Gilardi
Conversazione con Piero Gilardi. Torino, 16 dicembre 2002, in Piero Gilardi. Giardini, catalogo, Galleria Vinciana, Milano, 11 febbraio – 14 marzo 2003
Gualdoni: Gilardi, vorrei che svolgessimo i nostri ragionamenti tra passato e presente. Il tuo passato è ormai mitizzato, il tuo presente è fatto di iniziative e operazioni che sovente si svolgono in situazioni diverse da quelle classiche dell’arte. Ma vedo una forte continuità; in fondo, a ben ragionare, il tuo lavoro non è cambiato tanto quanto sembra.
Gilardi: Potremmo partire da un libro, Not for sale, uscito un paio d’anni fa come ripresa e continuazione della raccolta di scritti Dall’arte alla vita, dalla vita all’arte. Partirei da qui perché il libro fa il punto su uno sviluppo che ci porta all’attualità dopo una stagione, gli anni Novanta, in cui l’arte sembrava vagare senza spazio né tempo, ramificando molteplici percorsi di ricerca singoli o svolti da gruppi ristretti.
Ora, mi sembra, si intravvede una mainstream più ampia. Una delle questioni di oggi è che il quadro dell’arte contemporanea è molto eclettico, e le istituzioni e le grandi mostre – penso alla Biennale di Venezia – non hanno l’abitudine di mostrare un quadro eclettico, mirando piuttosto alle sistemazioni omogenee. Ebbene, oggi stanno andando avanti analisi che indirizzano, che fanno da orientamento: certo, non rinascerà nessuna corrente dominante come le avanguardie storiche, la dimensione artistica è dal punto di vista semiotico molto articolata, ma si vede un nuovo senso per l’arte, che risiede nella caratteristica relazionale dell’arte. Posso citare molte esperienze, oltre alle mie, esperienze in cui non entrano in gioco rapporti ideologici o condensati metodologici, ma un intento relazionale, trasformativo.
Se ci pensi, esso era ben visibile anche agli inizi dell’arte povera. Quando nel 1968 si tenne, all’Arsenale di Amalfi, la manifestazione Arte povera + azioni povere, già si delineava un’area di contenuto relazionale che fa dell’arte un terreno di comunicazione, e la natura stessa dell’atto artistico come relazionale, come una trasmissione mediata attraverso codici e materiali.
Oggi, come nel modello produttivo dominante c’è l’informazione, così anche in arte c’è informazione tra esseri umani, motivata, sostanziata da una intenzionalità trasformativa. Per questo da una quindicina d’anni ho deciso di lavorare con i nuovi media. Per questo, anche, alcune linee critiche – mi riferisco alla prossima Biennale di Lione – stanno rileggendo il passato artistico recente per vedere quali fossero le opere di soglia, quelle che effettivamente facevano da premessa a un futuro sviluppo.

Gilardi, Giardino tropicale, 2000
Non sono settario, beninteso. Lavoro con i muovi media ma so che altre strade portano a un nuovo senso per l’arte, a un nuovo valore relazionale che è anche, quindi, progettuale: d’una progettualità, beninteso, che non si configura come creazione di modelli semiotici rigidi, ma come ingresso in una dinamica in cui il senso si trasforma continuamente, e occorre seguirne il flusso. E’ come per gli utilizzatori di certi settori di internet, per i quali la partecipazione comune non è decisa a priori ma crea un flusso di senso continuamente in trasformazione, senza che mai ci si cristallizzi in valori di riferimento.
Gualdoni: Non sei un settario, ma mi pare che la tua attenzione verso i nuovi media sia piuttosto forte, certo prevalente…
Gilardi: Questa è la mia propensione individuale. Secondo me si esce dalle secche dell’autoreferenzialità su cui galleggia l’arte contemporanea solo con il recupero della funzione cognitiva. Siamo in un mondo in cui le tecnologie dell’informazione e le tecnologie biologiche stanno caratterizzando in modo radicale il modello di sviluppo, il modello di vita, i modelli di relazione sociale. Da quegli strumenti e da quelle logiche escono gli strumenti che si prestano meglio a esprimete i nuovi vissuti.
Gualdoni: In fondo, la tua curiosità verso la scienza e la tecnologia è di antica data.
Gilardi: E’ vero, tu dici che il mio lavoro alla fin fine non è molto cambiato nel tempo. Il lavoro sulle tecnologie di oggi lo svolgo con i biotecnologi, riflettendo sulla logica del codice genetico, sui rapporti evolutivi, sulla transgenesi. Il nucleo dei lavori degli anni Sessanta aveva per oggetto i Tappeti natura, che erano un terreno di confronto tra il nostro pensiero cognitivo, artificiale, incarnato dal poliuretano espanso – allora era una frontiera della chimica – e la natura.
Gualdoni: Va detto però che allora nei tuoi lavori si leggeva anche una sorta di incontro/scontro con valenze latamente politiche, si avvertiva una critica esplicita. Parlavi di “nuova soggettività”. Ora la qualità ‘politica’ del tuo lavoro è solo meno esplicita, o si è modificata?
Gilardi: Il conflitto tra natura e cultura, tra natura e scienza allora aveva un rapporto anche con l’industrialismo. Si stava distruggendo l’ambiente, c’era di mezzo la salute degli individui, il modello di produzione era basato sul consumo di combustibili fossili e sulla produzione di apparati meccanici. Ora crescono, invece, i sistemi informativi, la biotecnologia: sono modelli operativi leggeri. Il silicio non inquina come la nafta, le biotecnologie operano naturalmente in processi omeostatici, è lo stesso tener conto dell’omeostasi che risolve i problemi.
Antonio Caronia dice che si sta passando da un massimo di tecnologia al “corpo virtuale”; Pierluigi Capucci parla di “tecnologia del vivente”. Il mondo non è il mondo astraibile con logiche matematiche e computazionali, ma vive dei flussi della biologia, con la loro caoticità e complessità.
Capucci dice che il riaccostamento di scienza e tecnologia alla natura e all’espansione della vita è un processo di ipermimesi: si può accettare in questo senso, ma va spiegata, l’ipermimesi è accettabile se è una sorta di ibridazione. Abbiamo iniziato ibridandoci con gli animali, imparando da loro la caccia, la danza, il mondo estetico dei rituali di accoppiamento. Tale ibridazione è la nostra animalità in senso antropologico.

Gilardi, Noci di cocco, 2003
Ora, però, la nostra ibridazione è con la tecnologia. Sembra assurdo ma ormai la tecnologia basata sull’informatica, con l’intelligenza artificiale, ha creato un’entità nuova, con i suoi sistemi di autogoverno, con una sua autonomia.
Kant dice che sempre, nella storia, l’uomo prima inventa gli oggetti, e ancora non li capisce, e poi li analizza e ne scopre la ragione. Oggi siamo di fronte a queste tecnologie nuove, ne stiamo ricevendo l’immagine, cerchiamo di assimilarla e di capirla, e questo ci cambia la vita…
Gualdoni: Sono, in fondo, le mutazioni antropologiche e intellettuali di cui scrive Derrick de Kerkhove quando analizza i mutamenti della Orienting Response, dell’attenzione specializzata, e confronta lo spazio/tempo di flusso del computer con il Ma giapponese…
Gilardi: …è un pensare insieme al display, è pensare in rete: sono forme nuove del pensare. E considera che noi tutti esseri viventi siamo fatti degli stessi mattoncini: un verme nematodo ha ventimila geni, i mattoncini, e noi molti di più, ma il bello è che abbiamo anche i suoi. Anche questo crea una idea di flusso.
Siamo sempre stati abituati a pensare l’uomo come separato, a parte dalla natura, e questo fatto di avere il comun denominatore dei geni sconvolge la prospettiva classica. Scopriamo che in certa misura esiste anche negli animali una autoconsapevolezza e una capacità di elaborare strategie innovative rispetto alla coazione a ripetere dell’istinto, una capacità di ibridarsi per garantirsi la sopravvivenza. Ebbene, tutto ciò ci fa scendere dal piedistallo dell’uomo vitruviano, leonardesco, e ci fa essere alla pari, con un senso forte di continuità fatto di singolarità e complessità.
Gualdoni: Ma come è avvenuta la tua transizione rispetto alla stagione “storica” degli anni Sessanta?
Gilardi: Negli anni Sessanta la mia riflessione rientrava in un turbinio di idee post-pop. Si legge spesso che i Tappeti natura sono iconografie pop, ma è fuorviante. Era già un punto di contraddizione e di superamento, si alludeva a qualcosa di diverso attraverso l’arte ambientale: non solo il mio lavoro, pensa anche a Pino Pascali, pensa a iniziative come Arte abitabile a Torino, era il 1966, o l’anno dopo a Lo spazio dell’immagine a Foligno.
La pop art e il nouveau réalisme non c’entravano più nulla, era una ricerca nuova, la ricerca di molti artisti indicava la via di una nuova arte povera: che era quella che identificavo nei miei articoli in un territorio vastissimo, dalla West Coast alla Svezia, era tutto il mondo occidentale. Il senso, il messaggio, era di portare l’arte dentro la vita, immetterla in uno spazio ove contino le relazioni, non arrestarsi alla contemplazione ma fare della partecipazione. Solo poi, è ben noto, l’arte povera è stata ristretta a un gruppo specifico di artisti italiani. Il primo tempo era questo.
Poi, per tutti gli anni Settanta ho creato momenti di partecipazione nel sociale, sinché tutto è entrato in crisi nella prima metà degli anni Ottanta. Il movimento entra in crisi perché il progetto di creatività diffusa era poggiato su un progetto politico, ed è questo a entrare in crisi. La stagione del terrorismo infligge un colpo terribile al movimento. C’è il riflusso. La risposta del sistema industriale è demolire le linee e mettere i robot: nel 1980 a Torino ci sono ventimila licenziamenti.
I primi anni Ottanta sono molto problematici, e ti ritrovi a chiederti “che fare?”. Uno poteva anche dire va bene, torno all’estetica, coltivo la mia dimensione individuale, faccio l’artista che riflette la crisi. Per parte mia, ho valutato che la relazione bilaterale tipica dell’informatica poteva aprire nuovi spazi, nuovi sensi; l’interattività tecnologica poteva essere uno strumento sostitutivo della partecipazione in un momento di crisi politica e sociale. Oltretutto, ritenevo fosse importante riflettere e governare le tecnologie, non farsi circondare e subirle.
Gualdoni: Ritrovando, anche, una misura etica…
Gilardi: … riflettendo, anche, su quali prospettive etiche apriva la nuova tecnologia dell’informazione, e in generale tutte le nuove tecnologie.
Gualdoni: Negli anni Settanta hai, di fatto, abbandonato il sistema artistico, fatto di legalizzazioni estetiche e di un cursus honorum tracciato. Hai tratto conseguenze lucide da premesse lucide…
Gilardi: Sì, è avvenuto alla fine degli anni Sessanta, nel 1969 ho smesso. Era anche una scommessa, poteva andarmi bene. Se avessimo fatto la rivoluzione la mia scelta sarebbe stata quella giusta, ci sarebbe stata una creatività collettiva riconosciuta come una normale funzione sociale. Non è successo, ma poteva succedere. Non dico che mi sarei sentito come Majakovskij, ma qualcosa del genere. La scommessa non era perdente in partenza, questo è importante.
Gualdoni: La tua scelta ha mostrato a molti, però, i punti deboli del sistema artistico. Già allora esso rischiava di diventare una nicchia scollegata al resto della cultura, cosa che poi è puntualmente accaduta.
Gilardi: Vedi, io pensavo a una dilatazione fisiologica, a un allargamento nel sociale, come fatto essenziale. Citavamo il festival di Amalfi: già là si vedevano due anime, una che agiva nel vissuto sociale e una che manipolava gli oggetti. L’origine della mia polemica con Celant è questa. Lui mirava a tagliare fuori altre esperienze, a marginalizzarle, a eliderle. A me interessava la complessità e la vastità del fenomeno, piuttosto. Solo nel 1976, se pure in modo incompleto, Crispolti ha dato conto alla Biennale di Venezia di un’arte che si ibridava con il sociale. L’arte ha bisogno di alimentarsi da altre fonti intellettuali, di contaminarsi e confrontarsi, altrimenti si chiude su se stessa e ridiventa alto artigianato.
Gualdoni: Ora è così.
Gilardi: Bisogna però fare attenzione, perché ci sono sempre nuovi artisti che arrivano, con una personalità e un’ambiguità che allude a sbocchi diversi. Certo, troppo spesso vengono risucchiati…
Gualdoni: … il metabolismo del mondo dell’arte è efficientissimo…
Gilardi: … è difficile, ma qualcosa rinasce sempre, c’è continuamente una buttata di creatività che rompe le regole. E’ un’energia creativa che possiamo cogliere. Se guardi le grandi mostre di ora, sotto la crosta dell’operazione omologante, dell’impostazione eteronoma, trovi sempre elementi fertili di ambiguità.
Gualdoni: Il punto è che il lavoro istituzionale ora sembra quello di abolire proprio queste ambiguità. Confronto ciò che leggo con i tuoi scritti degli anni Sessanta: il tuo era uno sguardo non linneiano, non volevi spiegare ma capire i fermenti, valorizzavi le differenze. Noi più giovani leggendo non avevamo la sensazione di un’arte che nasce già pronta a farsi sistematizzare. Era formidabile guardare alle eccentricità e non mirare alle norme ulteriori.
Gilardi: Beninteso, non sono contrario per principio ai ragionamenti sistematici. Ma in quelli correnti vedo che mancano spesso le articolazioni, gli strumenti per accogliere le differenze non irregimentabili. Questo sistema è manageriale ed efficiente, ma non è complesso, tiene sempre poco conto delle radici e del futuro, i due termini primari. L’efficienza è solo un aspetto di un sistema, non la sua ragione.
Gualdoni: Forse è anche per questo che il mondo dell’ufficialità artistica continua a mostrare disagio e insofferenza – oltre i proclami di facciata – verso chi agisce nel web, con l’informatica. Perché non vede la chiave dell’amministrabilità possibile, della riduzione unitaria, di questa situazione, eccentrica e complessa per definizione.
Gilardi: Forse. Per parte mia ora mi sto dedicando a un progetto di parco artistico, in cui l’arte venga vissuta e agita senza percorsi preventivi, non mostrata. E’ un’altra operazione di libera espressione.