L’oro, il sole, il divino
L’oro, il sole, il divino, in “FMR”, 30, 2009
Si legge nel Libro della mia vita di Teresa d’Avila, XXIX, 13: “Gli vedevo nelle mani un lungo dardo d’oro, che sulla punta di ferro mi sembrava avere un po’ di fuoco. Pareva che me lo configgesse a più riprese nel cuore, così profondamente che mi giungeva fino alle viscere”. Senza voler ricorrere agli schemi di Jung e di Eliade, l’oro evoca archetipicamente divinità e regalità, purezza e perfezione, sole – nel valore di luce eterna e incorrotta, di fuoco originario – e sangue. Il dardo di luce e di verità penetra nelle carni di Teresa, ne sublima il sangue e la fa partecipe dell’eterno.

Croce, VII secolo, Cividale del Friuli, Museo
La suggestione ha radici ataviche. Per gli Aztechi l’oro è teo cuitabl, sangue e fluido fisico del dio solare, sostanza che garantisce l’eternità del mondo. Nella titolatura reale egizia, tra i “grandi nomi” del faraone figura Bik nebu, Horus aureo: ove l’oro invera la regalità, perché d’oro è la carne immortale e incorrotta degli dèi.
Nel mondo romano, la mistica dell’oro penetra e lievita per vie diverse, destinate a fondersi nell’identificazione tra il Sol oriens per cui dall’etimo aurum, luce d’alba, si forma lo stesso nome latino, il Sol invictus, e la figura di Gesù Cristo.

Roccia d'Oro, Kyaikhtiyo
Una via è quella del culto solare semitico praticato nella siriaca Emesa, importato da Quinto Vario Sesto Bassiano, nato dalla potente Giulia Soemia, come El-Gabal, da cui il nome d’Eliogabalo. Posto più in alto di Giove, maritato a Minerva e ad Astarte e a Tanit in un sincretismo programmatico che declina nuovamente la polarità sole/luna come oro/argento, il Sol invictus di quel III secolo dopo Cristo s’incarna in un betilo nero conico. Nel giorno di mezza estate Eliogabalo, racconta Erodiano nella Storia dell’impero dopo Marco Aurelio, “collocava il dio del sole su un carro ornato di oro e gioielli che veniva portato per i sobborghi, fuori dalla città. Il carro recante la divinità era trainato da sei grandi cavalli bianchi. Nessuno teneva le redini e nessuno stava sul carro, il carro veniva scortato come se lo stesso dio fosse il cocchiere. Eliogabalo procedeva a ritroso davanti al carro, tenendo le redini e guardando il dio; faceva tutto il percorso all’indietro, con lo sguardo fisso in alto verso il suo dio”.
Il Sol invictus media con l’altro grande culto solare d’importazione ellenistica orientale, quello mitraico d’impefetta derivazione zoroastriana, sino all’ufficializzazione, nell’anno 274, da parte di Aureliano, d’un culto specifico, che celebra il 25 dicembre, nell’occorrere del solstizio d’inverno, il natale del Sole: segno della divinità di Mitra è la corona raggiata ottenuta dal Sole, e la loro alleanza viene celebrata in un’agape mistica.
L’altra via, la principale – ma senza il retaggio sincretico del culto solare probabilmente destinata ad attecchire con molta maggiore difficoltà – è la tradizione biblica importata dalle prime comunità cristiane. Dapprima minoranze linguistiche orientali che parlano il greco e dal quinto decennio dopo Cristo sono percepite come setta ebraica instransigente ed esoterica, poco prima della scelta di Aureliano i Cristiani sono una comunità che conta circa cinquantamila adepti, e che si vede riconoscere da Gallieno un certo grado di ufficialità.

Moschea Al-Askariya, Samarra
“Molti ritengono che il Dio cristiano sia il Sole perché è un fatto noto che noi preghiamo rivolti verso il Sole sorgente e che nel Giorno del Sole ci diamo alla gioia”, scrive Tertulliano all’inizio del III secolo. Sol Invictus si sovrappone nitidamente al biblico Sol Iustitiae annunciato da Malachia: “Per voi invece, cultori del mio nome, sorgerà il sole di giustizia con raggi benefici”, sino alla decisiva raffigurazione musiva del Cristo come Sol Invictus, III secolo, delle Grotte Vaticane.
Il meccanismo d’identificazione troverà pieno compimento in Costantino: la sua colonna celebrativa a Costantinopoli lo raffigura con la corona radiante di Sol invictus, mentre sulla base la scritta “Tu, Cristo, sei il creatore e il signore del mondo; a te ho consacrato questa città che è la tua, così come lo scettro e la potenza di Roma. Proteggila, salvala da ogni pericolo”, chiudendo in unità ch’egli riteneva perfetta l’identificazione tra regalità terrestre e natura divina dell’imperatore.
D’altronde, l’equivalenza tra divinità – ch’è la forma di regalità altra affermata nella predicazione scandalosa e nel dramma del Gesù evangelico –, oro e luce solare è ben radicata nel testo biblico. Nel libro dell’Esodo Dio ordina a Mosè: “Mi facciano un santuario, perché io abiti in mezzo a loro. Voi lo farete secondo tutto quello che io ti mostrerò, sia per il modello del tabernacolo che per il modello di tutti i suoi arredi. Faranno dunque un’arca di legno di acacia, lunga due cubiti e mezzo, larga un cubito e mezzo e alta un cubito e mezzo. La rivestirai d’oro puro, la rivestirai di dentro e di fuori; e sopra le farai una ghirlanda d’oro, che giri tutt’intorno. Fonderai per essa quattro anelli d’oro e li metterai ai suoi quattro piedi: due anelli da un lato e due anelli dall’altro lato. Farai anche delle stanghe di legno d’acacia e le rivestirai d’oro. Farai quindi passare le stanghe per gli anelli ai lati dell’arca, per portarla. Le stanghe rimarranno negli anelli dell’arca; non saranno rimossi da essa. E nell’arca metterai la Testimonianza che ti darò. Farai anche un propiziatorio d’oro puro; la sua lunghezza sarà di due cubiti e mezzo e la sua larghezza di un cubito e mezzo. Farai quindi due cherubini d’oro; li farai lavorati al martello alle due estremità del propiziatorio; fa’ un cherubino a una delle estremità e un cherubino all’altra estremità; farete i cherubini di un sol pezzo col propiziatorio alle sue estremità. E i cherubini avranno le ali spiegate in alto, in modo da coprire il propiziatorio con le loro ali; saranno rivolti l’uno verso l’altro, mentre le facce dei cherubini saranno volte verso il propiziatorio. Metterai quindi il propiziatorio in alto, sopra l’arca; e nell’arca metterai la Testimonianza che ti darò. Là io ti incontrerò, e da sopra il propiziatorio, fra i due cherubini che sono sull’arca della testimonianza, ti comunicherò tutti gli ordini che avrò da darti per i Figli d’Israele. Farai anche una tavola di legno di acacia, lunga due cubiti, larga un cubito e alta un cubito e mezzo La rivestirai d’oro puro e le farai tutt’intorno una ghirlanda d’oro. Le farai tutt’intorno un bordo alto un palmo di mano e intorno a questo bordo farai una ghirlanda d’oro. Le farai pure quattro anelli d’oro e metterai gli anelli ai quattro angoli, che sono ai quattro piedi della tavola. Gli anelli saranno vicini al bordo per farvi passare le stanghe destinate a portare la tavola. Farai le stanghe di legno di acacia e le rivestirai d’oro; esse serviranno a portare la tavola. Farai pure i suoi piatti, le sue coppe, i suoi calici e le sue tazze con cui si fanno le libazioni; li farai d’oro puro. E metterai sulla tavola il pane della presentazione, che starà di continuo davanti a me. Farai anche un candelabro d’oro puro; il candelabro, il suo piede e il suo tronco saranno lavorati al martello; i suoi calici, i suoi pomi e i suoi fiori saranno tutti di un sol pezzo. Dai suoi lati usciranno sei braccia: tre braccia del candelabro da un lato e tre braccia del candelabro dall’altro; su un braccio saranno modellati tre calici in forma di mandorla, con un pomo e un fiore, e sull’altro braccio tre calici in forma di mandorla, con un pomo e un fiore. Così sarà fatto per le sei braccia che escono dal candelabro. Nel tronco del candelabro ci saranno quattro calici in forma di mandorla, coi loro pomi e i loro fiori. Ci sarà un pomo sotto le due prime braccia uscenti da esso, un pomo sotto le altre due braccia uscenti da esso, e un pomo sotto le due ultime braccia uscenti da esso: così sarà fatto per le sei braccia uscenti dal candelabro. Questi pomi e queste braccia, formeranno il tutto, sarà d’oro puro lavorato col martello. Farai pure le sue sette lampade, lampade che saranno sistemate in modo tale da far luce sul davanti del candelabro. E i suoi smoccolatoi e i suoi portasmoccolature saranno d’oro puro. Il candelabro sarà fatto con un talento d’oro puro, con tutti questi suoi utensili. E vedi di fare ogni cosa secondo il modello che ti è stato mostrato sul monte”.

Pagoda Shwedagon, Yangon
E nel primo dei Libri dei Re: “Per l’arca dell’alleanza del Signore fu apprestata una cella nella parte più segreta del tempio. La cella interna era lunga venti cubiti e alta venti. La rivestì d’oro purissimo e vi eresse un altare di cedro. Salomone rivestì l’interno del tempio con oro purissimo e fece passare, davanti alla cella, un velo che scorreva mediante catenelle d’oro e lo ricoprì d’oro. E d’oro fu rivestito tutto l’interno del tempio, e rivestì d’oro anche tutto l’altare che era nella cella. Nella cella fece due cherubini di legno d’ulivo, alti dieci cubiti. […] Erano anch’essi rivestiti d’oro. Ricoprì le pareti del tempio con sculture e incisioni di cherubini, di palme e di boccioli di fiori, all’interno e all’esterno. Ricoprì d’oro il pavimento del tempio, all’interno e all’esterno”.
E nello stesso libro: “Essi andarono a Ofir, dove presero quattrocentoventi talenti d’oro e li portarono a Salomone”.
Quel ch’è certo è che il termine più ricorrente in questi passi è “oro”, mentre il tessuto tutto della Bibbia afferma Dio come luce solare, e fuoco, contrapposta alla luce pallida e ingannevole delle false credenze: sino allo strepitoso brano evangelico di Luca, in cui Gesù annuncia: “Come infatti il lampo guizza da un estremo all’altro del cielo e illumina ogni cosa, così sarà il Figlio dell’uomo nel suo giorno”.
Non diverso è presso le altre religioni storiche. D’oro è la cupola della moschea Al-Askariya a Samarra in Iraq, e a Gerusalemme quella della Moschea della Roccia, ove nella Lailatul Miraj, la notte dell’ascensione, il Profeta sale al cielo.
E si legge nel Buddhacarita, Le gesta del Buddha, composto nel I secolo d.C. da Asvaghosa: “Poiché a questo egregio è proprio lo splendore dell’oro eccellente, ed egli è contrassegnato da raggi luminosi, diverrà un Santo conoscitore della verità, oppure un monarca universale sulla terra, o sire”.
Oro rifulge nello stupa centrale della Pagoda Shwedagon a Yangon, in Birmania, adorna di 4004 campanelle d’oro, 474 d’argento e 1805 foglie d’oro, sovrastata da una banderuola d’oro nella quale sono incastonati 1100 diamanti e 1383 pietre preziose, da un pennone con bassorilievi in oro e un globo d’oro contenente 4351 diamanti: sopra il globo risplende, infine, un diamante di 76 carati. E non lontana è la Roccia d’Oro di Kyaikhtiyo, luogo sacrato dalla reliquia del Buddha in perfetto meravigliato equilibrio, che vale per il praticante l’equilibrio stesso del dharma.
Oro è pregio che da terreno si fa metafisico, è luce che da terrestre trascende in divina. Nell’arte occidentale nata cristiana, è il fondo d’oro della tradizione che, romana, il Cristianesimo assume da Bisanzio, da cui nasce anche l’icona orientale che Pavel Florenskij ci ha insegnato a leggere come metafisica le cui immagini sono “prodotti della luce”, e traduce in vicenda europea nel Libro dell’arte di Cennino Cennini: “Disegnato che hai tutta la tua ancona, abbi una agugella fissata in una asticciuola e va grattando su per li contorni della figura verso i campi che hai a mettere d’oro”.

Klein, Monogold MG 7, 1960
È, questa, tradizione che monta sino ai giorni nostri, nella metafisica ansiosa, ma quanto mistica, di Lucio Fontana e Yves Klein, il cui Monogold è figlio della storia tutta: “E l’oro, era veramente qualcosa! […] La foglia che viene posata delicatamente sulla superficie da dorare, spianata precedentemente con un piatto, e bagnata ogni volta con l’acqua gelatinosa. Quale materia!”.