Schifano
Mario Schifano. La costante attendibilità del guardare, catalogo, Museo d’arte contemporanea, Lissone, 18 febbraio – 27 marzo 2005
Ancora siamo a indagare il talento provocatorio e il genio proliferante di Mario Schifano, figura eccentrica, e quanto mai fervida dell’arte del dopoguerra.
Eccentrico, certo Schifano è stato per quel suo modo antiretorico e anideologico di concepire la pittura, per quella sua sorta di leggerezza innata, per l’acume concettuale celato tra le movenze di un fare sempre alla prima. La sua pittura è stata, per lui, pratica sensuale sfrenata, vorace d’immagini tanto quanto onesta e generosa nel restituircele moltiplicate e desiderose di sensi, come in una sorta di fantasmagoria iridescente e felice.
Troppi erano, nei suoi anni, i vincoli del dover essere, delle teoriche, dell’arte come atteggiamento ed enunciato; troppo algidi, per lui, gli estremismi calvinisti del mentale: ad essi sospetto, il pittore ha proceduto come tentando una sorta di conflagrazione definitiva della stabilità dell’immagine, e dell’opera, erodendone le interne certezze, moltiplicandone i barbagli mentali e inventivi.
Da ciò il suo fervore estremo, quella sorta di erotica perennemente insoddisfatta che lo ha fatto procedere per seriazioni continue, sovrapposte, intersecate, quasi cumulando in un’unica condizione sospesa di coscienza il flusso emotivo e mentale e fantasticante. Schifano non si è mai chiesto che rapporto esista tra arte e vita; ha, semplicemente, con estremismo fastoso, annesso la vita alla propria arte.
“E’ il mio guardare: non sono stato monocorde. Questa è stata la mia incoerenza. Ma sono stato creativo e quindi costante. La costante attendibilità del guardare: come guardavo, perché guardavo…”: così Schifano, a dire di un atteggiamento non di uno stile, di una partita giocata tutta sulla consistenza della visione, sulla sua qualità mobile, sulla sua intrinseca eleganza, capace di svariare dalla freddezza inamena al sovratono inventivo, dalle bruschezze della concussione vorace alle estenuazioni della distillazione pittorica.
Dell’arte, insieme, l’artista ha scelto di non accogliere – né altrimenti poteva essere – i protocolli disciplinari, le cautele fabrili, il galateo normativo. Nato con anima esclusiva di pittore, ha scelto di giocarsi la partita con la visione, le visioni tutte: contaminando la pittura – quando dire, e, più, praticare contaminazioni non era ancora assurta a blandita moda postmoderna – con il flusso e le retoriche narrative del cinema, e con l’asserzione e la corporeità ambigua della fotografia, con le seduzioni demateriate del codice televisivo: fosse nato dieci anni prima, è da esser certi che il dibattito sulla “sintesi delle arti” avrebbe avuto corsi diversi, e meno scontati.
Ancora Schifano: “Il cinema mi è parso potesse esprimere più cose della pittura… Il cinema può esprimere l’uomo, l’umano, perché in una pellicola lo vediamo, che mangia, cammina, dorme, fa all’amore, mentre in un quadro sta fermo.
Io dormo con la televisione accesa, sono cullato dalla TV. Mi piace tutto… Naturalmente ciò che mi interessava non era la cultura della TV, ma la cultura dell’immagine della televisione”.

Mario Schifano
Paradossalmente il suo non è mai divenuto, per dirlo alla francese, un penser image, un fare dello schema pittorico il tramite; sempre è rimasto un penser couleur, un pensare pittoricamente, attraverso la menzogna geniale di quelle sue materie alte, aspre, lucenti, impure, corsive ma di delucidata precisione, come risentendo le carnalità straniate e ogni volta ritrovate delle figure che, come sindoni senza verità, la verità ritrovano in questa reincarnazione implausibile e radiosa.
Eccolo, dunque, il suo guardare. Fotogrammi, migliaia e migliaia di fotogrammi, catturati dal frame televisivo con procedimento in cui l’alea e l’intenzione si contaminano, ancora una volta impuri. Essi sono lì, lacerti provvisori del mondo, immagini sorgivamente sensate – all’apparenza, almeno, sensate: e nella convenzione che ce le fa guardare – rese orfane di contesto ma, per ciò stesso, abilitate a una ulteriore possibilità di senso, di sguardo.
La cronaca, il simbolo – quella strana simbologia massmediatica in cui avverti sempre retrogusto di brand – e soprattutto la fenomenica straniata del corpo, nella gamma tutta che va dall’identità autorevole all’ostensione di un’erotica consumata tra desiderio e senso di morte: Schifano cattura, scatto dopo scatto, con imperfetta meraviglia, immagini non al mondo, ma a ciò che il mondo vede di se stesso, nella presunzione insensata di raccontarsi ancora, di intessere le trame del senso.
Le immagini sono ora di fronte a lui, fissate in una esemplarità solo di convenzione, in una presunzione disperata di senso. Inizia qui il processo di più complessa, e controversa, appropriazione ed espansione da parte dell’artista.
L’intervento pittorico è brusco e veloce, reattivamente immediato alla sollecitazione iconografica. Ribadisce, ora, delle portanti lineari nella cui filigrana intravedi l’esercizio divertito dell’astrazione disegnativa; altrove, invece, il gesto pittorico breve, marcato da una sorta di urgenza febbrile, ricopre e rivela una sorta di carnalità umorale, quasi misurando la distanza dalla grazia, dal fantasma slontanato della bellezza.
In questa mostra di immagini scelte da Ilia Pellegrinelli, storica frequentatrice dello studio romano di via delle Mantellate, a ricostituire una sequenza ulteriore, una sorta di ritratto doverosamente cangiante di Schifano, sono raccolti esempi significativi di questo suo introverso e frenetico narrare se stesso attraverso la miriade di triangolazioni con le immagini mondane. Che è, anche, un narrare per capitoli non concatenati un viaggio nei codici: il corpo vale il logo, che vale la shape, che vale la foto, che vale il brandello disegnato, che vale la polaroid: tutto è niente, sinché non s’inveri entro i flussi veloci e, nella combustione degli atti pittorici, tersi, di questo condurre l’immagine alla presenza, alla materia sensibile del pittorico, a quel complesso toccare tra occhi e pelle che innesca il riverbero delle fascinazioni.
C’è sempre un altro senso possibile nelle iconografie del mondo, avverte Schifano, c’è sempre un flusso entro il quale le immagini si perdono e si ritrovano, si lasciano e si riprendono, si coagulano e si sfaldano, mantenendo il clima di suggestione e lo scheletro dei significati, ma schiudendo sempre differenze, piccole o grandi, ulteriori comunque. E’ possibile che guardare sia un modo, uno stile anche? E’ possibile che l’arte lavori sugli interstizi del senso del guardare, sui codici della visione, senza costruirci sopra teorie, per pura fluidità e leggerezza? Appunto: “Come guardavo, perché guardavo…”.
Schifano non riceve le immagini, non ne è assediato e men che meno posseduto; è lui che guarda, che scava, che padroneggia, anche quando più appariscente è il suo approccio indeterminato, non intenzionato sino alla svagatezza fastosa, alla lucida casualità.
Per questo la sua ascrizione all’orizzonte Pop non vale se non come breve indicazione cronistorica dei suoi esordi. La Pop assume le immagini per come sono, le congela, le restituisce come mummificate e plastificate nel gleaming della pittura che la middle-class crede di buon gusto. Monumentale o critica, la Pop lavora a far emergere la mortalità elegante dell’iconografia: è mid-cult che gioca al mass-cult, un po’ cinica un po’, alla fin fine, sprezzante.
Schifano no. Egli fa l’inverso. Il suo sguardo si posa senza filtri senza precognizioni sull’immagine, e la sua mano altro non sa essere se non aristocratica. Egli agisce nella consapevolezza che nessuna vitalità intrinseca, nessun senso stabile, può darsi a priori, e assume su se stesso il compito – la scommessa, il gioco, … – di ritrovare il loro respiro: le riaccende, le rimette in movimento, le smonta e le manipola sino a infiammarne il grumo di senso possibile, ben consapevole che questo è un processo senza fine, perché l’immagine compiuta non può essere che morta, e dunque, che nessun processo deve prevedere il proprio compimento, vivente della propria transeunte provvisorietà.
Quando si faranno, quando si potranno fare i conti non con la sistematica e con la burocrazia della storia artistica, ma con le sue divergenze e deflagrazioni, con le indiscipline e le indifferenze sistematiche, e soprattutto con i suoi più radicali détournements (nel senso, qui il più appropriato, di dirottamenti), allora si comprenderà, davvero, Mario Schifano.
Mario Schifano
Nasce il 20 settembre 1934 a Homs, in Libia.
Dopo il trasferimento con la famiglia a Roma, Schifano lavora come commesso e come collaboratore del padre, archeologo restauratore al Museo Etrusco di Valle Giulia.
Ha inizio in quegli anni l’attività di pittore. Tiene nel 1959 la prima mostra personale alla Galleria Appia Antica di Roma.
L’anno successivo si presenta alla Galleria Il Cancello di Bologna e alla Galleria La Salita di Roma in compagnia di Angeli, Festa, Lo Savio e Uncini, presentando quadri pressoché monocromi, grandi carte incollate su tela e ricoperte di un solo colore, come fossero schermi insieme neutri e sensuali.
“Nel 1962 andai a New York inviato ad una mostra organizzata da Sidney Janis. La mostra si chiamava The new realists. C’erano tutti: Rauschenberg, Oldenburg, Jasper Johns. …Ho fatto i miei lavori contemporaneamente, e non successivamente, alla Pop art. La Pop art la facevano loro e la imponevano, quasi come un fatto politico”. Così dichiara Schifano a proposito del suo ingresso prepotente sulla scena della Pop internazionale.
L’artista opera ora per cicli omogenei di temi, secondo una caratteristica che lo contraddistinguerà tutta la vita. Verso la metà degli anni Sessanta nascono, per esempio, Paesaggio anemico, Futurismo rivisitato e Io sono infantile, in cui si incrociano gli stereotipi della cultura alta e quelli della cultura infantile.
E’ di questo momento la celebre definizione data di lui dallo scrittore Goffredo Parise: “Un piccolo puma di cui non si sospetta la muscolatura e lo scatto”.
Sotto al spinta del clima artistico, che invita ad espandere l’area tecnica delle esperienze creative, a metà decennio Schifano realizza inoltre una serie di film, da Anna Carini vista in agosto dalle farfalle a Satellite, da Umano non umano a Trapianto, consumazione e morte di Franco Brocani. “Il cinema – affermerà Schifano – mi è parso potesse esprimere più cose della pittura… Il cinema può esprimere l’uomo, l’umano, perché in una pellicola lo vediamo, che mangia, cammina, dorme, fa all’amore, mentre in un quadro sta fermo”.
Fra il 1966 e 1967 realizza serie pittoriche ulteriori, tra le quali spicca Compagni compagni, segno di una crisi non solo politica che lo porterà ad abbandonare, per un periodo, la pittura.
Nei primi anni Settanta comincia a riportare su tela emulsionata immagini televisive prelevate e rielaborate con una pittura brusca e straniante. “Io dormo con la televisione accesa, sono cullato dalla TV – dichiara Schifano. Mi piace tutto. Dieci anni fa era diverso: fotografavo sempre” Partecipa nel 1971 alla mostra “Vitalità del negativo” e nel 1974 tiene la prima mostra antologica all’Università di Parma, curata da Arturo Carlo Quintavalle.
Segue un periodo fervido sul piano della produzione e delle esposizioni. Dai primi anni Ottanta nascono serie come Cosmesi, Architettura, Biplano, Orto botanico.
Da quel momento è un susseguirsi di frenetiche sperimentazioni iconografiche incrociate, in cui pittura, fotografia, televisione, e in anni più recenti elettronica, entrano in un gioco di continue collisioni e spostamenti.
Schifano muore a Roma il 26 gennaio 1998.