea, Ardesio, 17 luglio – 29 agosto 1982
Una delle ragioni per cui questo “Incontro artistico” di Ardesio nasce con questa fisionomia, così anomala in fondo rispetto alla media delle mostre che i tempi recenti ci hanno abituato a visitare, consiste nel tentativo di non offrire la riprova tangibile di una tesi critica ben architettata, oppure la configurazione di una delle solite, e transeunti, situazioni ordinate e ordinarie, e invece di instillare dubbi, di suscitare problemi là dove sembrano essersi annidate certezze di una qualche solidità: entro i limiti, naturalmente, che le sono propri, ma con uno spettro documentario che certo non è insufficiente, almeno dal punto di vista qualitativo.
Gli artisti che danno vita all’iniziativa appartengono tutti, secondo le omologazioni correnti, a quell’area che di volta in volta è stata riconosciuta (e, anche, più d’una volta si è riconosciuta) come astratta o concreta, non oggettiva, costruttiva, analitica, neopittorica e via discorrendo.
Un campo che, nel dopoguerra, ha prodotto attraverso declinazioni diverse episodi di sicura rilevanza ma che, forse più di ogni altro, è stato vittima dell’intrecciarsi di letture e teorizzazioni affatto fuorvianti e mal orientate (ma anche, a ben vedere, di censure drastiche: ancora in recenti pubblicazioni di impegno serioso e accademico come L’arte in Italia nel secondo dopoguerra, di Barilli e altri, invano si cercherebbero tracce di esperienze come Forma 1, Mac, Continuità, eccetera).

Dorazio, Verso il raffreddamento, 1960
Di queste interpretazioni devianti, che tuttora per lo più resistono tenacemente, due in particolare oggi si avvertono come penalizzanti. La prima riguarda il presunto radicamento culturale di queste esperienze in matrici come l’astrattismo nostrano degli anni trenta (e proprio la sezione ad esso dedicata nella mostrona milanese pare fatta apposta per perpetrare tale equivoco); la seconda, per molti versi conseguente, è legata all’idea di un riferimento in toto a modelli razionali assoluti, a un rigore geometrico senza eccezioni, che si sarebbe via via arricchito di implicazioni programmatiche e concettuali.
Che sono fattori almeno in parte presenti, questo è certo. Ma che, collocati nella corretta prospettiva storica, appaiono più come elementi contingenti e polemici (e perciò adottati spesso anche dagli stessi artisti) che non come ragioni sostanziali e istitutive di queste pratiche.
Oltretutto va considerato che non sono mancati episodi non lontani nel tempo che deliberatamente hanno assunto un modello geometrico, logico, puramente razionale come unica ipotesi operativa fondante: ma il loro esito effimero, di corto respiro, ne ha dimostrato la scarsa fondatezza in sé.
L’approccio, sia di orientamento storico sia di lettura diretta, può invece essere un altro. E’ ben vero che il fascino del rigore, di un assoluto pensabile – con implicanze che vanno dalla mistica alla ratio positiva – è stato uno dei nutrimenti della cultura dell’avanguardia storica, del suo progetto di rifondazione del mondo: ma solo in quanto coniugato, e non potrebbe essere altrimenti, con altrettanto spirito angelico (“L’arte è stato d’animo angelico, geometrico”, scrisse Melotti): perché ciò che in arte si persegue, ciò cui si tende, in realtà non è conoscenza, quanto sapienza.

Dadamaino, La ricerca del colore, 1966-1968
Il rigore, in sé, privato di quell’humus poetico, non sarebbe altro che un fascinoso abbigliamento del nulla, un predicato qualsiasi tra i molti possibili. In Tlön, Uqbar, Orbis Tertius Borges scrive: “Affascinata dal suo rigore, l’umanità dimentica e ridimentica che è un rigore da giocatori di scacchi, non da angeli”.
Ecco, per usare ancora della frase di Melotti, ci si potrebbe spingere ad osservare che il geometrico non si fa garante dell’angelico, tanto quanto quest’ultimo può fare a meno del primo.
Ed è quanto, effettivamente, hanno compreso gli artisti che dal dopoguerra hanno affrontato seriamente la questione della pittura e dei suoi autonomi valori, scevri da pregiudiziali morali o contenutistiche o ideologiche.
Il loro lavoro di scavo (e quindi il loro metodo: e anche di questo termine si è fatto troppo spesso un uso aberrante, ideologico), comunque orientato, è sempre stato rivolto a cercare una primarietà, un punto limite, che fossero quelli a partire da cui si espande naturalmente la poesia, l’unica condizione di necessità riconosciuta alla pratica d’arte.
Quasi che cercassero e cerchino un vedere che sa la propria concreta cecità, un vivere altro della mente e del senso: “Ma posso cercar di vedere, ed esser cieco, o credere di esser cieco, e vedere?” (Wittgenstein).
Da ciò ha assunto ragione un guardare diverso alle radici della cultura pittorica, più disinvolto rispetto agli andamenti della meccanica storica e proprio per questo ben più ricco che non qualsiasi riferimento cronistorico.
Non allora il gruppo dei Comaschi, e piuttosto Cézanne e Kandinskij e Matisse; non certo Ulm e piuttosto Klee e Licini e Magnelli; non certo l’arido concretismo nostrano, e piuttosto Fontana e Manzoni e Klein. E Tancredi, Barnett Newman, Rothko, Kline, De Kooning, Louis. Per non dire della grande tradizione antica, viva più forse di molti modelli vicini. Quei pochi, insomma, che hanno veduto proprio perché sapevano di essere ciechi.

Accardi, Verde-verde, 1966, particolare
Quelli che hanno praticato la pittura perché pittura, e non come una sommatoria banale di proposizioni e intenzioni indotte.
Certo, sarebbe impensabile tentare di astrarre tout court la lettura di questi lavori dalle concrete – e contingenti – ragioni temporali e culturali che li hanno determinati.
Dorazio, o Turcato, o Accardi senza Forma 1, Castellani e Dadamaino senza Azimuth, Nigro senza Mac, e via discorrendo, sono difficilmente interpretabili. Ma a ben vedere, tra ogni singolo artista e queste esperienze non esiste che un normale rapporto di interdipendenza, in cui ogni singolo ha forse più dato di quanto abbia ricevuto, in termini di necessità storica. Per intenderci: non è il classicismo che fa Poussin, è Poussin che fa il classicismo; non è Boccioni che esiste grazie al futurismo, è il futurismo che esiste grazie a Boccioni.
E mentre l’esperienza si fissa in una condizione contingente, secondo coordinate storiche e culturali che la cristallizzano per sempre nel bene e nel male, l’artista, che è angelo e non ragioniere (quando è angelo, o almeno quando non aspira a essere solo un giocatore di scacchi) si permette continuamente il lusso di guardare altrove, all’indietro o sul presente come gli aggrada, seguendo l’unico vero vettore che è lo sprigionamento di tutto il proprio potenziale poetico.
E’ una considerazione, questa, che si deve imporre oggi più che mai, se si vuole percepire davvero il suono nitido che ognuno di questi lavori emana: perché ogni timbro, unico e irripetibile, è quell’in più che dal tessuto della cultura, del gusto, della poetica scatta a raggiungere il livello pieno dell’arte: e che proprio perciò rivendica a se stesso un riconoscimento che sempre meno oggi gli è concesso.