Un decennio in Italia
The past Ten Years of the Art in Italy: ’80, in “Art Vision”, vol.21-3, Tokyo, autumn 1993
E’ una serie di mostre che si tengono tra il 1979 e il 1980 a indicare, in modo assai esplicito, il mutamento di clima artistico che riguarda l’arte internazionale, e l’italiana in particolare.
Alla rassegna “Europa 79”, a Stoccarda, la rappresentanza italiana vede presenti tra gli altri Francesco Clemente, Sandro Chia, Enzo Cucchi, Domenico Bianchi, Bruno Ceccobelli, Giuseppe Gallo, Mimmo Germanà, Nino Longobardi, Alberto Garutti, Michele Zaza, a fianco di giovani artisti europei come Hubert Schmalix, Bertrand Lavier, Reinhard Mucha, Günther Förg, Tony Cragg, Gerhard Merz, Wolfgang Luy e molti altri.
Negli stessi mesi, in “Le stanze” al Castello Colonna di Genazzano e in “Opere fatte ad arte” ad Acireale, Achille Bonito Oliva presenta in modo organico il gruppo di artisti che indica come Transavanguardia – Chia, Clemente, Cucchi, Mimmo Paladino, Nicola De Maria – e analizza il loro grado di autonomia rispetto al clima artistico dominante nel decennio dei Settanta, caratterizzato da Arte povera e forme sempre meno rigide di concettualismo.
Nel 1980 gli stessi cinque artisti, cui si aggiungono Luigi Ontani e Ernesto Tatafiore, tengono una mostra alla Kunsthalle di Basel, che segna l’inizio del successo internazionale della nuova situazione.
Naturalmente molte altre occasioni, tra gallerie private e spazi pubblici, negli ultimi anni Settanta offrono gli indizi del maturare di questa nuova vicenda, e del suo scaturire dal più vasto orizzonte post concettuale in cui agisce tutta la giovane generazione italiana.

Igort, Io la laguna e te, 1992
E’ un orizzonte che prende ad assumere una spiccata fisionomia intorno al 1975 (un termine utile può essere indicato nella mostra “Campo Dieci”curata a Milano da Luciano Inga Pin, cui sono presenti molti degli artisti che saranno protagonisti del decennio successivo), e che al di là dei differenti indirizzi si qualifica per alcuni tratti comuni: rifiuto del rigorismo teorico e della netta componente ideologica – con implicazioni politiche – della generazione precedente; forte propensione ad interpretare l’art about art da un punto di vista inventivo, contaminatorio,variante, anziché storicistico e criticistico; nuovo spazio dato a tutte le forme di affettività tipiche delliesprimere; uso rilassato e pragmatico degli strumenti espressivi, senza l’ansia e la mitologia extramediale tipica dell’arte degli anni Sessanta.
Sono dunque installazioni, fotografie,ma anche disegni e pitture e sculture, in una variabilità stilistica e tecnica che si intende senza remore, e soprattutto senza obblighi ideologici rispetto all’idea generale dell’arte e della sua necessità. Naturalmente non si tratta di un rifiuto radicale di quanto la rivoluzione linguistica degli anni Sessanta ha messo in campo, e piuttosto una sorta di superamento, di brusca e discontinua evoluzione, che si liberi di tutti quegli aspetti, moralismo operativo in testa, che facevano di Arte povera e dintorni dei fenomeni ancora perfettamente inscritti nei caratteri storici dell’avanguardia europea così come era stata disegnata dai Marinetti e dai Breton.
II termine transavanguardia indica, dal punto di vista dell’attitudine e della proiezione mondana dell’arte,proprio tale discontinuità senza contrapposizioni polari.
Nei fatti,questi artisti hanno per modelli critici – né potrebbe essere altrimenti – proprio talune grandi figure dell’avanguardia recente, da Joseph Beuys a Jannis Kounellis, da Eva Hesse a Bruce Nauman, e passata, in un arco non omogeneo di attenzioni che accomuna Lucio Fontana e Marc Chagall, certa Pop art statunitense e il Novecento italiano: ed è proprio tale varietà e non linearità di attenzioni il punto di più autentica forza della situazione che va maturando. Altre mostre che si tengono nello stesso periodo vanno ricordate per l’ampiezza delle esperienze prese in esame, per il tentativo talvolta fenomenologico di dar conto della complessità delle posizioni, più che di un’unica linea interpretativa. Esse sono “L’estetico e il selvaggio” alla Galleria Civica di Modena, 1979, curata da Giorgio Cortenova, “Dieci anni dopo: i nuovi nuovi” alla Galleria Comunale di Bologna, 1980, curata da Renato Barilli, “Italiana nuova immagine” alla Loggetta Lombardesca di Ravenna, 1980, e “Genius loci” ad Acireale,l980, curate da Bonito Oliva, “Forma senza forma” alla Galleria Civica di Modena, 1982, curata da Enzo Bargiacchi, “Registrazione di frequenze” alla Galleria Comunale di Bologna, 1982, a cura di critici della nuova generazione come Francesca Alinovi, Claudio Cerritelli, Flaminio Gualdoni, Loredana Parmesani e Barbara Tosi.

Longobardi, Senza titolo, 1991
Quali sono, sinteticamente, le posizioni in discussione? In primo luogo, va ovviamente indicato l’atteggiamento transavanguardistico di Chia, Clemente, Cucchi, De Maria e Paladino. Esso si basa su una scelta prioritaria delle tecniche classiche – pittura scultura disegno, ma anche il mosaico, ad esempio, o l’incisione – e su uno stile variabile ma fortemente segnato da espliciti riferimenti storici: un certo espressionismo d’inizio secolo per Chia e, con più spiccati sapori di primitivismo, per Paladino, molti elementi d’eco surreale per Clemente, la grafica tedesca e del Novecento italiano per Cucchi – l’artista che più opera sul confine disciplinare, facendo dei suoi quadri comunque eventi di cui la situazione ambientale, l’installazione, è parte non accessoria – e una certa astrazione favolistica per De Maria.
Elemento topico è per tutti l’idea di stile. Attraverso la contaminazione di elementi stilistici di estrazione diversa, non importa se originali o no, questi artisti dichiarano un rapporto strumentale con le discipline: essi usano, in senso ancora tipicamente postconcettuale, l’arte, le sue tecniche, le sue forme, in una sorta di espressività enfatica e abbreviata, indifferente – proprio nel senso dell’indifferenza duchampiana e warholiana – a concetti come l’originalità, la proprietà di linguaggio, l’omogeneità formale.
Tale atteggiamento ha avuto in questo decennio momenti diversi, ma solo nei due artisti più lucidamente ancorati alla questione dell’esercizio straniato del linguaggio, Cucchi e Paladino,ha mostrato anche uno spessore e una continuità apprezzabili.
L’attenzione a questioni come la disciplina e lo stile ha avuto contemporaneamente altre vie di indagine. E’ il caso di quegli artisti che, riprendendo le limpide analisi d’immagine di Giulio Paolini, hanno teantato di dar corso a una sorta di nuovo classicismo deliberatamente manierato e fondato sul d’après, ora venato di visionarietà, ora di esplicito kitsch.
E’ il caso di Carlo Maria Mariani, antesignano e unico esponente di autentico rilievo di una corrente poi codificata come Anacronismo, e di Omar Galliani, autore d’iconografie rarefatte e anticheggianti, per il quale è componente propria del lavoro lo stesso virtuosismo tecnico.
Salvo, dal canto suo, dopo un esordio in seno all’Arte povera ha realizzato serie di quadri dallo stile “basso” sino alla volgarità, basati su soggetti elementari e consueti, in una sorta di specchiamento deviante del cattivo gusto accademico.
Non lontano da questi atteggiamenti, ma con una sua più introversa qualità pittorica, e con un più fascinoso ricorso ai modelli stilistici – dall’Ottocento all’illustrazione – è Wainer Vaccari, dalle spiccate vocazioni grottesche e visionarie.

Nagasawa, Varco nel tempo, 1993
Il ritorno alla centralità dell’iconografia e di un linguaggio apertamente nutrito degli stilismi del passato ha i suoi punti di riferimento, oltre che in Paolini, in artisti che già negli anni Settanta hanno maturato anomale posizioni di recupero delle valenze simboliche ed emblematiche dell’immagine, con un diretto impegno al ribaltamento in chiave affettiva del concettualismo. E’ il caso di Antonio Trotta, le cui opere in marmo e in mosaico si concentrano sulla retorica stessa del virtuosismo scultoreo; di Vettor Pisani, autore di complesse installazioni che attingono ai temi e alle iconografie del simbolismo mitteleuropeo dell’Ottocento, da Arnold Boecklin a Fernand Khnopff; e di Gino De Dominicis, che si spinge nei disegni e nelle installazioni sino a soglie di un ispido e inquietante esoterismo.
I percorsi di questi artisti originano, nel cuore degli anni Settanta, da una pratica intensa della fotografia – tra registrazione mondana di visioni e situazioni e confronto problematico con l’autonomia linguistica della Fundamental Painting –, della performance e dell’installazione, intese come luoghi possibili di un operare in cui le componenti soggettive e irrazionali prevalgano su quelle didascaliche e progettuali.
Non a caso, una variegata area di lavoro per un lungo tratto mantiene forte l’attenzione al rapporto tra la riappropriazione delle tecniche storiche dell’arte e l’inconscio tecnologico (F. Vaccari), che ormai caratterizza quasi antropologicamente la nostra epoca, in cui è inavvertibile la distanza tra sensazione fisica e segno mediale.
Esemplare è il lavoro di Luigi Ontani, autore dapprima di autoritratti fotografici in cui appare come tableau vivant oppure in situazioni privatissime e divertite, che trasferisce il proprio autobiografismo dolce e stravagante in acquerelli e sculture in cartapesta un po’ esotici e un po’ kitsch.
Oppure quello, nei primi anni Ottanta, di Michele Zaza, che realizza sequenze fotografiche in cui dà corso a lievi fantasticherie visionarie dalle atmosfere suggestive.
O di Franco Guerzoni, che invece traduce il suo precedente lavoro concettuale, sullo stratificarsi storico senza fine di immagini e significati, in una pittura in cui i pigmenti si depositano e si cancellano, strato su strato, sino a lacerare il supporto, e far cosi trapelare le tacce delle stesure precedenti.
O di Davide Benati, che riprende la levità delle immagini dell’arte orientale, e la traduce in una fastosa e poetica fantasmagoria vegetale, in cui l’acquerello e l’olio attuano un dialogo serrato di materie e trasparenze.
E ancora di scultori come Giuseppe Maraniello e Luigi Mainolfi, e di pittori come Luciano Bartolini, Marcello Jori, Salvatore Garau, Italo Bressan, Paolo Iacchetti – i due ultimi attratti da un rinnovamento possibile dell’astrazione lirica – e di altri, dalle posizioni problematiche meno nitidamente definite.
Se questi ultimi artisti hanno per tratto comune una sorta di tensione alla leggerezza, alla trasparenza poetica e stilistica, altri invece preferiscono un rapporto più fisico e agonistico con la retorica del dipingere, e con le sue materie, alla ricerca della possibilità di ridefinire una nuova qualità corporea, una nuova organicità possibile, dell’immagine.
Cruciale è in questo senso la personalità di Nino Longobardi, il quale fa della stessa figura umana il soggetto del suo lavoro sulla fisicità dell’immagine, e la traduce in una pittura intensa e di forte gestualità, che stratifica e scava materie opache e inestetiche sino a un ambiguo limite in cui di nuovo si rende possibile la rappresentazione.
Su vie analoghe ha operato Piero Manai, scomparso prematuramente, più attento però a recuperare il gesto veloce e nevrotico di modelli pop come Mario Schifano e il rifiuto stilistico della pittura dei giovani Neue Wilder tedeschi, contrapposti alliestetismo ambiguo della Transavanguardia. Il più giovane Arcangelo, dal canto suo, ha dato corso a una pittura di gestualità brusca e primaria, basata sulla dominante del nero e sulla quasi totale assenza di colori, in cui fa nascere da una sorta di trance espressivo un paesaggismo visionario, dai molteplici echi antropologici.
Con Piero Fortuna e Bruno Ceccobelli, autori a loro volta di pitture di prorompente fisicità e di ambigua iconografia, e di quadri in cui è fondamentale la componente materiale – legno, oggetti trovati – si entra nel vivo di quella che è stata indicata come Nuova scuola romana: un gruppo di varia estrazione e orientamento che verso la metà degli anni Ottanta si afferma come interprete di un clima in cui il debito con il manierismo postconcettuale, tipico di Transavanguardia e dintorni, si estingue in favore della ricerca di un’espressività complessa, più attenta ai valori puramente poetici e a un rapporto non cinico e non ironico con la tecnica, con la questione della forma e dello stile.
Mostre come “Ateliers” a Roma, 1984, curata da Bonito Oliva, “Anni ottanta” alla Galleria Comunale di Bologna, l985, a cura di Barilli, “Nuove trame dell’arte” al Castello Colonna di Genazzano, 1985, a cura di Bonito Oliva,f anno il quadro di questa evoluzione della situazione artistica.

Paladino, Senza titolo, 1992
Lo spettro delle personalità è assai diversificato. Felice Levini e Giuseppe Salvatori realizzano pitture in cui l’iconografia è schematizzata fino ad assumere un puro aspetto decorativo. Anche Domenico Bianchi opera in tal senso, ma con una più decisa accelerazione verso il formalismo, verso il rapporto plastico tra grandi tarsie geometriche e interventi gestuali, su una base tecnica molto sofisticata.
Marco Tirelli, invece, intende la riassunzione dello schema geometrico dell’ immagine come ripensamento delle magie formali e matematiche del Rinascimento e del classicismo, e fa affiorare sagome echeggianti l’antico – da Luca Pacioli a Etienne Louis Boullée – da fondi neri di forte suggestione percettiva, deliberatamente sensuali.
Tali riavvicinamenti a un’arte meno debitrice dell’iconografia hanno, a loro volta, dei modelli autorevoli: le ampie tarsie decorative ambientali di Sol LeWitt, il lavoro recente di Kounellis, l’astrazione mentale dolce e iterativa di Boetti e, più all’indietro, l’astratto-informale italiano del dopoguerra,d a Alberto Burri a Carla Accardi.
Questa interpretazione è applicabile, con le dovute cautele critiche, anche ad artisti come Giuseppe Gallo, Gianni Dessì, Piero Pizzi Cannella, Roberto Pace, nei quali il riferimento iconografico si riduce a puro pretesto plastico, in seno a un operare in cui prevalgono gli aspetti della ridefinizione delle possibilità stilistiche, e di autoreferenza linguistica, della pittura.
Sul versante scultoreo agiscono due figure importanti, Nunzio, le cui articolazioni di legno combusto e annerito, dialogando con l’opacità del metallo, danno vita a una sorta di neoplasticismo addolcito e sensuoso; e Claudio Palmieri, in cui gli echi dei rigori minimalismi si contaminano con la ripresa dell’organicismo tipico della grande tradizione ceramica italiana, da Fontana a Leoncillo.
E’ con questi artisti, tra l’altro,oltre, che con l’evoluzione sempre più marcatamente ambientalista del lavoro di Cucchi e Paladino, che riprende forza il progetto di una pratica scultorea fortemente legata all’environment. Essa ha tra l’altro per interpreti di prim’ordine due artisti che sin dagli anni Settanta hanno maturato percorsi fortemente individuali e di grande carisma intellettuale, Hidetoshi Nagasawa e Ettore Spalletti.
In Italia dalla fine degli anni Sessanta, Nagasawa realizza vere e proprie situazioni ambientali in cui la struttura plastica, realizzata con materiali di forte suggestione sensibile e simbolica – legno, bronzo, ottone, rame, marmi – crea una condizione di lettura straniata, fortemente atmosferica, di sottile vibrazione emotiva e intellettuale.
Spalletti, invece, è più diretto interprete del clima operativo rarefatto degli anni Sessanta-Settanta, e realizza situazioni monocrome tese sino al punto del collasso percettivo.
Tra i più giovani, vanno citati Pietro Coletta, che reinterpreta in chiave costruttivista la lezione minimal, Vittorio Messina, Antonio Violetta e Luigi Stoisa, autori di installazioni d’eco poverista, ma soprattutto Alberto Garutti.
Nelle opere di Garutti, indistintamente quadri o ambientazioni, è in gioco l’idea stessa di dimora, di luogo dell’abitare, attraverso la realizzazione di veri e propri interventi architettonici (pavimenti, pitture murali, tavoli), la scelta di materiali come piastrelle, moquettes, vetri, e l’iterazione di schemi grafici come piante di edifici.
Su un versante diverso si colloca poi Eduard Habicher, autore di deliberatamente imperfette e aggressive strutture metalliche che danno luogo a compressioni e alterazioni delle condizioni normali di percezione del luogo, quasi disegni ambientali di tesa espressività.

Zanichelli, Nudo, 1988
Come si è visto, nel volgere di pochi anni il nucleo d’attenzione del dibattito artistico è passato da un’aperta ripresa disciplinare delle tecniche tradizionali e del valore delle iconografie, a una meno esplicita e più sofisticata attenzione all’idea di stile, di organicità e autoreferenzialità dell’immagine, e quindi a un atteggiamento più mentalmente “astratto” e meno polemico nei confronti dell’avanguardia degli anni Sessanta.
Sono questi dati, in particolare la ripresa dell’espansione mediale, della concezione antirappresentativa dell’immagine, e dell’analisi concettuale della pratica artistica, a caratterizzare l’affacciarsi della nuova generazione artistica: generazione, perché già se ne leggono gli elementi di contrapposizione e differenziazione rispetto al clima transavanguardistico, e la ripresa anche polemica di certi rigorismi neoavanguardistici che gli artisti più anziani rifiutavano nettamente.
Esaurendosi il ruolo anche paradigmatico che un movimento strategicamente e criticamente definito come la Transavanguardia esercitava, si assiste anche a una totale frammentazione delle linee di ricerca, che si irradiano in direzioni diversissime in una sorta di ripensamento circolare dell’arte degli ultimi decenni. Anche sul piano delle mostre, non a caso non sono indicabili iniziative in grado di segnalare una tendenza dominante, e piuttosto molteplici registrazioni di largo spettro.
Hanno carattere di panorama complessivo le vaste rassegne extraistituzionali (anche l’agire fuori dai canali ufficiali una ripresa degli atteggiamenti degli anni Sessanta, e porta persino alla riapertura di spazi autogestiti dagli artisti stessi) come quelle che si tengono nel 1985 nella ex-fabbrica Brown Boveri di Milano, coordinata da Giò Marconi, nel 1988 nel tessuto urbano di Novi Ligure, dal titolo “Politics”, nel 1989 alla fabbrica di via Apollonio di Brescia, promossa da Massimo Minini e intitolata “Fabbrica”, e nel 1990 a La fabbrica del vapore a Milano, con il titolo “Italia 90. Ipotesi arte giovane”, promossa dalla rivista “Flash art”: inoltre le rassegne annuali che nella seconda metà degli anni Ottanta si tengono per iniziativa di Luciano Pistoi al Castello di Volpaia a Radda in Chianti. Sul piano istituzionale, vanno ricordate almeno “Il cangiante” al Padiglione d’arte contemporanea di Milano, 1986, a cura di Corrado Levi, “New ltalian Art” ai Riverside Studios di Londra, 1989, a cura di Norman Rosenthal, Anthony Iannacci e Levi, e “Anninovanta” alla Galleria Comunale di Bologna, 1991, a cura di Barilli.
E’ da queste vicende mobili e non sempre chiaramente decifrabili che emergono le figure sulle quali si poggia l’attuale dibattito artistico italiano.
II filone più spettacolare e di più immediata incidenza sul pubblico agisce sugli standard visivi e di gusto abbassato del popism, tra ironia massmediale, contaminazioni con la cultura del fumetto e della pubblicità, e forte disinvoltura dal punto di vista linguistico e di stile.
Dopo la breve vicenda del Nuovo futurismo, interpretato da artisti come Plumcake (Cella, Pallotta, Ragni), Marco Lodola e Gianantonio Abate in chiave di ripresa di un meccanicismo enfatico e divertito, è soprattutto con figure come Pierluigi Pusole, il prematuramente scomparso Bruno Zanichelli e Igort – quest’ ultimo impegnato in una complessa attività multimediale, dalla musica al fumetto – che la definitiva perdita di senso proprio dell’immagine mondana, in favore di un puro teatro di simulacri smaglianti e vuoti, assume piena elaborazione.
Su un versante diametralmente opposto agiscono invece artisti che intendono saggiare la possibilità ulteriore di un’arte di piena fondazione formale ed espressiva, erede della tradizione “alta” – dalla dimensione dell’aura a quella della forma – dell’avanguardia europea.
E’ il caso di scultori come Paola Pezzi, che realizza forme concentrate e di ambigua intensità, e Salvatore Astore, che sagoma e scandisce grandi superfici metalliche cercandone una sorta di vocazione tra organica e ambientale, e di pittori come Luigi Carboni, che riprende in modo nuovo la questione del percettivismo e della bidimensionalità della Fundamental Painting, Luca Caccioni, che opera con intensificazioni poeticamente ossessive di segni, debitori di Giacometti e Beuys, sulla larva visiva dell’immagine, Stefano Peroli, Andrea Fogli, Albano Morandi, Stefano Cattaneo, Mauro Folci (quest’ultimo con più marcate componenti neoconcettuali), variamente attratti da postminimalismo e astrazione lirica.
Va segnalata inoltre la posizione affine di Filippo Maggia, che affronta coraggiosamente la riaffermazione di uno specifico linguistico ed espressivo della fotografia, dopo gli entusiasmi mediali e le relative cadute d’attenzione che avevano riguardato questa disciplina nel decennio precedente.
Da un atteggiamento analogo, ma con più aperte connotazioni formalistiche e ambientalistiche, e con più dichiarate ascendenze neocostruttiviste e poveriste, muovono anche Carlo Guaita, Antonio Catelani, Daniela De Lorenzo, Alfredo Pirri, Aldo Ferrara, Alfredo Romano, Vittorio Corsini.
Tanto il rigorismo mentale e operativo dell’arte concettuale e minimale degli anni Sessanta era oggetto di polemica da parte delle esperienze d’arte “affettiva” dei primi anni Ottanta, altrettanto ora è proprio il rifiuto dei cinismi retorici e del nuovo tradizionalismo tecnico tipici di quel momento, a fare da impulso problematico e attitudinale della generazione nuovissima.
Va sottolineato che, in una consistente fascia di artisti, resta comunque alla base dell’operare una sorta di congelamento pop, indifferente e ironico, di quelle vicende, che divengono a loro volta un mero serbatoio di forme, tic linguistici, semplici modalità tecniche, in seno al quale agire per prelievi, citazioni, ancora contaminazioni, senza un vero e proprio progetto di fondazione del valore artistico.
Anche questi artisti, analogamente a quanto fanno gli Igort e gli Zanichelli sul piano delle iconografie e delle ridondanze formali, intendono la propria posizione come postmodernamente libera da questioni come la produzione di un senso possibile, la qualità specifica dell’opera, la moralità estetica. Ne scaturisce una sorta di teatralizzazione raggelata del luogo comune attuale dell’arte, dello stereotipo “freddo” dell’opera, e del museo e della mostra come ambientazioni sofisticate di eventi linguisticamente rarefatti e introversi.
In questo senso agiscono Stefano Arienti, che con tecniche semplificate sino al gioco infantile continuamente ripercorre lo svuotamento massmediale dell’immagine, anche artistica; oppure Umberto Cavenago, autore di improbabili “macchine” di opaca e spettacolare presenza; o Massimo Kaufmann, che manipola con fredda decostruttività il metodo dell’arte concettuale; o ancora Marco Mazzucconi, Mario Dellavedova, Amedeo Martegani, Karpüseeler. Altre personalità invece, agenti soprattutto intorno all’epicentro milanese rappresentato dalla rivista “Tiracorrendo” e dallo spazio espositivo autogestito di via Lazzaro Palazzi, oltre che – per alcune almeno – dalla Casa degli artisti, aggregazione di ateliers e mostre promossa già molti anni fa da Luciano Fabro e Nagasawa, mirano con determinazione a riannodare il filo della ricerca analitica e linguistica intrapresa da Arte povera, concettuale e minimal negli anni Sessanta, proseguendola sino a conseguenze che il wave on wave delle mode culturali e delle politiche critiche ed espositive aveva per molti versi impedito di esplorare.
Tra questi artisti si annoverano Luisa Protti, presente alla Biennale di Venezia del 1993 proprio a fianco di Fabro e Nagasawa, autrice di sottili esperienze sulle materie e sulle loro vocazioni a dichiararsi in forme e spazi; Luca Quartana, autore di installazioni in cui la shape delle cose e il clima complessivo delle installazioni – evidenza, cadenza spaziale, luminosità – assumono molteplici valenze evocative e simboliche; Bernhard Rüdiger, che agisce soprattutto sulla qualità ambientale degli enivronments che realizza, e sulla analisi critica della qualità, nel senso dell’interrogazione sistematica su proprietà fisiche e spaziali oltre che simboliche, dei materiali e delle costruzioni adottati; Liliana Moro, spesso agente a quattro mani con Rüdiger, e dagli intenti affini; e ancora Adriano Trovato, Mario Airò, Pietro Almeoni, Manuela Cirino e taluni altri.
Al di là dell’ancora non ben precisata definizione teorica e qualitativa del lavoro, che traversa ancora una fase di troppo pressante necessità dimostrativa, è tale filone il più consistente, in termini di dibattito e di ricchezza problematica, dell’attuale momento italiano. Esso ha, come unico interlocutore di reale tenuta critica, il più variegato atteggiamento di pura tensione espressiva incarnato da giovani come Pezzi, Caccioni, Astore, eccetera.
In una parola, si può osservare come la prosecuzione dell’attitudine soft e cinicamente postmoderna, indotta da pop art e certo neodadaismo di superficie, mostri dall’origine segni di non vasto respiro, sia in termini di background riflessivo sia per qualità di risultati. Per contro, le posizioni di maggior forza e di più lunga prospettiva riguardano la ridefinizione della pratica artistica come pratica propria dell’espressivo, con le questioni di linguaggio, di stile, di valori, ad essa necessariamente connesse.