La scultura italiana, in “Flash Art”, 111, Milano, gennaio 1983

E’ possibile, oggi, ragionare di una scuola italiana in scultura? La questione va rivestendo, da qualche tempo a questa parte, un grado sempre mag­giore di importanza. Le mostre dedicate in Italia alla scultura (e a quel suo aspetto, per troppi anni considerato accessorio, che è la ceramica) si sono ultimamente moltiplicate (1), ed è aumentata l’attenzione verso i suoi esponenti da parte dei curatori di rassegne di grande respiro: ultimo esempio in ordine di tempo, la compresenza di Andrea Cascella, Pietro Coletta, Pietro Consagra, Luigi Mai­nolfi e Nanni Valentini nel Padiglione italia­no dell’ultima Biennale di Venezia. Tutti sin­tomi, questo è certo, di un rinnovato interesse per l’argomento, anche se ben di rado esso si accompagna a un lucido e agguerrito orien­tamento problematico e spesso, invece, alla rimasticatura di luoghi comuni vieti e provinciali.

Valentini, Volto, 1980

Valentini, Volto, 1980

Stanti queste constatazioni, che tipo di risposta è possibile fornire correttamente al quesito? A rigor di termini no, una Scuola italiana non esiste, almeno se si adotta come parametro di valutazione l’idea di scuola come ispirata da termini problematici unitari, pro­grammaticamente espliciti e definiti teorica­mente, riconoscibili con un certo grado di chiarezza nell’attività dei suoi esponenti, co­me l’inglese di St. Martin’s School o quella della minimal statunitense di Morris, di Judd e Andre. Negli ultimi due decenni – ma, a ben vedere, è quanto accade da molto prima – la scultura italiana ha seguito percorsi di crescita diversi. Le personalità di spicco e le proiezioni problematiche che ha prodotto si caratteriz­zano per assetti fortemente autonomi, indivi­duali, spesso nettamente divaricati, militanti esplicitamente verso la negazione di un pos­sibile tessuto connettivo identificabile in epi­dermide. Artisti come Paolo Icaro, Luigi Mai­nolfi, Hidetoshi Nagasawa, Giuseppe Spagnulo, Antonio Trotta, Nanni Valentini, Gilberto Zorio sono assimilabili reciproca­mente solo per un analogo livello di ricchezza interna e di tensione qualitativa, piuttosto che per l’evidenza di nessi espressivi comuni.

In effetti, paradossalmente, la prima valu­tazione che corre l’obbligo di fare – e che riporta al quesito iniziale – è che ognuno di questi artisti pratica coerentemente proprio il rifiuto di una possibile configurazione di una scuola, di una situazione nel senso paradigma­tico del termine, ben consapevole che ciò sa­rebbe limitativo o addirittura dannoso soprat­tutto in un Paese che, da almeno un cinquantennio, non conosce una vera e propria tradizione d’avanguardia, e che fonda le pro­prie sorti su una scala di valori più complessa, ma certo più cospicua del banale meccanismo, d’ampio uso corrente, delle concatenazioni progressive di poetica. A questo sistema esteriore di poggiature essi hanno preferito e preferiscono l’individuazione di una norma qualitativa interna fortemente necessitata, in grado di produrre autonomamente senso, che sia capace di nu­trire il vettore sostanziale di identità e di continuità della scultura, la sua stessa pensabilità. Quella pensabilità che la tradizionale emarginazione teorica da un lato – datante almeno dalla nascita dell’impressionismo ­– e, dall’altro, i troppi equivoci recenti a propo­sito di concetti come “disciplina”, “genere”, “medium” (2) e via discorrendo, parevano aver messo radicalmente in crisi, rendendo necessario un ben più affilato bagaglio di ri­cerca. Intendiamoci. Riconferire una sostanzio­sa pensabilità alla scultura non significa ride­finire cosa essa sia: definire, ridurre a norma chiara e distinta, è un esercizio utile solo al contenutismo di marca cattolica in cui si cro­giola ancora, in modo palese o occulto, gran parte della nostra cultura, ma che non appar­tiene ai territori dell’arte. Nella pratica di questi artisti ciò appare invece come un ap­profondimento e illuminante esercizio di sca­vo intorno ai gangli vitali di senso della sua fisionomia, della sua possibilità d’essere: sia riguardanti i valori assoluti sedimentati nel suo bagaglio storico, sia nascenti dall’interse­zione di questi con i portati più intensi del dibattito recente.

Tale orientamento di fondo, che altrove mi è accaduto di indicare come sovrana inat­tualità (3) (e che non va scioccamente confuso con un banale non volere essere d’attualità, che a sua volta ricadrebbe nel vacuo nominalismo in voga nel cronachismo spicciolo: mentre invece rivela una diversità radicale nel concepire la pratica d’arte), è riconoscibile in ciascuno degli scultori indicati, e ne è garanti­to proprio in virtù della forte specificità di ogni espressione. Dal complesso di queste esperienze, dalle loro divaricate tensioni di ricerca, scaturisce un panorama di caratteri e problemi cui è ben possibile affidare, oggi, la cifra distintiva di quella che non è fuor di luogo considerare la fattura italiana, permea­ta di una vitalità e di un sapore che già hanno contraddistinto le grandi coscienze della scul­tura italiana del nostro secolo, da Rosso a Martini, da Fontana a Melotti, da Leoncillo a Milani.

Mainolfi, Campana, 1978-1980

Mainolfi, Campana, 1978-1980

Paolo Icaro, proveniente da operazioni fondate su un prendere possesso soggettivo dello spazio attraverso la qualità specifica di materiali, è pervenuto negli ultimi anni a un rapporto preferenziale con il gesso, cui rico­nosce un carattere di forte teoricità e a un tempo connotati suoi tipici e non limitanti. Ne è nata una ricerca in cui diviene centrale il senso della pratica, che procede per intenzio­ni più che per indirizzi definiti, in cui ogni atto diventa nodo di molteplici avvertimenti, di molteplici possibilità. I suoi unfinishing sono i protagonisti, paritetici all’artista, di questo flusso d’esperienza: più che la forma, importa il loro pretendere la forma, il loro manifestare una tensione genetica che è an­che necessità di radicamento in un luogo. E’ uno spazio che assume le dimensioni non rigide dell’immaginario privato di Icaro, una misura non formale, introversa, ricca di umori.

Anche Luigi Mainolfi presenta una mar­cata predilezione per un materiale, la terra­cotta, che è per lui la memoria antica del gesto del formare, del raccontare dando immagine alla materia indistinta, contenitore del mito; ma anche il colore (che Mainolfi spesso inten­sifica con laccature di un rosso antico, pom­peiano), e la velocità, che gli consente di mi­mare, plasmando, i tempi di una genesi orga­nica scabra ed essenziale. L’artista vi suscita i propri frammenti leggendari senza media­zioni cerebralistiche, e invece enfatizzando certi topoi espressivi, lavorando nelle loro pieghe retoriche fino a conferire all’insieme plastico un forte grado di compattezza e allo stesso tempo di estroversione, di sonorità quasi: cui non è estranea la scelta di non ma­scherare le asperità artigianali, le corsività della fattura, che conservano all’opera una fragranza immediatamente suggestiva.

Nei lavori di Hidetoshi Nagasawa, invece, anziché per ridondanza la retorica della forma viene continuamente giocata in modo sottile, riflessivo, attento a liberare le sacche di senso che si producono dal suo aver corpo in un materiale: la forma in quanto somma di con­venzioni linguistiche e di sedimentazioni cul­turali, il materiale in quanto autonomamente dotato di una propria vira di senso e anche di un proprio coagulo storico. Tra questi due poli egli innesta una serie di scarti significati­vi e di barbagli simbolici che sprigionano con­tinue irradiazioni di lettura, non lineari ri­spetto alla struttura linguistica dell’opera. Al­la base è dunque un fare inteso come severo, rarefatto esercizio di scrutinio problematico, dotato di un forte vaglio di mentalizzazione ma anche di accelerazioni inventive: in cui anche lo straordinario grado di confezione indica la concentrazione e la sospensione di questo farsi maniera, di questa sontuosa mise en scène dell’artificio.

Zorio, Letto, 1966

Zorio, Letto, 1966

Una bruciante tensione energetica erom­pe dalle opere di Giuseppe Spagnulo, grumi di una mitologia individuale che si manifesta nell’effusione potente del gesto nella materia, la cui intima qualità ( ma anche l’opaca quanti­tà, la presenza) è fatta per essere fecondata dall’atto vitale, e così trasmutata in sostanza, senso materiato. Il suo epos privato, nutrito di umori popolari e a un tempo di suggestioni colte, trova un veicolo naturale in un fare che ha i ritmi lenti, saporosi, rituali della grande memoria artigianale, e percorsi di crescita formale nello spazio fisico che rivelano una logica strutturale compatta, un robusto tasso di coesione interna. La terra, il ferro, la sabbia, la cera non vengono dunque adottati ideologi­camente in quanto materiali “poveri”, e inve­ce perché capaci di riscattare la passività cui l’artista li costringe in un tessuto formale omogeneo, che restituisca questa tensione genetica in un nucleo linguistico fortemente assertivo.

All’immagine in quanto codice, stratifica­zione di convenzioni, rivolge la sua indagine Antonio Trotta, che muove da un’astrazione iconografica duplice, funzionale e materiale, per immettervi una serie di superfetazioni linguistiche e, per conseguenza, di senso. L’artificialità della pratica scultorea, indivi­duata nei suoi topoi materiali e tecnici (il marmo, il bronzo, le loro lavorazioni tradi­zionali) e formali (la colonna, il capitello, la fontana, il panneggio) diventa soggetto del proprio stesso svolgersi, con tutto il bagaglio di stereotipi e di valori che costituiscono la sua identità storica. E’, quello di Trotta, un lavoro tutto svolto sul piano della retorica e del dis­velamento dei suoi meccanismi. Esso si affida però non a fredde esercitazioni anatomiche e invece a spinte fantastiche, a solari recuperi di possibilità di senso, a invenzioni in cui venga distillato, al massimo grado di trasparenza, quel rapporto di reciproca intima necessità che lega l’idea di materia e l’idea di forma.

Nanni Valentini incarna, meglio di ogni altro, lo scultore legato per vocazione e per scelta alla materia per eccellenza, la terra, contenitore primigenio di ogni senso e dun­que da eccitare nella sua più ricca intimità grazie a un approccio attivamente complice, amorevole, che ne segua passo passo i modi di aggregazione, di organizzazione. Dall’esser forma e colore naturale, affioramento ctonio (la zolla), all’accogliere il differenziale indi­stinto (il segno, il gesto del tracciare); dal prender forma primario (il vaso) al farsi pie­namente luogo, qualità di spazio (la casa, la soglia, l’ombra) e di immagine (il volto, la statua), Valentini scava per intuizioni pro­fonde, che hanno il tempo sospeso di un ritua­le, a far emergere lo spettro di valori che questo elemento, nel dialogare con acqua aria e fuoco, sprigiona. L’estrema squisitezza della sua fattura non è da leggere, dunque, come mero virtuosismo artigianale, e piuttosto come veicolo di una penetrazione sapienziale nella materia, che conferisce il massimo di senso a ogni atto.

Spagnulo, Turris, 1982

Spagnulo, Turris, 1982

L’avvertimento del sapore dei materiali, fatto di proiezioni soggettive e della loro for­za interna, della loro vitalità, ha condotto Gil­berto Zorio a concentrarsi sull’indagine dei processi di trasformazione energetica che li animano o che essi stessi attivano. Anziché indurre o suscitare tali tensioni, egli si pone nella condizione di organizzarle, esplicitando­le: con un’intensificazione, tuttavia, degli scambi allusivi e delle valenze simboliche chiamate in causa, in modo da incidere in profondità sui livelli di convenzionalità del linguaggio. Da qui il marcato accento che Zo­rio pone sui meccanismi di costruzione dell’opera, la cui genesi poggia sul prelievo di forme date (i giavellotti, i crogiuoli, le pelli), sulla manipolazione di materiali (la terra, la cera), e sulla combinazione significativa tra elementi eterogenei secondo equilibri strut­turali che si fanno essi stessi sistemi di articolazioni processuali.

Va osservato innanzitutto che il riconfe­rimento di un’attuabilità propria alla scultura passa in primo luogo attraverso l’istituzione di un rapporto fertile e non strumentale con la tradizione, con lo specifico bagaglio disci­plinare tanto quanto quello della propria sto­ria culturale. Se è vero, come scriveva Sklovs­kij, che in arte bisogna “avere il proprio odo­re”, esso non consiste, per la scultura italiana, in quella pellicola di regionalismo da esporta­zione oggi tanto predicato in opposizione a un altrettanto forzato international style: ma è una risultante ben più complessa e avvertita, radiante, che nasce da questo continuo doppio confronto. Sul fronte disciplinare vi affiora il riper­corrimento asistematico (ma non banalmente eclettico) di tutto il patrimonio di esperienze passate e presenti, che consente una rilettura in termini riflessivi dei gangli di identità della scultura: la pratica di materiali “alti” (mar­mo, bronzo) o “bassi” (legno, terra, anche gesso); l’intrinseco potenziale espressivo del­le tecniche; le varietà di senso implicite nei livelli iconografici fino al limite della teatra­lizzazione dell’idea. Ma soprattutto la scala storicamente sedimentata dei suoi rapporti chiave e del loro valore di necessità: pieno/­vuoto, volume/spazio, finito/infinito, super­ficie e luce, quantità e peso, tattilità, luogo, materia, forma, struttura.

Ecco, l’ultima triade di elementi indicati è anche quella che riporta in maniera più pro­pria ai modelli della tradizione nostrana, che rende inconfondibile I’opera degli artisti indi­cati. Vi è, innanzitutto, il riconoscimento di un alto grado di intimità della materia, di quella gamma di connotati che la indirizzano a configurarsi in individui plastici fortemente caratterizzati. Anche là dove il condizionamento attivo dell’artista appare più forte, es­so non si spinge mai a contraddire le vocazio­ni naturali, i vettori genetici di confermazione del materiale. Il processo di elaborazione dell’opera non vi appare mai come immissione di forme a priori o come mimesi di idee con­cettualmente definite (si pensi invece, per confronto, a quanta durezza manifestano in questo senso gli artisti minimal o certi nuovi fautori dei materiali “alti” (4)) e neppure come adozione di atteggiamenti ideologica­mente ambigui come l’oggettualismo e lo “sculturale”. Ciò che si tenta di suscitare è la possibilità della materia di farsi «disinvolta sostanza». In tal modo scaturisce anche un’idea di struttura che si manifesta come concretizza­zione del gradiente di crescita tipico della ma­teria e determinazione di un organico luogo plastico, e non invece come imposizione mec­canica di un ordinamento formale altrimenti voluto.

La forma, infine, riportata o a evento primario (Mainolfi, Spagnulo, Valentini) o a luogo di frizione (Nagasawa, Trotta) e di at­traversamento linguistico (Icaro, Zorio), rimane il dato imprescindibile, unificante, fina­le del processo, liberato dalle incrostazioni e dalle sclerosi del vieto formalismo – la pen­sabilità assoluta, in sé, della forma, la sua progettualità – e ricondotto a quel valore di soglia, di punto limite in cui la scultura inizia a essere un individuum ad alto potenziale di senso.

A tutto ciò è sotteso il dato fondante della fattura, una pratica che si pensa come unico possibile concreto ambito conoscitivo di espe­rienza e di verifica, la cui artigianalità orgo­gliosamente esibita si fa essa stessa sostanza, emissione di valore; non veicolo di una quali­ficazione contingente, e invece qualità pro­pria di processo.

Note  1. Per la ceramica, cfr. Censimento della cerami­ca, Centro documentazioni visive, Fagnano Olona, 1979; Terra & Terra, Palazzo Perabò, Laveno, 1980; Il cotto e il crudo, Palazzo del Bonaiuto, Caltagirone, 1981. 2. Cfr. a questo proposito le utili disamine di P. Fossati, Il paradosso della scultura, e di G. Guberti, Scultura e sculturale . . ., in “La tradizione del nuovo”, V, 15, maggio 1981, pp. 5-7 e 33-40. 3. F. Gualdoni, La sovrana inattualità, cat. Padiglione d’arte contemporanea, Milano, 1982, e Dell’inattualità, in “Flash Art”, n. 105, ottobre-novembre 1981, pp. 49-50. 4. W. Saunders, Hot metal, in “Art in America”, summer 1980, pp. 80-96.