Villers
André Villers. Vita con Picasso e altri ritratti, catalogo, Galleria Patrizia Poggi, Ravenna, 2 febbraio 2002
Uno degli argomenti più avvincenti che la vicenda della fotografia ha delineato, nel suo molteplice e spesso fervidamente ambiguo rapporto con le arti dette “maggiori”, è il cortocircuito più volte innescatosi tra ragione documentaria e ragione espressiva.
L’arte del Novecento, l’arte delle avanguardie, non solo ha integrato, sul piano considerato di ricerca, la fotografia come disciplina “sicura di sé”, in posizione non ancillare, ma della stessa fotografia ha sfruttato appieno la sorgiva funzione descrittiva, la referenzialità, il codice ovvio di lettura che la voleva, e la vuole, delegata alla testimonialità oculare per eccellenza: facendo anche di ciò materia dell’arte, e del discorso sull’arte. Tutto ciò è accaduto non solo sul piano della più consueta divulgazione, la quale pure ha indotto alle opere della pittura, della scultura, dell’architettura, una sovratederminazione d’impatto, una sorta di superevidenza, sconosciute alle culture visive dei secoli precedenti. Non solo, peraltro, ha determinato una sorta di omologazione d’aspettativa, pareggiando in un unico approccio sguardi che le opere stesse pretendevano in origine differenti. Essa ha, su un altro piano, contribuito in modo determinante ad amplificare a dismisura fattori come l’identificazione tra l’artista personaggio e il suo lavoro, tra la mitizzazione del soggetto agente (perfettamente congruente alle spinte all’automitologia individuale autonomamente generate dall’avanguardia, dal romanticismo al futurismo a dada) e le sue azioni: sino alle operazioni, consapevolmente condotte, d’assunzione protagonistica d’immagine da parte di Dalì, prima, e di Warhol, poi; e in seguito agli ulteriori cortocircuiti provocati da esperienze come l’happening e la land art, alle soglie dell’indistinguibilità tra evento “autentico” e testimonianza dell’evento stesso, e da quelle, ancor più recenti, che il principio di testimonialità presuntamente oggettiva della fotografia assumono a materia retorica della propria azione.
Quel ch’è certo, peraltro, è che quando il giovane André Villers accetta, nel 1953, di divenire l’oeil ufficiale di Pablo Picasso, il testimone oculare per eccellenza d’una esistenza in cui la gloria ha già sdrucito i confini tra biografia e opera, si ritrova nella condizione eccezionale, unica si può dire nel secolo, di poter decidere la qualità e l’impostazione della narrazione cui è chiamato; di decidere, in altri termini, di scrivere un autentico, ininterrotto, saggio critico su Picasso, immagine dopo immagine.

Villers, Picasso, 1959
Non può essere un rapporto puramente professionale. Neppure è un incontro tra grandi, avvolti da simmetrico carisma, com’è invece per altre foto che ci hanno raccontato Picasso, da Brassaï a Lartigue a Doisneau. Villers è poco più che ventenne, il suo rapporto con il maestro spagnolo, tra Vallauris e Mougins, è talmente intenso, giorno dopo giorno, ora dopo ora, in una confidenza domestica unica, familiare, da dipanarsi senza soluzioni dai momenti di vita privatissima alle occasioni ufficiali, della pittura, della cronaca. Soprattutto, quella del fotografo è devozione, rispetto, ma mai mitologia, mai subordinazione: il suo sguardo è sempre – e sempre rimarrà – di una tale casta capacità di meraviglia da penetrare molte pieghe della personalità potente dell’artista, ma senza farsene plasmare in modo passivo, senza farsi strumento d’un teatro artistico che era, per altri, già pura apparenza mondana.
Le sue immagini si allineano negli anni, dunque, come un continuum di suggestione e d’importanza straordinaria. Picasso, con Villers, non può permettersi la posa, ritrova una quotidianità in cui il gioco del travestimento da Popeye, le carezze ai bambini, la festa di piazza, il magnetismo ieratico davanti alla tela, il momento di stanchezza feroce e solitaria, si fanno immagini d’una strepitosa umanità, e allo stesso tempo ci dicono la sostanza, quella autentica non quella agiografica, della personalità di un genio. Davvero, fuor di retorica, la serie picassiana di Villers è il punto in cui noi cogliamo lo strato in cui il vivere e l’essere artista non fanno differenza: c’è l’istantanea, il ricordo d’un istante (ma per una figura come Picasso, esistono “istanti decisivi” e istanti che non lo siano?), e c’è l’avventurarsi addirittura nella ricerca pura di linguaggio, in un privilegiato à quatre mains com’era, anno 1962, la serie di immagini di Diurnes, esperimenti e montaggi eseguiti soldalmente da Picasso e Villers dei quali, ahinoi, Berggruen editò troppo pochi esemplari.
Villers non è, beninteso, “di” Picasso. Da quella stessa metà degli anni Cinquanta vengono altre attività che consolidano la vocazione dell’autore per un ritrarre asciutto, sottilmente antiretorico, in prima lettura d’un understatement amicale ma in realtà nutrito d’una cultura del vedere di formidabile ampiezza, in cui avverti lunghe confidenze concettuali non solo con Man Ray e i maestri del ritrarre nuovo, ma anche con i Fouquet e i Clouet e l’identità storica stessa del ritratto. Per “Les Lettres Françaises”, per “Aujourd’hui”, per “XX siècle”, ma soprattutto nei modi dell’autonoma forma d’arte, Villers prende a realizzare una serie di ritratti che diverranno a loro volta dei classici non tanto per il peso specifico dei soggetti – ci sono “tutti”, da Prévert a Chagall, da Le Corbusier allo stesso Brassaï, da Magnelli a Max Ernst, da Mirò a Dalì… – quanto per la sua capacità di prosciugare le retoriche del genere forse più stratificato di incrostazioni di maniera, e di elaborare su questo approccio rigidamente analitico – mai, però, inutilmente concettoso, mai minimalista “ad arte” – uno stile secco, scabro, in cui la fedeltà al bianco/nero sia davvero scelta sorgivamente pittorica, devota alla pura qualità d’immagine.
Caratteristica forse più evidente, certo più sostanziosa, dello sguardo di Villers è una sorta di arguta, sottilmente aristocratica lateralità. Ben consapevole che i protagonisti del suo ritrarre sono già circondati da un’aura talora addirittura ossedente, e parimenti – da uomo scrutinante com’è – che l’aspettativa stessa dello spettatore proietta sulle sue immagini una sorta di preventiva monumentalità, egli fa di quest’aura e di queste aspettative la materia problematica stessa dei propri scatti, in un gioco di sottili spiazzamenti, di sottrazioni di ufficialità, di dettagli di normalità fatti cadere come altrettanti disturbi del mito. Il suo gioco, in altri termini, è di far sembrare queste foto delle immagini d’un dialogo privato, in cui il signore che appare davanti all’obiettivo non è Hartung o Tàpies, l’estroverso César o il meditativo Kolàr, il luciferino Peverelli o il funambolico Butor (per non dire di Picasso e dei suoi coetanei), ma un artista colto fuori dalla messinscena della posa, oppure che in questo caso, di fronte allo sguardo puro e confidente di Villers, gioca con vezzo alle pose non ufficiali; che in quel momento, cioè, non “fa”, non “si sente”, il maestro da immortalare, ma un amico che gioca alla foto con un altro amico.
Perché ciò è accaduto, e accade, con Villers e non con i molti, pur grandi, che ci hanno dato testimonianza – tra eroica e mitologica e autoreferenziale – dell’arte e delle sue figure, da Penn a Namuth, da Mulas a Leibovitz? Credo, soprattutto, per due ragioni.
La prima è la costante sprezzatura, la naturalezza a propria volta non automitologica che consente all’autore di non mettere in gioco il proprio carisma in sommatoria, o in contraddizione, con quello del personaggio ritratto. Egli non è mai il maestro della fotografia in visita cerimoniale al “pari grado” della pittura o della letteratura. Villers, insomma, tra gli argomenti della propria grandezza annovera una serena, lucida, rilassata consapevolezza della medesima, indifferente alla esibizione di sè: né altrimenti potrebbe comportarsi, a ben vedere, chi in canottiera fotografava Picasso in canottiera.
La seconda, certo di maggior momento, è che Villers è, generazionalmente, una figura cresciuta insieme al formarsi stesso del mito dell’arte moderna, che ne ha potuto assaporare le stagioni, ma sa, sa bene, che c’è stato un tempo in cui anche questi santoni non erano circondati da liturgie e officianti. Mentre, dall’altra parte dell’Oceano, Warhol erigeva il monumento all’artista come star, sulle rive del Mediterraneo Villers, feroce europeo, continuava a vedere delle umanità, delle normalità, delle bevute di pastis e delle conversazioni domenicali in giardino, sul ciclismo e sui figli: cioè, l’apetto più difficile e intrigante del genio.