Toti Scialoja. Dopo San Isidro, catalogo, Studio Reggiani, Milano, 11 ottobre 1990

San Isidro, 1983. È lo scrutinio lungo e severo, il progetto antico d’una organicità con­naturata e impreventiva, a farsi condizione d’espressione. Passione, dramma d’affetti, al vaglio terso dell’intelletto.

Scialoja, Libano, 1990

Scialoja, Libano, 1990

In quel rimontare meravigliato – conferma, esito, agnizione – alle figure grandi del­l’ombra, alla lucidità estenuata dell’ossessione nelle sue “sorde, fonde, cadenzate pen­nellate d’un nero opaco e coprente” (D’Amico) è come se Scialoja ricapitolasse, nel­l’ustorio specchio goyesco, il far grande e fondamentale d’un antico sempre guarda­to e amato, mai supinamente derivato, crogiolo sovranamente inattuale dell’interro­gazione ultima rivolta al senso, all’esistere, al fare per esistere. Concentra, lì, a fronte della tela che s’è fatta topos nudo, e insieme crocevia perico­lante d’affollate ragioni, il momento ineludibile della chiarezza, d’un evento cieco alla logica diligente ma affondato nelle stille ultime e nei nervi d’una corporeità che s’av­verte esistere e si riconosce incapace di progetto; consapevolezza tenace, e assoluta, ma d’una perdita, d’una catastrofe.

Tutti adempiuti, sono i destini della forma. Toti li ha inseguiti, e scavati, con errante me­todicità, ogni volta approdando all’orgoglio della padronanza, alla coscienza alta e perfetta dello stile: ogni volta, insieme, sperando di valicare il limite mortale dell’ap­parenza, di afferrare l’appiglio di una bellezza nevroticamente crudele ma viva, capace di speranze, d’una non abbagliante esistenza. Resta, di tutto questo, l’urgenza perentoria del braccio, varcata la soglia del modo, della retorica, a far segno e immagine per diretta identità dei furori astratti della men­te, dei suoi ansiti implacabili, delle lunghe estenuate tenerezze: del dubbio, fatto so­stanza ed esperienza del pensiero.

Non più poetica di corpo e di evento, è, allora, ma inizio d’un’altra sapienza, intuizione oscura ma, essa sì, genetica, d’una nuova vicenda, di lucori lontani dell’anima che si fanno tempesta silenziosa della forma. E la “nonluce, nonombra” di cui dice Manga­nelli, forse: “Un’oscillazione della luce, forse una irruzione lunare, inonda di un gelido ceruleo un momento di grigia grazia; sotto il lacerato velo dell’aurora si svela un subi­taneo, ricordato, astratto svolio di occulti volatili; ecco: forse è stato catturato un vola­tile istante antelucano, il momento in cui il gelo del cielo albare in sé accoglie il gelo del cielo non più notturno”.

Eccoli, allora, questi spazi che non son più luoghi fisici, scanditi dalle metriche d’una azione concreta. Si fissano, subito transeunti, come addensamenti del pensiero emo­zionato, in cui si danno conflagrazioni e sospensioni, crescite inturgidite e dissoluzioni brusche, stratificazioni e floccose velature. È, davvero, comportamento di sostanze cromatiche, senso intensificato, tragico e stupe­fatto, che si manifesta e subito ritrae in un agguato d’introverse sottrazioni sensoriali. È come un trovarsi di pure temperature, e atmosfere, affettive, risentito e rappreso in consistenze minerali, come un’afona e lacerata cosmogonia sospettosa della propria evidenza e fisicità e insieme radicata in una differenza, in una distanza dai fantasmi sensoriali che la fa sussistere in definitiva, incontrattabile alterità.

È alterità di pittura, beninteso; credo e scommessa totale travalicante le angustie or­mai scontate del pittorico: pittura non demiurgica, non ottimisticamente fondativa, iro­nica del suo stesso apparato, pur così assaporato e introiettato nei gesti certi della mano. Toti non ne interroga, ormai, che la vocazione cruciale alla necessità, a una ragione d’esistenza di purificata primarietà, che conosca e rifletta da se stessa, riportata tutta all’esperienza dell’esistere al tempo: anche se, come ad ogni esito di civiltà, di disin­cantata non disperante laicità: impastata di terra e di cielo, ammutoliti ma ancora com­pagni dell’occhio e del cuore.