Oppenheim
Meret Oppenheim, androgino spirituale, in Meret Oppenheim, catalogo, Ta Matete, Bologna, 19 gennaio – 8 aprile 2006
“Ogni idea nasce con la propria forma. Io do forma alle idee come mi vengono in testa. Nessuno sa da dove vengono le idee, portano la loro forma con sé; come Atena nacque dalla testa di Zeus con elmo e armatura, le idee mi arrivano con il loro abbigliamento”.
E’ l’irritualità del percorso, quel suo essere naturalmente, non programmaticamente, anartiste, il tratto che più, nei decenni ultimi, ha affascinato di Meret Oppenheim, sino a farne un’icona dell’avanguardia non normativa, e autenticamente radicale.
Ciò è accaduto dopo che, nel corso lungo dei decenni “eroici”, il suo agire con Giacometti e Max Ernst, con Breton e Man Ray, era stato letto nella chiave della marginalità, sotto la cappa dura a morire d’un femminile che ne faceva una compagna di strada, mai una protagonista. Certo, la sua veste plurima di modella – dell’algida e sconvolgente bellezza che le foto di Man Ray hanno fissato indelebilmente – e musa, com’è nel caso del rapporto controverso con Max Ernst, ha indotto a considerare quel suo agire irregolarmente, per lampi geniali alternati a pause, senza preoccupazioni verso l’affermazione di una fisionomia artistica a qualche titolo professionale e identificabile, una conferma dell’intendimento del suo lavoro come circostanziale, tutto sommato ancillare rispetto ai veri “maestri”.
Ebbene, è stata la storia stessa delle avanguardie a ribaltare la prospettiva. Se surrealismo è prima di tutto un atteggiamento intellettuale, se esso è deriva della norma e purissimo, bruciante stato di necessità della cosa espressiva; se surrealismo è erotica e esperienza fondamentale della differenza; se davvero arte e vita devono intersecarsi sino a deidentificarsi (di “pratica d’esistenza” dice Blanchot: e “Vivere e cessare di vivere, sono soluzioni immaginarie. L’esistenza è altrove”, ha predicato Breton) e la figura dell’artista rimontare alle radici sorgive del creatore veggente, ambiguamente sacrato, partecipe d’un altro ineffabile: se rifiuto degli statuti dell’arte storicamente definiti è questo, Meret Oppenheim è tra i rari, autentici artisti dell’avanguardia.
Oppenheim non fa l’artista, è artista. Vive arte. Semplicemente, con sulfurea lucidità, con coscienza definitiva. Non è questione di milieu, di mostre e opere e omologazioni. Vive arte a Parigi, così come a Berna.

Meret Oppenheim
Vive arte, dunque la sua è, non può essere altro che arte di donna. Il Déjeuner en fourrure val quasi da testo paradigmatico, in questo senso. Ma a me piace più ritrovarla nel filo privato privatissimo dell’invenzione grafica, della manipolazione di oggetti, in una pratica del détournement che non è figlia della classica ostranenje (“Per resuscitare la nostra percezione della vita, per rendere sensibili le cose, per fare della pietra una pietra, esiste ciò che noi chiamiamo arte”, voleva Sklovskij) ma si fa anche, con lucida forza e senza predeterminazione ideologica, détournement del genere, messa in mora del codice maschile dell’artista, inscritto arbitrariamente nella sua supposta primazia di demiurgo.
Arte di donna è in fondamentale sostanza, per Oppenheim, arte di un corpo che si sa prima dello sguardo, di una biologia dell’essere che si fa biomorfismo per ragione genetica, dall’interno e per se stesso, non per specchiamento nell’altro riguardante.
Curiosa situazione la sua. Il corpo, il suo corpo, è come divaricato. Da un lato è apparenza paradigmatica, classica e anticlassica a un tempo: Man Ray ne declina le fattezze, la fa, come altrimenti Dora Maar, statua, quasi al punto che si possa pensarla lifelike statue di lei stessa; a un tempo la colonizza come simbolo (Erotique-voilée è il titolo che egli sceglie per le foto in “Minotaure”) dell’erotica surreale: ne fa, bon gré mal gré, un oggetto del campionario surrealista. D’altro canto è entro la sua respirazione, entro il pulsare vitale che passa per nervi sangue cervello, che si genera la vita autenticamente autre delle sue immagini, intime a lei sino al punto che quasi ti chiedi, guardandole, se non ne siano mere impronte, se è possibile che vivano oltre la sua vita, se sopportino la cornice stessa dell’artistico.
E’ notevole osservare, a proposito dell’accezione di corporeo di cui Oppenheim ha intuizione sin dal principio degli anni Trenta, che esso agisce in modo fervidamente ambiguo al limite tra tattilità sensuosa – non esente da riverberi feticisti, talora – e intuizione sorgiva e vagamente sacrale della persona plastica.
Corpi plastici primigenii sono, dichiaratamente, la Urzeitvenus, Venere originaria, dea madre e corpo sacrato, e più autobiograficamente L’oreille de Giacometti, in cui la logica del ritratto, dell’amare guardando, diventa appropriazione simbolica, implicitamente cannibale: come cannibale e oscuramente sacro, tra baccanale e rito di fertilità, è, al fondo, la liturgia di Banchetto di primavera. Per le suggestioni di erotica tattile, di intendimento e assunzione straniata di materie e cose, diretta è la via che porta dal Déjeuner en fourrure, titolo non a caso scelto da Breton per le assonanze con Venere in pelliccia di Sacher-Masoch, al tardo Le Cocon (il vit).

Oppenheim, Urzeitvenus, 1933-1977
Non è peraltro meno notevole il continuo collidere di tale intimità della materia, di tale corporeità insieme auscultata e straniata, con il redoublement molteplice attraverso il teatro della maschera, del travestimento, dell’accidentalità mutevole e ingannevole (ma insieme rivelatrice di senso altro) dell’apparire.
E’ in questo senso che Oppenheim rivela una strategia concettuale dell’opera di micidiale causticità: l’oggetto, l’immagine, è di genesi femminile, ma si pensa – si pensa criticamente, con malizia intellettuale e humour – per uno sguardo maschile, forzandone proprio le aspettative e le retoriche del femminile.
La sua sovversione agisce esattamente qui, in un processo di scarti e scambi, di specchiamenti e deformazioni, che acquisisce una sorta di fluenza inarrestabile, come se anche l’artistico riproducesse, in se stesso, la circolarità infinita e metamorfica dell’esistente. Allo stesso tempo in tale flusso si manifesta la condizione espressiva sperata da Oppenheim, quella “androginia spirituale” – così dichiara l’artista stessa – in cui gli opposti si equivalgono e si unificano, coppia inscindibile della creazione.
Restano, alla fine, due figure di verità e maschera: X-Ray, teschio con gli orecchini, e Ritratto con tattoo, volto e sottrazione del volto. Il suo volto, il suo corpo, la sua androgina identità generata da donna.