Riflessioni su Tosi, in Arturo Tosi. Opere 1916 – 1950, catalogo, Museo Butti, Viggiù, 1993

Come agisce, la “cautelata violenza” – così la indica Longhi – che Arturo Tosi matura nel cuore degli anni Venti, in seno al corso suo lunghissimo, e assai meno ordinario di quanto usualmente si ritenga, d’esperienza della pittura?

Da qui si può muovere, per una lettura che voglia ritrarsi dalla pletora di luoghi comuni sul Tosi agreste e diligentemente lirico che certe testimonianze dettate dall’affetto e in sé incolpevoli (“gentiluomo di campagna” per George, “georgico” per Savinio, et similia) hanno consentito di edificare, cristallizzandone e banalizzandone la figura fuori dal corso vivo dell’arte italiana del secolo nostro: e che si chieda, invece, qual grado di consapevolezza avvertita del dibattito novecentesco e quale scrutinio intellettuale alimenti la severità monastica e ritrosa, abbigliata di aristocratico understatement, che fu tipica di Tosi, della sua confidente e rischiosa facilità.

In altri termini. Se esiste un Tosi grande paesista, e strepitoso coagulatore di nature morte – quelle nature morte che dettarono entusiasmi non di circostanza al giovane Guttuso e a Brandi, al sorgere del cruciale decennio Quaranta – è perché la grazia lievitante e pudica, e insieme l’evidenza sensuosa delle immagini sue, è effetto d’una interrogazione inflessibile alle ragioni di una pittura di valori che si àncori senza affettazioni, ma senza alibi confortevoli, al paradigma d’una storicità, e d’un progetto di qualità, che non possa insieme non dirsi moderno, e non possa non dirsi italiano.

Certo, le cadenze delle polemiche del tempo ne hanno sovraesposto, in sede critica, di volta in volta il non avanguardismo, l’italianità, la poggiatura ottocentesca, l’adesione senza remore al vero di natura… quasi che, all’eteronomia di troppe posizioni del moderno, si volesse rispondere con speculari assunzioni di Tosi in una implausibile militanza. Ma son dati, tutti, di qualche momento, solo a patto d’intendere la qualità specifica dell’inattualità di Tosi, nonché figlia di vocazioni caratteriali ed esistenziali, soprattutto di non banali pensieri sulla necessità fondativa della pratica d’arte.

La “violenza” dell’animus pittorico di Tosi è, dunque, il dato originario della sua formazione pittorica. Il filtro ne è, storicamente, la lezione di Ferragutti Visconti – a sua volta intento sempre a sorvegliare, attraverso le sprezzature asprigne del mestiere, la pressione d’un colorismo alto ed eccitato sino, talora, alla crudezza – e attraverso quella l’orizzonte che include le brume inquiete di Ranzoni e le pastosità scintillanti di Fornara (Briganti indicherà, non banalmente, in Gola un punto forte di triangolazione problematica), dunque un naturale ottocentesco tutt’altro che cauto e appiattito sul motivo, e insieme fortemente illetterario.

Cresce in Tosi, in questi anni, una tensione al crepitare dell’espressivo nel fremere e frantumarsi delle paste, nell’involversi gurgitoso dell’apparato grafico, nel darsi per dissonanze sovratono dei timbri, che è della sua fitta stagione “alcoolica” ma soprattutto alla sostanza stessa del suo modo d’intendere, in anni maturi, il coagulo formale delle nature morte, dei fiori.

E’ dato di cultura nostrana, ma insieme, per i tramiti ormai ben esplorati del sodalizio con Grubicy, in tutto europeo, nello spettro non lineare che lo farà comparare, in tempi diversi, a Monticelli e a Soutine.

Ma è tensione che s’incanala, pulsante, in una scelta fondamentale e lucida di misura, di padronanza intellettuale e fabrile del testo pittorico, di classicità dirà George, che si chiede un processo di decantazione e messa a fuoco lenta e risentitissima della qualità d’immagine.

Non solo Tosi, come dirà Longhi, scavalca “alla lesta l’impressionismo”, almeno nella declinazione vulgata nell’Italia d’inizio secolo, ma anche da subito le clausole più sclerotizzate del ben fare, del pittoricismo di circostanza, dell’apparato variamente cronistico e aneddotico che pure nutre di sé una gran quota del paesaggismo nostrano di tardo Ottocento: per non dir poi dei mentalismi rari e letterari della cultura di simbolo.

Di quel mondo gl’importa salvaguardare, per scelta riflessiva, l’attitudine a un rapporto sensorialmente diretto con il visibile di natura, da travasare poi con lungo vaglio di introiezione emotiva e intellettuale, e avvertita selezione degli strumenti linguistici, in materia pittorica – colore stillante fino a farsi luce, atmosfera, estensione sensibile in sé – e in nitida qualità d’immagine.

Tosi, Campi arati a Rovetta, 1940c.

Tosi, Campi arati a Rovetta, 1940c.

Sceglie, insomma, di ergere in proprio castelletto significativo e poetico sul “principio delle evidenze” – così lo indica Carrà: ma d’evidenze che siano di pittura, tutte; luce e corporeità altra d’una disciplina che sa, orgogliosamente e senza arroganze ereditarie, la propria possente identità storica, e la propria sottile e  dubitante condizione moderna.

La storia vuole che sia l’incontro con i Cézanne della Biennale del 1920, a imprimere la svolta definitiva all’operosità del già maturo pittore. Su tale incontro, Argan ha costruito una lettura importante, e per nulla ovvia, dell’arte di Tosi.

E’ vero. A patto d’intendere, ancora una volta, che non d’una folgorazione damascena sulle strade del moderno si trattò, bensì d’una conferma importante del rovello – che era allora variamente di Tosi e dei Carrà, dei Sironi, dei Ferrazzi, degli Oppo… – che lo induceva, da figlio non ribelle della tradizione italiana, a concepire il progetto della pittura come sensificazione fondata d’un costrutto intellettuale.

Cézanne, dunque, rinforza Tosi nel convincimento della “cautela”, ovvero del vaglio inflessibile delle condizioni di necessità dell’elemento formale, il declinarsi innestato dei piani, la spaziosità cadenzata e padroneggiata, l’identità sensoriale del colore/luce.

Ma Tosi, qui sta la sua dote maggiore, non ammette di sacrificare una più rilassata cantabilità pittorica sull’altare del costrutto, del primato mentale della formatività d’immagine. Ecco che la sua “violenza” sorgiva, il fremere dell’espressivo suo non disposto a dismisure ma autenticamente risonante nell’animo, s’assetta entro una coltivata partecipazione affettiva alla crescita del quadro, alle vibrazioni e ai riverberi della materia bella, alle confidenze pudiche dei grumi d’una non atteggiata dolcezza.

Ancora un riferimento, indiretto ma chiaro, viene dalla storia critica di Tosi. E’ il Bonnard indicato, con accenti analoghi, da Longhi e da Soby, e che vale come stendardo d’un postimpressionismo placido, pacato, accogliente l’amistà sensibile della visione sino a ridirla in materia pittorica, mai frastornato dalle teoresi, mai nostalgico di pittoricismi ambigui.

E’, in fondo, il modo che Tosi si riserva per tentare l’equilibrio, rarissimo e semplice, tra aspettativa sensibile del mondo e verità tutta singolare d’affetti del pittorico. Che è, anche, l’equilibrio che Brandi intravede tra dematerialità atmosferica della pagina pittorica e riverbero persistente di carnalità, di emozione sensibile, coagulata tutta nel colpeggio breve, e decantato sino a nuova naturalezza, del colore.

Per questo, anche, Tosi procede per serie, lavorando su rari scelti temi. La questione dell’assetto spaziale si riduce, nel paesaggio, a pochi gangli problematici, ove vale l’incernierarsi delle distanze su un sospetto di bidimensione, e la liberazione d’una circolazione aerea che sedimenta il colore per sottrazioni distillate, per depositi non attoniti, per coaguli lievi.

Nelle nature morte, invece, e nella carnalità ambigua dei fiori, la scansione dei piani si rinserra in una più posseduta presenza, in una più sprezzata e piena densità del colore, che non alle chiarità luministiche del paesaggio – lombarde, certo, per anagrafe culturale, ma di sicura ascendenza veneta, con venature d’una ben ripensata maniera – ma ai lucori straniati delle paste come impregnate di terre presiede: avendo per controcanto i bianchi calcinati, e soprattutto un rosa, un rosso, scavati sino al disagio sensibile. Qui, l’antica “violenza” si affranca dalle cautele struttive, si fa più spregiudicata e ansante: “sembra – così Scheiwiller – che una divina frenesia lo invada nel dipingere frutta e fiori, e un certo sensualismo ne accentui la colorazione”.

E’, questa, l’anima forse più vera di Tosi: certo, quella che lo conduce, negli anni ultimi, a una sorta di quieta ma baluginante visionarietà.

 

 

Nota. Le citazioni sono tratte da R. Longhi, La morte di Tosi, un gentiluomo di campagna, in “L’Europeo”, 22 gennaio 1956; W. George, A. Tosi peintre classique et peintre rustique, Paris 1933; A. Savinio, Arturo Tosi, Milano 1934; R. Guttuso, XXII Biennale, in “Le Arti”, 5-6, 1940; C. Brandi, Arturo Tosi, in “Le Arti”, 4, 1941; G. Briganti, 1942, cit. in C. Gian Ferrari (a cura), Arturo Tosi. Antologica 1891-1953, catalogo, Busto Arsizio 1990; C. Carrà, Artisti lombardi: Arturo Tosi, in “L’Ambrosiano”, 16 dicembre 1923; G.C. Argan, Tosi, Firenze 1942; J.T. Soby, XX Century Italian Art, New York 1949; G. Scheiwiller, Arturo Tosi, Milano 1942.