Robert Gligorov, catalogo, Palmisano arte moderna, Milano, novembre 1993

La foto del tuffatore si reincarna, astratto bianco e nero, in una forma plastica, tridimensionale: inquietante visione monoculare e piana che riassume corpo; doublure d’un rappresentare che si moltiplica sino a perdere la certezza stessa di sé;  iperrealistica e innaturalissima; straniamento d’immagine di uno straniamento d’immagine.

E’ il frutto recentissimo del lavoro di Robert Gligorov, coboldo delle pratiche d’immagine, affascinato ossessionato dal theatrum mundi vuoto e trascorrente sino alla perdita di senso delle figure mediali.

Gligorov è artmaker per eccellenza: dall’illustrazione al videoclip, dal quadro al fumetto, dalla fotografia al cinema. Con pari leggerezza, mobilità, disincanto affascinato, senso energetico dello spettacolo: e cinismo soave.

Non è pittore, fa il pittore, usa la pittura. Non è scultore, fa la scultura. Non è fotografo, fa, e divora golosamente, fotografie. Eccetera.

Vero nipote di Warhol, per questo: ma neppure più preoccupato della rivendicazione del proprio protagonismo, della propria centralità creativa, e disposto, senza infingimenti retorici, a vivere egli stesso come clone massmediale, come immagine che si può stampare, vedere e vendere, consumare: attore tra attori dunque, non più regista distante e padrone dello spettacolo.

Gligorov, Tuffatore, 2001

Gligorov, Tuffatore, 2001

La sua attitudine è perfetto to play. Fare, giocare, recitare. E fluttuare. Velocemente, con grazia d’anartiste di sublimata indifferenza. Lasciandoti giusto il tempo di guardare.

E’ straniamento continuo delle figure del mondo – le figure che l’inconscio tecnologico nostro vede e pensa ormai come realtà – che continuamente, e senza fratture e cambi di livello, genera altre figure, parimenti massmediali, parimenti orfane di senso proprio, parimenti deperibili per facile consumo.

I quadri nascono per serie, prelievi grafici di schegge in sé insensate delle immagini overcrowded della stampa. Fissati in una sorta di disilluso prolungamento di consistenza, e d’esistenza, giusta l’aspettativa che da sempre rimettiamo alla pittura, finzione retorica d’eterno. Ma subito traditi dalla sequenza ansiosa, e asintattica, che dissolve per collisione i residui di senso possibile, e dalla trattazione brusca elementare della pittura, che non chiede bellezze, né fantasmi stilistici.

Gligorov vi immette alcune predilezioni, la metamorfosi e il travestimento della figura, l’incrocio tra immaginario alto (il David michelangiolesco, la Battaglia di San Romano di Paolo Uccello) e basso, da star system esploso. E’, in prima percezione, una declinazione estrema del Popism che non solo ha mutato la nostra coscienza visiva trent’anni fa, ma che proprio oggi si ripresenta con forza sulla scena della produzione visiva.

Non è, in realtà, esattamente così. Ciò che regge tutta la partita di Gligorov, è la lucidità concettuale dell’approccio, la consapevolezza talmente chiarita da non doversi neppur più dichiarare che la questione dell’immagine mediale, e massmediale, non si pone più tra realtà e rappresentazione, tra evento e descrizione, ma tra rappresentazione e rappresentazione, tra factoid accolto convenzionalmente come fatto e gli infiniti  factoids ulteriori, e omologhi, che se ne generano, in una sorta di circolarità radiante e ormai del tutto autoreferente.

Nulla di più, nulla di diverso contiene un quadro di Gligorov, rispetto alle immagini a stampa da cui nasce (Robert sogna d’essere un’edicola, di possedere e contenere tutte le immagini): fatta salva la consapevolezza radicale della finzione, l’energia mentale della trasformazione, e la libertà ultima dello zapping.

E una nostalgia, palpabile, palpabilissima in queste immagini, la nostalgia del corpo. Si avverte, sotto queste shapes prive di storia identità destino, la disperazione laica d’una fisicità di cui Gligorov avverte la perdita, la scomparsa: è una sorta di ossessione sottile, che fa affiorare nelle sue immagini tracce d’antiche anatomie (penso alle tavole di Albinus di Leyda e Jan van Delaar, ad esempio; e più, alle visioni di Messerschmidt): come se quelle, rappresentazioni ancora, ma rappresentazioni d’un reale ancora tangibile, potessero fungere da innesco a nuove, imprevedute reincarnazioni.