Gianni Colombo. Opere 1959-1979, catalogo, Studio Gariboldi, Milano, ottobre 2010

Un ragionamento. Scrive Gianni Colombo in occasione della sua mostra personale “Miriorama 4” da Pater, Milano, 9 febbraio 1960: “Penso che solo nella variazione un oggetto mostri il suo aspetto e ponga in evidenza il suo carattere uscendo dall’uniformità dello spazio da cui è circondato, infatti attraverso la componente temporale noi facciamo esperienza della realtà che non è possibile esprimere nella sua pienezza in simboli formali statici. […]

Colombo, Strutturazione pulsante, 1959

Colombo, Strutturazione pulsante, 1959

Da tempo ho cominciato a stabilire sul piano del ‘quadro-oggetto’ dei dislivelli, in modo che l’occhio dello spettatore, scorrendo sulla superficie, fosse costretto a salire e scendere da spessori, ad entrare e uscire da cavità indagando gli aspetti che la luce in naturale variazione determinava nel quadro. Solo nei quadri che ora espongo un autentico variare si attua contemporaneamente a quello dell’occhio (e dell’umore) dell’osservatore. Do oggi ai miei quadri delle possibilità che si attueranno solo nella velocità in un ordine di successione imprevedibile, così il turbarsi dell’uniformità di queste superfici potrà rappresentare un vero e proprio sorprendente dramma”.

A ben vedere, sin da questo enunciato programmatico si comprende la svolta definitiva ma, più, il destino che Colombo imprime al proprio lavoro. Oggettualità fisica dell’opera e fisiologia della percezione, an-esteticità rispetto ai codici d’aspettativa correnti, partecipazione attiva e complice dello spettatore nel darsi dell’opera come trait-d’union dell’esperienza estetica, situazione blandamente aleatoria: soprattutto, coinvolgimento forte e pieno della dimensione temporale in un processo che, sino a quel momento, sullo spazio e sulla durata psicologica, anziché fisica, dell’esperienza fondava il proprio apparato valoriale: questa la scelta di Colombo.

Il clima è noto. E’ quello che il secondo numero di  “Azimuth” tende a configurare come Nuova concezione artistica. E’ la lezione di Fontana e del recupero del cinetismo proclamato dalla mostra “Le mouvement” presso Denise René, 1955; è la contaminazione con la metodologia delle arti applicate nuove così come annuncia, in quel fatidico 1960, la mostra “Opere d’arte animate e moltiplicate” da Danese a Milano; è, ancora, lo sperimentale sul filo della reinvenzione duchampiana da parte di Manzoni, maestro giovane ma maestro, in chiave di blankness, di designazione cruda dei materiali, di rapporto con il codice spinto sino alla sua dissolvenza.

Un’opera atipica come quella Senza titolo del 1960, fondata sull’indifferenza straniata della similpelle, la cadenza minimamente geometrica delle cuciture, l’enfiatura oggettualizzante non immemore dei Gobbi burriani, è emblematica di questi inizi proprio perché atipica rispetto alle altre, contemporanee chiarezze, quelle che generano dal 1959 le opere maggiori, tra le quali spiccano, per nitore concettuale e potenza formale, le Strutturazioni pulsanti.

Del resto sono proprio le Strutturazioni pulsanti, e in un brevissimo volger di tempo opere come i Piani a introflessioni variabili, le Strutturazioni fluide, i Rotoplastik e i Piani rotoplastici, a marcare sin dall’inizio la presenza di Colombo in “Mioriorama”, tra personali e collettive.

La dichiarazione programmatica del Gruppo T recita in quell’occasione: “Ogni aspetto della realtà, colore, forma, luce, spazi geometrici e tempo astronomico, è l’aspetto diverso del darsi dello SPAZIO-TEMPO o meglio: modi diversi di percepire il relazionarsi fra SPAZIO e TEMPO. Consideriamo quindi la realtà come continuo divenire di fenomeni che noi percepiamo nella variazione. Da quando una realtà intesa in questi termini ha preso il posto, nella coscienza dell’uomo (o solamente nella sua intuizione) di una realtà fissa e immutabile, noi ravvisiamo nelle arti una tendenza ad esprimere la realtà nei suoi termini di divenire. Quindi considerando l’opera come una realtà fatta con gli stessi elementi che costituiscono quella realtà che ci circonda è necessario che l’opera stessa sia in continua variazione. Con questo noi non rifiutiamo la validità di mezzi quali colore, forma, luce, ecc., ma li ridimensioniamo immettendoli nell’opera nella situazione vera in cui li riconosciamo nella realtà, cioè in continua variazione che è l’effetto del loro relazionarsi reciproco”.

Colombo, Roto-optic, 1964

Colombo, Roto-optic, 1964

Sin d’allora si afferma in modo nitido il carattere affatto particolare del genio di Colombo, quel suo usare la ferocia meticolosa dell’arte esatta, quel suo ipertrofizzare il metodo e il rigore, ma per creare situazioni di perplessità, di deriva del senso, di scacco sornione al logos. Ovvero, quel suo modo di interrogare la razionalità non essendone succube, quell’estro fatto anche di umori subito stranianti, quell’insinuare Jarry dentro Ulm: in una parola, il genio di giocare al genio, secondo l’esempio luminoso che un Munari va in quel tempo diffondendo.

Testimoni di ciò saranno, negli anni, le Superfici pulsanti da attivare girando una manovella e godendo anche dello scricchiolio del polistirolo; le analisi geometriche straniate intorno all’architettura della casa di One Week di Buster Keaton; le cacogoniometrie protagoniste straordinarie delle stagioni finali del suo lavoro. E’, quello di Colombo, una sorta di modo arguto, e verrebbe da dire sorgivamente duchampiano, di pervertire anche le certezze dei sacerdoti del progetto e le apologie ottimistiche del razionale, partecipando alle loro stesse liturgie.

Strutturazioni pulsanti. “Con questa esperienza mi sono proposto di realiz­zare un oggetto visuale che, libero da interpretazioni analogiche o evocative rispetto alla realtà preesisten­te (oggetti o concetti preesistenti, scelte derivate dal mondo più soggettivo dell’autore), si ponesse come una comunicazione visiva, prevalentemente ottica, dove lo spettatore si trovasse a contatto con una strutturazione controllata in ogni sua componente spaziale e in ogni sua fase cinetica”: così l’artista.

L’acromia e la scansione spaziale omogenea e ritmica neutralizza ogni possibilità di suggestione formale di tipo evocativo o referenziale, alla maniera dell’acromia di Manzoni (è da notare che in quello stesso 1959 Colombo sperimenta anche l’uso dell’ovatta), sottraendo contemporaneamente al riguardante ogni possibile gerarchia di lettura stabilita. La superficie è regolare, le dimensioni ne valorizzano l’aspetto di macchina oggettiva se ridotte, oppure di indistinto superficiale in cui lo sguardo non trovi riferimenti prestabiliti, se ampie. Allo stesso modo, le versioni di dimensioni padroneggiabili dotate di meccanismo d’attivazione manuale pongono in primo piano il valore di congegno, e a un tempo di forte interattività, comportando un’azione fisica diretta da parte del fruitore. Le opere dotate di meccanismo elettromeccanico attivano un meccanismo di affioramenti e introflessioni delle singole porzioni di polistirolo secondo una sequenza impreventiva e mutevole, che costringe lo sguardo a trovare ogni volta, in modo ritmicamente irregolare, i propri appoggi, venendone ogni volta posto in scacco.

E’ tale flusso di accadimenti, concreti e percettivi, che rende dominante la situazione di stream sensuale, una temporalità dilatata e non lineare che induce una pulsazione continua di picchi d’attenzione. La situazione visiva tipica di questa serie di opere – nate in stretta affinità con le irregolari movenze convesse dei Rilievi intermutabili e quelle concave delle Superfici in variazione, ma rispetto ad essi di ben più ampio spettro  concettuale – comporta un atteggiamento nitidamente antispettacolare: scopo non ne è épater il riguardante, ma indurlo a una catena progressiva di assunzioni di consapevolezza rispetto alla natura e ai processi della visione e del vedere.

La loro presenza fisica non prevede il favore di captazioni sensibilistiche ma un puro darsi concreto: non sono estranee a tale posizione le riflessioni di Manzoni a proposito di “una superficie integralmente bianca (anzi integralmente incolore, neutra) al di fuori di ogni fenomeno pittorico, di ogni intervento estraneo al valore di superficie; un bianco che non è un paesaggio polare, una materia evocatrice o una bella materia, una sensazione o un simbolo od altro ancora; una superficie bianca che è una superficie bianca e basta (una superficie incolore che è una superficie incolore) anzi, meglio ancora, che è e basta: essere (e essere totale è puro divenire)”, come si legge in Libera dimensione, in “Azimuth”, 2, 1960.

Aspetto non secondario dell’esperienza visiva è che il motivo strutturale di base è una elementarissima ripartizione regolare della superficie in griglia di segmenti ortogonali. Ciò pone lo spettatore in condizione di assumere il motivo secondo clausole di tipo disegnativo, di qualificazione minima e relativamente neutra della blankness superficiale: salvo poi, a movimento attivato, vivere pienamente l’ambiguità del passaggio da una trama lineare assunta come astratta a definizione di corpi plastici dotati di specifica volumetria.

Sismostruttura, Roto-optic, After-point: colore, movimento. Il passaggio al cuore degli anni ’60 vede Colombo impegnato in una serie di pratiche intorno alla stabilità/instabilità delle strutture cromatiche, e sugli effetti squisitamente fisiologici di ambiguità e relatività percettiva del colore.

Sismostrutture, Roto-optic, After-points, affiancati da Cromostrutture e da After-structures, configurano espliciti procedimenti di tipo sperimentale cui il fruitore deve accostarsi come a dei test, l’ambiguità dei cui risultati lo può indurre a meccanismi di assunzione di consapevolezza della natura e della ragione del vedere. Se le Sismostrutture si basano, scrive Colombo, su “alcuni punti luminosi proiettati su una superficie specchiante, posta in vibrazione”, così che il percepire si instauri come esperienza essenzialmente temporale di cui avvertire l’ineffabilità e la non linearità degli sviluppi; se i Roto-optic, non estranei all’evocazione dei Rotoreliefs duchampiani, producono per altra via, la rotazione continua di due barre con tacche di colore fosforescente, la percezione in flusso di impreventive successioni di segni colorati demateriati; con After-points entra in gioco il meccanismo psicologico delle after-images, ovvero delle persistenze retiniche del percepito che una serie di flash luminosi induce a sovrapporsi nel processo di consapevolezza visiva. Qui uno schermo rotante su cui si schiude un foro è sovrapposto a una lampada che emette in stretta sequenza flash dei colori verde, blu e rosso. L’iterazione ravvicinatissima induce nel fruitore uno stratificarsi di percezioni cromatiche puntuali, la cui persistenza psicologica è assai più duratura della cadenza dei flash, così da generare vere e proprie situazioni illusorie – ma fisiologicamente appropriate – di serie di tonalità coloristiche nello spazio e nel tempo.

Notevole è osservare che sin da subito Colombo concepisce l’effettiva pienezza dell’esperienza in una situazione ambientale (“si può definire ambiente una realizzazione plastica la cui fruizione avvenga in uno stato di abi­tabilità”, egli scrive) tale da togliere al fruitore ogni possibilità di relativizzazione dell’esperienza stessa, condizionandone la plenitudine sensoriale così come peraltro prevedevano già le più ampie tra le Strutturazioni pulsanti, nate per “debordare dai limiti del campo visivo di chi osserva, al fine di uscire dalla condizione che solitamente impone all’oggetto un ruolo vagamente totemico oppure un ruolo di mo­dello di problemi o di ipotesi da dimostrare”. Queste strutture sono da intendere dunque come le necessarie premesse sperimentali delle realizzazioni ambientali di Colombo, avviate nel 1964 con la Strutturazione cinevisuale abitabile e giunte a piena maturazione con gli Spazi elastici.

Colombo, Spazio elastico, 1975

Colombo, Spazio elastico, 1975

Spazi elastici. La vicenda degli Spazi elastici si dipana dalla seconda metà degli anni ’60 su un duplice binario ormai consueto. Da un lato Colombo assume l’oggetto/quadro come campo operativo e di accadimenti visivi ad alto gradiente convenzionale, scelta alla quale non è estranea la considerazione dello straniamento delle aspettative di fruizione dello spettatore (è così dalle Strutturazioni pulsanti a lavori come Roto-optic e After-point) rispetto all’identità storica dell’opera d’arte. D’altro canto egli considera tali realizzazioni complementari, e per certi versi sperimentalmente propedeutiche, alla naturale e appropriata misura ambientale, ove la condizione spazio/temporale dell’esperienza sensoriale e psicologica si determina in modo compiuto.

Le opere in forma di quadro determinano un campo visivo codificato al quale lo spettatore attribuisce preventivamente implicazioni di proiettività e di rappresentatività. L’elementare ambiguità di percezione delle shapes geometriche per contrasto ottico sul fondo uniformemente e neutralmente bianco o nero le fa leggere come rappresentazioni di solidi in proiezione, dunque in una iniziale fuorviante natura disegnativa. Il movimento indotto alle strutture aggettanti dal congegno elettromeccanico fa sì che la prima rappresentazione mentale della visione entri in conflitto con l’assunzione di consapevolezza della natura tridimensionale delle strutture metalliche, e della loro instabilità strutturale. La collisione e il cortocircuito concettuale si producono dunque, attraverso i gradi e i tempi diversi della percezione, tra ciò che l’occhio vuole vedere e ciò di cui effettivamente fa esperienza, in un tempo non puntuale e in uno spazio fisicamente enunciato anziché proiettivo.

Un grado concettualmente ulteriore è la collocazione di shapes affini, realizzate con barre metalliche rette da fili tendenzialmente non visibili, in sospensione nello spazio fisico d’esperienza. Si tratta di figure delle geometria solida elementari, oppure articolate in modo complesso, tali da generare nello spettatore un più profondo scacco visivo. In questo caso egli è consapevole di esercitare la visione nello spazio ordinario d’esperienza, ma la presenza mobile delle strutture, il loro assumere profondità prospettiche e di campo ingannevoli rispetto a ciò che l’occhio riporta – essendo solo della mente del fruitore l’attribuire alla struttura una superficie di fondo, con relativi primo piano e punto di fuga, in realtà inesistente – e il loro darsi come figure astratte in un ambito di visioni concrete, ne rende massima l’ambiguità.

“In altre parole – scrive Colombo – si può anche definire come una costruzione sperimentale con la quale compiere rilievi di comportamento ottico e psichico del suo fruitore, il quale vi apporterà le variabili dovute alle sue reazioni fisiche e psichiche venendo ad autodeterminare, in parte, egli stesso l’immagine che percepisce, aperta ad associazioni di rapporti spazio-dinamici possibili”.

Spazi elastici: in forma di quadro. Declinazione ulteriore del concetto di spazio elastico è la costruzione di veri e propri oggetti/quadro nei quali l’indeterminatezza concettuale e percettiva della forma, della struttura, dell’immagine, si attui per altra via.

Di nuovo è in gioco, qui, la condizione a un tempo proiettiva e appropriata dello spazio, ancora la fisicizzazione d’un segno che a prima vista ha le fattezze teoriche del disegnare geometrico: ancora, soprattutto, la modificabilità arbitraria, per partecipazione attiva del fruitore, della struttura, che può essere costituita in molteplici modi, in virtù dell’elasticità dei fili metallici che fungono da segni.

E’ di nuovo, come da sempre Colombo mette in campo, il “rapporto struttura-fruitore”, che in queste dimensioni, essenziali e confinate in uno spazio simulante quello involvente lo spettatore, sa e prevede già l’ambiente totale in cui esse contemporaneamente si dicono.