Claudio Verna. Immagini di pericolo, catalogo, galleria Nuova 2000, Bologna, 8 marzo 1986

Sono passate finalmente molte acque, sotto il ponte delle petizioni di principio e del le giaculatorie onnicaptanti. E la pittura di Claudio Verna è ancora qui, alle soglie di un’akmé fatta di saporosi azzardi qualitativi, di toni espressivi tutti maggiori, anziché del corrispondere meccanico alle ragioni contingenti di un clima.

Cresciuto nell’asse continuo di mediazione tra le necessità dello psichico, di una sog­gettività eretta a unicum mitico, di una pittura fondamentale vocata a ricostituirsi in corpo dotato di senso, d’un canto, e dall’altro la consapevolezza che ciò presuppone scelte, e processi, e “l’espressione semplice del pensiero complesso” (Newman), ampia e potente ma senza eloquenza, e l’atteggiarsi entro una superficie perimetrabile perché sia mentalmente esperibile, Verna ha filtrato tali termini problematici fino a ren­derli non poli di una tensione drammatica, ma assetti naturali, congruenti della pro­pria pittura.

Verna, Particolare in ombra, 1983

Verna, Particolare in ombra, 1983

Ha scelto, nuovamente, di correre il rischio dell’orizzonte – penso alle cesure roth­kiane di Foxtrot, 1978, all’esplicito Pittura, 1979 – assunto però a perno di una qua­lità spaziale totalmente altra, introversa, costituita per crescita organica del colore e dei suoi segni.

Ha consentito che le grandi stesure si producessero per stratificazioni laboriose, incre­spate di toni, per movenze modulate, senza assertività, così da entrare in profonda risonanza con il passo aperto, ampio ma concentrato, dei gesti lunghi portatori d’un vibrante tessuto emotivo.

Senza concedersi al prestigio esteriore della grande maniera, della forzatura di grazia: con una sorta, anzi, di sottile pudore, di reticenza che tende a risolvere l’opera per via di trasparenza e ambiguità, e farla figlia d’un’intensità felice così autentica da non dar luogo ad abbigliamenti sensibilistici.

Verna, Senza titolo, 1986

Verna, Senza titolo, 1986

Questo spazio si dà così come luogo proprio, non proiettivo, territorio d’una geogra­fia d’affetti che ha scelto di dipanarsi con fluenze lente, come continuamente sospese, esitanti a dirsi, nitidamente renitenti all’orgasmo, eppure piene, mature, senza ri­goristiche economie di senso.

Uno spazio capace di produrre anche climi, e atmosfere, suoi propri, temperature e densità specifiche, com’è nella serie straordinaria, 1982-1984, dei Clamori (dell’au­tunno, dell’inverno, della primavera, dell’estate), in cui l’innesco letterario, che parla di certa poesia ermetica e d’impressionismo, vale da reagente laicamente problematico, né privo d’autoironia, alla ritrovata capacità della pittura d’essere fenomeno tota­le, la cui stessa distanza di memoria è fatta di valori definitivamente pittorici.

Ecco, forse la ragione formante l’attuale stagione di Verna è proprio questa: il saper essere dentro la storia dalla parte del senso anziché da quella delle prosecuzioni senza necessità: dalla parte delle ragioni semplici dell’espressione anziché di quelle mortua­rie dell’ideologia del museo; dalla parte della felicità d’essere anziché del frigido do­ver essere.